CHRISTIAN PETZOLD: SOGNI LUCIDI
Principale esponente della scuola di Berlino e autore tra i più importanti del panorama contemporaneo, giovedì 30 novembre Christian Petzold sarà ospite alla Fondazione Culturale San Fedele di Milano per presentare, in prima visione, il suo film più recente, Il cielo brucia, vincitore dell'Orso d'argento, gran premio della giuria all'ultima Berlinale.
Tra la proiezione pomeridiana delle ore 15.30 e quella serale delle 20.45, alle 18.15 Petzold terrà anche una masterclass moderata da Leonardo Strano (filmidee, FilmTv) in collaborazione con Marco Longo (Fondazione San Fedele, filmidee).
Sulla costa del Mar Baltico, dove il nord della Germania incontra la Polonia, gli amici Felix e Leon si rifugiano per qualche giorno nella casa della famiglia del primo. L'idea è di dedicarsi al lavoro, un progetto fotografico per Felix e gli ultimi ritocchi a un romanzo per Leon, ma la quiete in casa è turbata da Nadja, presenza sfuggente percepita attraverso gli incontri amorosi e notturni, il cibo sulla tavola e la silhouette in bicicletta. Mentre il caldo inaridisce l'aria e gli incendi mangiano l'entroterra, Leon fatica ad accettare la leggerezza che lo circonda e si ritrova sempre più chiuso nella sua mente.
Un'iniziativa di Fondazione Culturale San Fedele in collaborazione con Wanted Cinema, Goethe Institut-Mailand, Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti.
Proiezione: 8 Euro.
Masterclass: 5 Euro (ingresso gratuito per gli studenti della Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti e per gli abbonati a San Fedele Cinema).
LOCARNO 76: CAMPING DU LAC
Estranea alle saturazioni dell’autofiction, in Camping du Lac Éléonore Saintagnan sembra optare per un io obliquo, plurale, che la include e la trascende: mentre dà corpo al personaggio della narratrice che attraversa il suo lungometraggio d’esordio, la regista francese suggerisce che dentro quell’auto in cui la vediamo fuggire verso l’oceano, e che presto va in panne nel bel mezzo della Bretagna costringendola a sostare in un campeggio vista lago dove forse si nasconde un enorme pesce leggendario, in gioco c’è molto più che la sua sola, semplice storia. E molto più che il suo solo sguardo.
Camping du Lac, Premio speciale della giuria nell'ottimo Cineasti del presente di Locarno76, è infatti un meraviglioso catalizzatore di alterità, tutto all’insegna di una weirdness che è anche il divertito punto di incontro tra cinema del reale e cinema di genere (il fantasy, ma anche un po’ di fantascienza): a partire dalle esplorazioni del campeggio, dentro cui la protagonista si ritrova suo malgrado e che poi sembra buñuelianamente non voler abbandonare più, Saintagnan mostra l’istinto di ricodificare il qui, l’ora e il sé, immergendosi in un flusso ecfrastico che, attraverso i tanti ritratti ai suoi vicini di bungalow o la scoperta delle narrazioni che ammantano il luogo, diventa il prisma per una domanda cruciale: siamo ancora in grado di sentire la vita degli altri?
In questo processo captativo – Saintagnan personaggio ricorda una bambina che dispone nuovamente dello spazio per farsi abitare da ciò che la circonda – le digressioni di Camping du Lac ibridano epoche, immaginari e figure differenti: nulla di nuovo per l'autrice che nei suoi precedenti corti e mediometraggi ha sempre lavorato a un personalissimo mix tra documentario etnografico, film-diario e inatteso innesto di finzione. Senza tradire l’approccio relazionale di partenza, che ha significato per quasi un anno la convivenza della regista con l’eterogeneo gruppo dei residenti del camping, il film esprime momento dopo momento, e ancora una volta, che la realtà è un formidabile acceleratore di affabulazione: che le storie sono proprio lì, di fronte ai nostri occhi, ed esistono, è il caso di dirlo, anche per allenare la nostra capacità di scorgerle o elaborarle, stratificandosi nei tempi e nelle forme più curiose, dall’agiografia (le vicende del santo locale, Corentin di Quimper) alla letteratura (un riferimento dell’autrice per la creatura che abita il lago: The Fish di Russel Banks, ma dall'Italia non possiamo non pensare anche ai racconti di Gianni Celati), dall’osservazione diretta al camuffamento, dal verisimile alla fantasmagoria, in una canzone folk o in un fuoco d’artificio, generando di scorcio in scorcio, tra ritmo e percezione, un atlante microcosmico che è un modo di fare cinema e insieme una maniera di (re)immaginare il mondo.
