Il pinkwashing consiste nel travestire da femministe cose che femministe non sono. È una pratica diffusa e astutamente camuffata, che consente ad aziende e brand di lucrare sulle istanze altrui, cavalcando londa del rinnovato interesse per i diritti civili. Per molti è un’ipocrisia da condannare perché svilisce il messaggio di cui si fa portatrice; per altri è tutto sommato accettabile, visto che per lo meno stabilisce degli standard di rappresentazione. Certo, questa o quell’altra azienda non sono veramente investite nella causa femminista. Però restituiscono un’immagine emancipata della donna che può servire da esempio per le generazioni future. Non è molto, ma è pur sempre qualcosa. E poi, che cosa ci si può aspettare da un brand?

Barbie, il film, non può eludere la sua identità brandizzata. E non ci tiene a farlo. È l’adattamento cinematografico di una storia aziendale, la sublimazione del branded content in una forma che trascende i limiti della pubblicità e che può rilanciare, con il suo impatto grandioso, la bambola più iconica della società capitalista. Il set design spettacolare, i riferimenti retromaniaci, le performance brillanti di Robbie e Gosling (che nella commedia trova il suo spazio privilegiato) contribuiscono alla celebrazione di un immaginario che reinventa se stesso e si fa promotore del femminismo pop.

L’operazione Barbie, in effetti, è calata alla perfezione in un’epoca in cui le aziende tendono a ricalibrare l’awareness del proprio brand in una chiave cosiddetta woke. La Barbie, canone escludente di bellezza, riscrive la propria storia, ironizzando sul suo passato e mostrandosi in una veste inedita, inclusiva e multietnica. E Greta Gerwig, con la sua voce autoriale in equilibrio tra cinema indipendente e popolare, è la migliore interprete possibile di questa riscrittura.

Già autrice di Little Women, Gerwig adatta il mito di Barbie alle spinte contemporanee, mettendo alla berlina un mondo dominato da maschi. La scrittura (sua e di Noah Baumbach) non risparmia le stoccate sarcastiche, che servono però a ragionare sulla fragilità del proverbiale “sesso forte”. Il patriarcato danneggia le donne, sì, ma anche gli uomini, suggerisce Gerwig, e vale la pena tentare di decostruirlo. Non tanto nel mondo reale, ma a Barbieland: quando gli astiosi ed esclusi Ken, con un colpo di Stato, prendono il potere e importano il patriarcato nell’utopia dalle tinte rosa, le Barbie si coalizzano  per ristabilire l’equilibrio. O meglio, per cambiarlo, insegnando ai maschi che dai propri errori si può imparare, basta mettersi nei panni degli altri.

Il messaggio di Barbie, a conti fatti, è piuttosto ecumenico e dove potrebbe essere più tagliente cede alla necessità di farsi appetibile e comprensibile a tutti. Tuttavia, non è casuale che la quasi totalità dell’azione si situi proprio a Barbieland, e non nella sua controparte reale. Gerwig sembra riconoscere che nell’utopia immaginaria e brandizzata le ragioni della lotta si diluiscono, diventano un’ombra, magari progressista, ma contaminata dal nome di un marchio. La battaglia si combatte sul campo delle idee, certo, ma nei limiti e nei paratesti delle idee stesse. E a Barbieland, le Barbie sono femministe a modo loro, limitatamente alle linee guida di Mattel.

È chiaro che la vera lotta vada calata nel mondo reale, che in Barbie compare solo in poche scene ed è più che altro un luogo a cui tendere una volta trasceso il femminismo didascalico dell’utopia. E c’è da sperare che, proprio nel mondo reale, l’eco di questo blockbuster smuova la coscienza di qualche bambina o ragazza. Non si ha, però, da pretenderlo. Barbie non è un manifesto femminista, ma un’intelligente e molto godibile operazione di pinkwashing. Tanto intelligente che, in controtendenza rispetto all’industria dell’intrattenimento, ingloba l’autorialità, invece che rimuoverla.

Barbie, mettendo Gerwig in prima linea, si appropria del discorso potenzialmente sofisticato del cinema indipendente. E così diventa inattaccabile: un’operazione di marketing massiccia si trasfigura in contenitore di idee, di stile, di gusto, appetibile al pubblico mainstream o a quello cinefilo. La presenza dell’autore legittima il prodotto, che resta tale ma diventa il migliore dei prodotti possibili. E questa è un’arma a doppio taglio. Possibilità, per chi guarda, di incontrare la visione autoriale oltre i limiti del brand, ma anche asservimento della voce individuale alle guideline delle grandi aziende.