Il racconto si apre su una cornice di morte. Alle pendici di una minacciosa montagna, in un villaggio del remoto Trecento italiano, un padre di famiglia, Agostino, seppellisce nel silenzio la figlioletta defunta, in un rituale di terra e gelo che la moglie Nina e il figlio maggiore Giovanni, inermi, stentano a sostenere. Il dato è immediatamente chiaro: il lutto assurdo, il dolore per la perdita di un affetto così fragile e profondo, non rappresentano la beffa di un caso, ma l’esito consapevole di un destino ereditato dai propri padri, dai padri dei propri padri, e ancora tragicamente irrisolto. Quello di una comunità che non conosce il calore del sole, perché il monte che da sempre la sovrasta, impietosamente (e letteralmente) glielo sottrae.

La terra è arida e senza vita, avvolta da un’ombra cupa che non concede speranze. I lupi vagano tutt’intorno alla ricerca di cibo. L’impasse non è più sostenibile. Le poche famiglie superstiti decidono di tentare la strada verso altri luoghi: anche un destino amaro è preferibile a quel calvario. Rimangono soltanto Agostino, Nina e Giovanni: tra solitudine e miseria la loro casa diventa l’unico luogo vivo di un villaggio ormai fantasma.

Le premesse di Monte, ultimo, bellissimo film di Amir Naderi, stanno tutte qui: nella creazione di una circostanza di conflitto con la realtà che sia totale, radicale fino all’ultimo fotogramma, sulla quale innestare l’avvento e poi il compimento di un’ossessione di sopravvivenza. Chi conosce la filmografia del regista, apolide e tra i più fertili promotori di narrazioni universali dai più diversi luoghi del mondo (il natio Iran di Ab, bâd, khâk, gli Stati Uniti di Sound Barrier, il Giappone di Cut, l’Italia alpina di quest’ultimo film), sa che lo sforzo che egli inesorabilmente mette in scena travalica la dimensione del plot e del personaggio, e abbraccia la pratica di un cinema in cui sguardo, azione ed emozione si condensano in un gesto unico, sempre più compatto, portato fino in fondo.

Monte, quel gesto, lo elabora con pazienza, accompagnando lo spettatore nei tentativi che in primis Agostino, e la sua fedele famiglia a seguire, compiono per riuscire a riscattare la loro condizione: inizialmente la strada consiste nel colmare un vuoto di tipo culturale, affacciandosi sul paese poco più a valle dove la vita scorre seguendo leggi di crudele equilibrio. Agostino varca la soglia di un luogo dove, estraneo alla religione, è considerato alla stregua di un intoccabile, un eretico che non può vendere i propri prodotti né stringere un legame di fedeltà con gli altri uomini. Si affida persino alla superstizione, all’astrazione, per vincere questa distanza che fa di lui un profugo, uno sradicato. Ma ogni tensione, ogni sforzo, a nulla riescono a portarlo, e anzi dividono la famiglia, facendo credere che Giovanni, inseguito da alcuni soldati, sia rimasto ucciso.

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È qui che il film, letteralmente, si converte. Al rigore rosselliniano della prima parte, dove la parola, seppur depurata da qualsiasi contingenza dialettale, è strumento ancora riconoscibile e praticato, Naderi contrappone per rovesciamento la messa in quadro di una svolta univoca, definitiva. La bellezza dell’intenzione che Agostino arriva a maturare, conscio dell’impossibilità di un qualsiasi altrimenti, si riflette contemporaneamente nel racconto, nel personaggio e nella forma. Agostino prende un martello e si dirige verso l’origine della propria sventura, quella montagna insormontabile che il regista inquadra come un corpo, una figura complessa al punto da suggerire un carattere: le parole cessano e iniziano i colpi, inesorabili, uno dopo l’altro, contro la muta roccia nemica che, ad ogni urlo di Agostino, sembra scalfirsi di inutili millimetri.

Da quel momento, la tensione del film perdura senza respiro per oltre quaranta minuti: Naderi la filma e la edita – tanto a livello visivo, quanto sonoro – depurandola di qualsiasi divagazione superflua, estremizzandola fino a una ritmica avanguardista, alla fisica disperata dell’erosione. Nina affianca il marito con dedizione, lo disseta, lo cura quando la fatica delle martellate ne piega le membra. Intanto, con una sintesi vibrante, il tempo accelera a una velocità feroce, superiore a quella che l’impresa necessiterebbe. Ormai kubrickianamente animali, i corpi dei protagonisti invecchiano, i loro occhi si scavano, le barbe e i capelli ingrigiscono: ma le martellate continuano. E continuano. E continuano ancora. In pochi secondi si condensano anni: ricompare il Giovanni bambino, ancora vivo, che risale la valle verso casa, e mentre corre, e corre – e corre! – il suo corpo si fa quello di un uomo, che i genitori faticano a riconoscere. Dopo un abbraccio di ricongiungimento, adesso a martellare sono in due, padre e figlio, l’uno silenziosamente fedele dell’altro, assistiti dalla madre.

Non c’è spazio per l’elaborazione razionale di questo assalto alla natura che è vento, pietra, buio, metallo, e allo stesso tempo morte che si avvicina e fiacca i ribelli alla sua legge. Esistono soltanto i colpi. Uno dopo l’altro, inquadratura dopo inquadratura, la torsione utopica del gesto non ci dice semplicemente del sogno di Agostino, ma dello stesso Cinema che lavora ai fianchi i propri limiti e confini. Era l’unica maniera possibile, l’unica sfida a cui consacrarsi. Ancora martellate. E urla. Ed echi di roccia scheggiata. Poi, d’improvviso, ecco accadere l’evento a cui non si poteva credere, l’adynaton soltanto sognato, il paradosso che tutto trasforma, riavvolge, riaccende. E lo spettatore merita semplicemente di vederlo sullo schermo, fuori dalla contrazione di qualsiasi scrittura.

Il film è compiuto.

Girato tra le vette delle Dolomiti in condizioni di lavoro spesso estreme, Monte è forse uno dei più bei film italiani degli ultimi anni. Lezione, questa, che ha a che fare non tanto con la dimestichezza verso un luogo o una cultura, ma con una precisa idea di come leggere ed affrontare la realtà: nella tensione di Agostino è insito l’ideale positivo della costruzione di un mondo e di una vita. Così lo stato febbrile del film tocca vette tali da generare, per usare le parole di Angelo Guglielmi in uno scritto sul realismo1, «robusti flussi di energia non misurabile (dunque giudicabile) col metro del “buono e cattivo” ma, più autenticamente, con “l’indice di intensità”». L’indice di intensità di Monte è necessario e impareggiabile, e il racconto si chiude nella cornice insperata della vita.

1 Angelo Guglielmi, Il romanzo e la realtà, Milano, Bompiani, 2010.