Questa spinta verso le traiettorie del possibile potrebbe essere il motore di una soggettività liberata, che si tratti dello sguardo dell’autrice o dei suoi nuovi compagni di vita, ma va ben oltre questo esito, per così dire, circoscritto, perché Saintagnan ricorda di convergere verso il vero centro del suo film, ovvero, metonimicamente, il misterioso pesce gigante che abita il lago. Emblema dell’invisibilità di fronte alla quale non resta che aver fede – o intorno a cui architettare l’ennesimo, sconfortante business –, la creatura acquatica di Saintagnan è soltanto l’ultima delle molte che al cinema hanno osservato attonite la natura dell’uomo, rappresentando banco di prova e seconda coscienza per i suoi comportamenti. Attraverso la sua materializzazione (potrebbe trattarsi di un sogno, ma ormai è letteralmente tardi per chiederselo), Camping du Lac diviene una parabola ecologica che rimette in prospettiva la misura del nostro saper abitare un luogo. Riuscendo a legare tutte le storie minute e singolari precedentemente esplorate a un destino comune, un film che sembrava aprirsi sulla più assoluta vocazione alla fuga, al disimpegno, chiude con una dolente immagine politica che è anche uno dei più bei finali di Locarno76.
[Foto di copertina: @Michigan Films]
L'OCCHIO DI VETRO
Partendo da un personalissimo trascorso autobiografico, il documentario di Duccio Chiarini è una ricognizione sulla dolorosa parabola novecentesca italiana, sondata tra pubblico e privato, che riavvolge il nastro del passato individuando nella figura perduta del bisnonno del regista, reduce della prima guerra mondiale e poi fedelissimo esponente del partito fascista, il personaggio chiave per costruire un mosaico problematico su un secolo contraddittorio e a tutti gli effetti irrisolto, non solo per la famiglia dell'autore, ma per un paese intero.
Presentato al Festival dei Popoli del 2020, dove ha vinto il Concorso italiano, L'occhio di vetro – titolo/metafora che rimanda al personaggio e al contempo alla miopia storica che fece scivolare buona parte della nazione nelle lusinghe impossibili del ventennio, presto smascherate dalla tragedia della seconda guerra mondiale – non si affida semplicemente al ricco materiale d'archivio ufficiale a sua disposizione, ma lo aggancia alle testimonianze private della famiglia del regista, in particolare alla lettura dei diari del prozio Ferruccio, per intervallarlo a momenti di cinema in prima persona che ritraggono Chiarini accanto ai suoi genitori, già protagonisti del precedente Hit the Road, Nonna, mentre viaggia dalla natia Toscana ai luoghi della Repubblica di Salò, in cerca di prove, testimonianze, riscontri.
Il risultato è un film di disarmante sincerità – cifra strutturale nel cinema del regista, sempre sospeso tra le domande del presente e le mancate risposte del passato – dove il silenzio che circonda il "ramo" fascista della sua famiglia continua a ripresentarsi nel tempo come un inquietante, assordante rumore di fondo. L'indagine risponde al desiderio di ovviare a una rimozione ben più che soltanto privata, ma si accompagna alla consapevolezza che il fascismo è stato un clamoroso errore con cui il nostro DNA di italiani ancora oggi deve fare i conti, mettendo in gioco se necessario anche la pena verso la follia in cui tanti uomini e donne, per orgoglio o inettitudine, non si accorsero di essere complici.
In questo atto di sconfessione pietosa, a tratti commossa, del proprio passato familiare, Chiarini ribadisce il suo apparente disimpegno formale, dietro cui però si celano scelte coerentissime e identificative della sua poetica: i perfetti tempi comici dei tanti momenti di confronto con i suoi genitori, la malinconia priva di retorica con cui sintetizza in quadri elementari e sguardi bambineschi la propria percezione del mondo, la natura frustrata di una ricerca che giocoforza dialoga con le grandi ambivalenze dei sentimenti. E nella sequenza in cui legge i diari del prozio tra le sale di un albergo di Maderno sul Lago di Garda, rifugio e centro di comando della Repubblica Sociale Italiana, Chiarini ricrea per pochi istanti il suo personalissimo Shining, dove il cinema si riconnette ai fantasmi maledetti e tuttavia umani della nostra Italia.
GIGI LA LEGGE
Gigi, vigile urbano di mezza età nella friulana San Michele al Tagliamento, si dispone nell’inquadratura fronteggiando le fronde sregolate del proprio giardino domestico. La voce di un uomo non visibile in scena lo affronta, accusandolo di incuria verso quello spazio verde ormai così simile a una giungla. A chi appartiene quella voce? È davvero quella di un vicino di casa stanco dell’inerzia invasiva del protagonista, alla cui vita – alla cui mente – sempre più assomiglia quella selva oscura? Nel comico botta e risposta d’apertura, ogni certezza vacilla per configurare un dispositivo fatto di presenze non accertate e interlocuzioni forse solo immaginate, tra le quali si dispiegano le peripezie di quest’uomo che più che un rappresentante della legge ricorda un dandy animato da anarchia e curiosità.
