E a chi non fa né i figli né le opere cosa resta?
Questa malattia del volersi esprimere.

Negli anni ’90 il trent’enne Rocco, figlio di una ricca famiglia romana, assume la gestione di un palazzo con vista su San Pietro, dove decide di ospitare il visionario amico Mauro, diventando così mecenate di un gruppo di artisti che vivendo tra le mura dell’edificio lavorano incessantemente alla realizzazione del primo grande film di Mauro.

A partire dalla corporatura, il taglio degli occhi e del naso, lo sguardo beffardo e rivelatore da Harry Lime in The Third Man, Mauro sembra la copia esatta di Orson Welles. L’impresa stessa porta un’apparente somiglianza con l’odissea di Welles nel girare The Other Side of The Wind – il suo ultimo film, concluso dopo la morte. Il carisma e l’aurea di “genio” permettono a Mauro di attrarre a sé altri aspiranti artisti, attori e scrittori, con la promessa di girare un film al di fuori di Cinecittà e dei suoi canoni. A differenza del regista di Citizen Kane però, Mauro non ha alle spalle il successo di un genio già stabilito e la pressione che da questo deriva, bensì un palazzo in cui filmare, rifugiarsi e vivere senza mai doversi affacciare alla finestra.

Dopo quasi vent’anni dall’inizio dell’opera, Federica Di Giacomo viene chiamata con altri a fare da cameraman per concludere il colossal. Si ritrova così parte della comune di artisti del palazzo, inizia a girare con loro e tenta di trovare una qualche linea narrativa con cui legare il materiale accumulato in due decadi. In questo periodo Mauro, mai più uscito dal palazzo, si ammala morendo a 47 anni e film incompiuto. Di Giacomo è parte degli artisti/eredi dell’impresa e si assume la responsabilità di portarla a termine, fuori campo, facendo un passo indietro e diventando osservatrice e ospite silenziosa. Partendo dalla cerimonia di saluto a Mauro, la regista innesca un meccanismo di istrionica auto-riflessione nel ristretto gruppo degli artisti di vecchia guardia che vent’anni prima avevano dedicato la loro giovinezza alla creazione del film. A parte Rocco, che continua a vivere nel palazzo vendendo appartamenti con cui pagare dei poco convinti musicisti per il suo ennesimo album da cantautore autoprodotto, tutti gli altri si sono allontanati prendendo strade diverse, accomunate da un generico senso di insoddisfazione. Ritrovandosi insieme, per la prima volta dopo anni, davanti al fatto compiuto della morte del loro demiurgo e quindi all’effettiva delusione della sua promessa, il giudizio sull’opera mai conclusa e il lascito di Mauro diventa un giudizio sulle loro stesse vite.

Il processo di formulazione di questo bilancio avviene tramite una stratificazione di piani di sguardo. Il primo è quello dell’incontro, lo sguardo insofferente degli uni sugli altri, la mal sopportazione davanti allo specchio ineludibile dei vecchi compagni che, pur non avendo concluso nulla, sembrano non essersi emancipati da quel desiderio di espressione artistica e riconoscimento. Come sottolinea la più detestata tra le attrici del gruppo, con pelliccia e occhiali da sole, mentre si proiettano alcuni vecchi filmati in una stanza del palazzo: “Ma dai, ma ragazzi, non scherzate, cosa c’è da sapere? Voi state qui a farvi le pippe sulla possibilità che lui abbia fatto un capolavoro di cui noi non sappiamo nulla? Ma che siete scemi allora?”.

Qui entra in campo un ulteriore piano di sguardi, che è il fulcro del film: la contrapposizione tra l’immagine conservata dei protagonisti e la loro immagine attuale. Nel passaggio tra immagine conservata e corpo reale, il giudizio dei soggetti non può essere altro che auto-riflessivo, estetico. Ma l’immagine conservata è data dallo sguardo che catturò quell’immagine, lo sguardo di Mauro – mostrato trent’enne in un close-up dopo la prima sequenza, la cerimonia sul terrazzo del palazzo. Questo è uno sguardo costruito con uno specifico intento; le riprese di Mauro non sono documentaristiche osservazioni o filmati di famiglia, bensì scene girate per la composizione di un film, il cui senso sembra essere definito solo dall’ambigua visione, al limite del parodico, del suo regista. L’impresa di girare il film stesso è la ragione per la quale l’intera comunità era stata creata, il che sembra rendere lo sguardo di Mauro quasi un motore primo della realtà stessa dell’immagine conservata. Eppure, le scene, senza consequenzialità, raccordi, o una trama a cui rifarsi, sono momenti necessariamente scaturiti da ispirazioni, conversazioni, dal vivere insieme e l’osservarsi all’interno del palazzo. Ed è in quest’ultima consapevolezza che Di Giacomo riesce a trovare la parte vitale, l’azione artistica di questo Disaster Artist.

Il “corpo reale”, o meglio contemporaneo, dei protagonisti, è ora impresso nuovamente in immagine da Di Giacomo, e l’immagine non è qualsiasi ma è l’esatta restituzione di uno sguardo possibile a Mauro, un Mauro impresso in una memoria conservata da parte dei suoi compagni. Da qui la poetica (seppur necessaria) ipotesi che forse Il palazzo sia la finalmente realizzata opera di Mauro. Trasformando l’oggetto guardato in soggetto guardante, la deludente morale di un aspirante artista soffocato in un meccanismo di solipsismo e reclusione che l’hanno portato a non affacciarsi mai alla finestra del suo nido, diventa un’azione artistica collettiva e, malgrado le aspirazioni del suo iniziatore, una storia a tutti gli effetti.