La riflessione sulla possibilità di una comprensione umana dei campi di sterminio della Germania nazista è tutt’altro che archiviata: proprio da questo nodo doloroso – che ha a che fare con il significato etico dell’accaduto e la sua attualità – sembra prendere vita la narrazione dell’ultimo film di Christian Petzold, passato brevemente nelle sale cinematografiche italiane dopo la sua presentazione a Toronto e Roma. La vicenda di Nelly, cantante di origini ebraiche, che torna sfigurata dai campi di sterminio e vaga alla ricerca del perduto amore assume fin dalle prime immagini, notturne e misteriose, il tono di un melodramma, di un’apparente ricerca d’identità che si trasforma gradualmente nell’impossibilità di colmare un vuoto di consapevolezza, pronto a inghiottire l’intero occidente.

Nelly è una presenza senza volto (incarnando pienamente il termine utilizzato da Agamben in Quel che resta di Auschwitz): la sua sopravvivenza assume fin dall’inizio toni fantasmatici, quasi fosse uno spirito del passato che irrompe nelle maglie del presente. Rappresentata dalla “fenice”, non a caso titolo originale del film, fatta di puro desiderio e forza rigeneratrice, la donna senza volto non teme il proprio passato “promisquo” e vuole riappropriarsi di quella se stessa la cui distruzione (arrivata fino a farle perdere i connotati) non ha avuto armi per agire sulla sua essenza. Per questo la donna non teme di affrontare un’operazione plastica che le permetta di ritrovare i lineamenti di un tempo e, anche di fronte ai consigli scrupolosi del chirurgo, sa che è molto più importante poter ritrovare un amore che incontrare un nemico. Nelly vuole riconoscersi, perché la sua vita si nutre ancora di un filo teso, quello con suo marito, separato nella tragedia dalle sue origini.

È in nome di questa “accoglienza” dell’altro che inizierà un viaggio nella Germania devastata dalla guerra, nella quale il night club Phoenix si staglia con luce infernale tra i cumuli delle macerie, che diventano – nella mirabile (in quanto controllata e inflessibile) regia di Petzold, qui al suo vertice – vere e proprie quinte di uno scenario. La distruzione nasconde e accoglie distratti atti d’amore, un consumo veloce e (ancora una volta) senza volto di quella passione amorosa che ha legato la coppia bohemienne Nelly-Johnny, mentre le luci fassbinderiane del locale notturno procrastinano il gioco delle apparenze in cui i due coniugi si sfiorano, si mancano e, infine, s’incontrano. Un riconoscersi, seppur nella falsità, in un’apparenza che si è sostituita all’essenza, e forse proprio in questo sta il punto di forza del melò dalle tinte cupe. Johnny, novello Scottie, si occupa con indicibile scrupolosità di recuperare l’immagine della sua Madeleine, mentre noi spettatori soffriamo per la cecità dell’uomo, siamo trasportati nella raffinata suspence in cui ci colloca questa ennesima versione de La donna che visse due volte: quando una moglie e un marito tornano a incontrarsi dopo il tradimento? Quando è possibile riconoscersi? Quando si può ricominciare ad amare?

Sono domande inevase che trapelano nella lenta trasformazione di Nelly, che riesce a diventare nuovamente se stessa nonostante l’annientamento vissuto: non ha paura di riprendere la sua tinta di capelli artefatta, di imbellettarsi e scoprire le gambe, segnare le labbra con una linea accesa di rossetto rosso, subendo una trasformazione talmente intensa che quando riappare nella notte alla donna che l’ha salvata (e che non saprà salvarsi) si ha come l’impressione che un’altra attrice, con una nuova luce negli occhi, abbia preso il posto dell’opaca Nelly, donna che nessuno vorrebbe incontrare, scomoda testimone di una realtà assurda, puro spirito in un’epoca dell’artificio.

Non sarà la quotidianità a tradire la sua identità, non sarà un bacio a garantire il risveglio di quell’amore passato, non sarà neppure l’assunzione di un tradimento che racchiude in sé il senso di colpa e lo smarrimento dell’occidente, invece – come nelle più belle fiabe e nei miti più antichi –è affidato all’arte il compito di sciogliere ogni inganno e confusione. Nelly è Nelly quando, invitata da Johnny e dai suoi amici, inizia a cantare, dando vita a uno spettacolo surreale per una sopravvissuta appena scesa da un treno che l’ha riportata a casa dopo la tragedia. Nelly ritrova di fronte ai suoi amici tedeschi la propria voce, così intensa e penetrante, libera di riprendersi la lingua che più le piace purché sappia continuare una finzione, il lieto fine capace di alleggerire le coscienze di tutti. Eppure nell’abito rosso fuoco e nell’inesorabile resistenza della sua voce la traccia del campo, tatuata sul braccio, fa riemergere in superficie la barriera tra vittime e carnefici, lo scarto tra la possibilità reale di una testimonianza e  la sua trasformazione in racconto educato, facendoci venire il dubbio che il vero problema non siano i campi di sterminio ma la mancanza di rielaborazione in cui ancora vive la nostra società.

Il segreto del suo volto (Phoenix), regia di Christian Petzold, Germania/Polonia, 2014, 98′