Con l’elezione del presidente Andrés Manuel López Obrador, dal 2018 il Messico è entrato in una nuova fase particolarmente violenta. Venuta meno la precedente cooperazione tra funzionari statali corrotti e gruppi criminali, si è reso prioritario stabilire nuovi accordi con l’attuale amministrazione. Rapimenti ed estorsioni si sono intensificati sotto l’occhio orbo delle forze dell’ordine, che spesso evitano di intervenire per paura di ripercussioni, contribuendo a consolidare un’idea di violenza cieca, impunita e senza colpevoli.

Proprio questa idea di violenza costituisce il sostrato di Robe of Gems, esordio alla regia di Natalia López Gallardo premiato dalla giuria della 72ª Berlinale con l’Orso d’argento, e in questa idea di violenza s’intrecciando le vicende delle tre donne protagoniste. Isabel, in seguito al divorzio, si stabilisce con i figli in una vecchia villa appartenuta alla sua famiglia, dove ritrova Maria, domestica che da anni si occupa dell’abitazione e che sta affrontando il dolore del rapimento della sorella. Sui rapimenti ad Ocotitlán, nel quale è ambientata la pellicola, indaga Roberta, poliziotta che tenta strenuamente di disingannare il figlio Adán, sempre più soggetto al fascino esercitato dal mondo criminale.

In Robe of Gems la violenza è negli alberi e nelle rocce, nel cielo e nella terra, talmente radicata e inevitabile da incarnarsi nei fenomeni naturali, come nel caso del temporale. López sceglie di metterla in scena fuori campo, servendosi del curatissimo sound design di Guido Berenblum e Thomas Becka: mentre i personaggi discorrono in un altro spazio, la macchina da presa si sofferma sugli elementi naturali dell’arido paesaggio del Morelos o su dettagli di interni spogli, evidenziando il vuoto lasciato dalle persone scomparse.

Il film, fortemente influenzato nello stile visuale dal cinema di Carlos Reygadas (che di Natalia López è marito e collaboratore), si muove a cavallo tra il realista e l’onirico, attraverso lenti intermezzi che diluiscono talvolta smodatamente la narrazione. La magnifica fotografia di Adrian Durazo contribuisce ad un apparato filmico estremamente consapevole, ma al tempo stesso rischia di svuotare la violenza del suo significato a causa dell’eccessiva estetizzazione. In molti casi, infatti, la scelta di inquadrature fisse e più semplici si rivela incredibilmente efficace, come nel caso della fuga di Isabel: il suo corpo nudo e martoriato attraversa il sentiero sterrato circondato dagli alberi e si scontra con la matericità di un cancello arrugginito. Il campo lungo evidenzia l’infinita piccolezza della donna rispetto al mondo in cui ha consapevolmente scelto di entrare, convincendosi forse superbamente di poter risolvere il problema, alla maniera di molti white saviors, nonostante Maria l’avesse avvertita: “Non sai come funzionano le cose in Messico”.

Decostruendo il tempo e lo spazio, attraverso un montaggio non lineare e scelte registiche che prediligono lunghi piani sequenza e ralenti, l’autrice svuota le azioni umane di ogni valore. È vano ogni tentativo di ribellarsi allo stato delle cose: la crociata privata di Isabel le si ritorce contro nel peggiore dei modi, l’illusione di Roberta di poter esercitare il proprio potere in favore di Adán collassa, Maria si ritrova per necessità parte dello stesso sistema che l’ha privata di sua sorella. Ed ecco che quando le tre donne si ritrovano schiacciate da un potere ben più grande di loro, pressate sullo sfondo da violenti primi piani, il confine tra vittima e carnefice si dissolve. La moralità scompare e resta solo l’empatia per un pianto, quello di Maria, che è al tempo stesso dell’oppresso e del colpevole.