«Chi in vita ha provato questa gioia della creazione scientifica non la dimenticherà mai più
e anelerà sempre a rinnovarla, e non potrà che rammaricarsi che questa gioia sia riserbate a così pochi,
quando tanti potrebbero provarla, in grande o in piccolo, se il metodo scientifico
e il tempo necessario non fossero privilegio di pochi»
Pyotr Kropotkin, Memorie di un rivoluzionario

Pyotr Kropotkin è in Svizzera, ha conosciuto il movimento anarchico degli orologiai della valle del Giura ed è diventato anarchico anche lui. La prima sequenza di Unrest, dal sapore impressionistico di un quadro di Renoir, si apre sul dialogo tra quattro donne russe, intente a farsi fotografare e a discutere della situazione del cugino Pyotr e dell’anarchismo, “simile al comunismo, ma senza un governo”. Il nuovo lungometraggio di Cyril Schäublin, premio miglior regia nella sezione Encounters alla Berlinale 2022, prende il via dalle esplorazioni geografiche e cartografiche dell’anarchico russo per impostare una riflessione sul tempo e sulla società, e su come il controllo sul primo determini inevitabilmente un dominio sulla seconda.

Nella valle del Giura vivono contadini e orologiai; il tempo, o meglio la misurazione di quest’ultimo, sembra scandire ogni momento della vita di ognuno. E proprio la misurazione, il calcolo millesimale e la precisione maniacale sembrano essere il leitmotiv del film. Non solo il lavoro certosino delle orologiaie, tra cui c’è Josephine, che assembla ogni giorno il bilancino, minuscolo ingranaggio che permette il costante tic-toc degli orologi, ma anche il lavoro da cartografo di Kropotkin, quello del fotografo che cronometra i tempi di esposizione, quello del capostazione che si assicura che i treni partano in orario: ognuno partecipa all’organizzazione e al meticoloso conteggio dell’esistenza propria e della collettività.

Allo stesso modo, le inquadrature sembrano rispondere a un preciso calcolo razionale e logico: prima vedute larghe e statiche sul paesaggio, che restituiscono sempre una particolare schematicità, geometria. Poi primi piani, zoom che annullano la distanza e appiattiscono lo spazio intorno per concentrarsi, in maniera quasi ossessiva, sul dettaglio, sull’ingranaggio che gira, sulla vite che si incastra perfettamente al bullone, sul volto di chi prende parte, in quel momento, al dialogo.

Ma è proprio in quest’ingranaggio, che appare impeccabile, che Cyril Schäublin introduce ogni volta un elemento straniante, che capovolge la prospettiva distaccata e fredda delle inquadrature fisse per aggiungere una scintilla di imprevisto, di non-calcolato e non-costruito. Ogni sequenza restituisce il senso di una costruzione imperfetta, che di volta in volta esclude elementi, collocando l’essere umano ai margini e concentrandosi invece sull’inanimato, sul non-necessario, per restituire la sensazione di uno schema che, in fin dei conti, resta semplicemente un costrutto umano, frutto di un calcolo determinato.

Un calcolo che nasce in quegli anni, e del quale il microcosmo della valle del Giura diventa manifestazione: quello del tempo fordista, dove ogni secondo perso è un’occasione di guadagno sprecato, dove non c’è posto per l’inefficienza e ogni gesto dev’essere controllato e misurato. Dove non c’è spazio per il riposo e si deve continuamente essere produttivi, facendo dell’unrest, del non-riposo, dell’agitazione, la prospettiva con la quale scandire il ritmo della propria vita. Quello che Schäublin sembra suggerire è che anche l’orologio, a cui siamo abituati a fare cieco affidamento, restituisce solamente il tempo standardizzato da questa finzione perpetuata dal capitalismo nel suo bisogno di produttività.

Dunque, il tempo può essere anche qualcosa di diverso dal calcolo accurato e matematico dell’orologio, dall’inarrestabile e costante oscillare del bilancino che Josephine piazza ogni giorno con precisione? È possibile vivere seguendo ritmi e tempi diversi? Esiste anche il tempo della natura, quello non misurato dall’uomo, che spunta, inaspettato, in numerose inquadrature. I rami che ondeggiano al vento sembrano ricordarcelo, suggerirci che se il controllo del tempo rimane privilegio di quei pochi che ne rendendo dogmatica la misurazione, allora resistere significa cercare altri criteri di calcolo.

È qui che sta la potenza del film di Schäublin, nell’esortare con indizi sempre mormorati, che affiorano a malapena dal rumore esasperante degli ingranaggi meccanici, una rivoluzione che si riappropri del tempo, che sfugga al controllo sempre più stretto e serrato che il grande sistema capitalista, dalla rivoluzione industriale fino ad oggi, ha voluto imporre.