In Gigi la legge, terzo film di Alessandro Comodin presentato a Locarno75 in Concorso internazionale dove ha conquistato il Premio speciale della giuria, tutto sembra semplice e al contempo vertiginoso e sospeso: quel giardino labirintico su cui si apre il racconto, lo scopriamo presto, è solo la sineddoche di un microcosmo stregato, non molto più grande ma ugualmente ineludibile. Una cittadina del nord-est italiano, passata alla cronaca per gli innumerevoli casi di suicidio lungo i binari della ferrovia, su cui i treni continuano indifferenti a passare; una periferia dell’anima che, prima ancora che scenario naturalistico, a Comodin interessa in quanto astrazione, geografia fatale di una pena innominabile, che Gigi pattuglia pigramente sulla sua volante, ora solo, ora in compagnia delle colleghe, lasciando a chi lo osserva sullo schermo la possibilità di percepire lo stallo del tempo, la frustrazione di continui atti mancati, il suggerirsi di una follia che è quasi tabù.
Gigi questi spettri ha imparato a gestirli con la fantasia molto urbana che lo anima, eterno giovane che sogna nuove avventure e forse nuovi amori, che trasforma gli scambi con la centralinista della stazione di polizia in un buffo e ammaliante corteggiamento, che ogni tanto devia dal percorso prestabilito semplicemente per respirare, osservare nuovi angoli di quartiere, fumare una sigaretta. In questo peregrinare senza vero scopo, compare con le logiche imponderabili dello sketch il paesaggio umano che lo circonda, ma a ben vedere non si può che leggere l’intero non-racconto di Comodin come il ritratto di una solitudine e delle sue infinite, quasi disperate fantasticherie, dove tutte le altre presenze, come dicevamo, ci sono e non ci sono, compaiono d’improvviso quando meno ce le si aspetta – sottile e sorprendente in questo senso il montaggio di João Nicolau – e forse, ma solo forse, non esistono che nella mente del protagonista.
Sta proprio qui la forza del film, nella sua ambivalenza incessante che riesce a condensare, dietro a tocchi naïf costruiti con pazienza, tutto quello che confonde il fisico e il metafisico, il visibile e l’invisibile, e ancor più puntualmente la dimensione perimetrale del linguaggio e quella pervasiva del sentimento. Perché, è giusto ricordarlo, fin da L’estate di Giacomo che proprio a Locarno ha visto undici anni fa riconoscere il suo autore, il cinema di Comodin è un cinema che alimenta la teoria sondando il calore della natura umana, regalando scorci di tenerezza e di improvvisa commozione, restituendo con sorpresa la radice emotiva del nostro dialogare con le cose, con gli altri, sempre palesando la difficoltà di guardarci o ascoltarci da fuori, di chiudere il cerchio del discorso con i nostri fantasmi, che al contrario continuano ad abitare il nostro stare al mondo, con infinite traiettorie di fuga dentro bolle sospese: proprio come in questa Twin Peaks del nord-est, con i suoi passaggi a livello e i suoi centri di salute mentale che richiamano sconfinamenti proibiti.
In questo senso, se è vero che con Gigi la legge Comodin torna “a casa”, nei luoghi di origine già esplorati col film d’esordio, è altrettanto evidente che il passo (non così falso) della sua opera seconda, I tempi felici verranno presto, che di matasse irrisolte e presenze sfuggenti era affollato, permette alla sua poetica odierna di fare uno scatto in avanti, bilanciando senza schematismi selvaticherie impertinenti e densissima intuizione del dolore. E poi c’è la provincia: quante volte l’abbiamo vista, quante volte continuiamo a vederla approcciata con ambizioni di realismo ma insufficiente, se non rara, intensità percettiva. Comodin la conosce bene, se la porta dentro anche se non ci vive da anni, e al primato certo dei dettagli o delle storie preferisce abbracciare la possibilità incerta degli eventi e delle atmosfere. La sua campagna friulana esiste, forse non si discosta da quella reale, ma al contempo non teme di trasfigurarsi, di universalizzarsi, di diventare accessibile a chiunque perché più simile a un sogno, un sogno di cui non solo Gigi potrebbe essere il sognatore.
È un cinema, quello di Comodin, che al di là di tutte le possibili necessità produttive e dei legittimi riconoscimenti, non si fa davvero con le sole risorse materiali: in un certo senso, è un cinema di cui il denaro potrebbe anche essere nemico. Per questo va riconosciuta l’importanza di un disegno produttivo, intorno al suo lavoro, che ne abbia rispettate la natura e la direzione, se una loro definizione è possibile. E per questo va compresa l’intuizione di un festival come Locarno di valorizzare nel suo Concorso internazionale un’opera che sfida certe logiche di pubblico (e di vendita) per rilanciare possibilità altre, contribuendo a immaginari autoriali ancora in costruzione.
Perché Gigi la legge si colloca altrove, nelle relazioni preparatorie con i propri protagonisti, nell’intuizione di modalità di messinscena che scombussolano il "metodo", nelle amicizie che presiedono il flusso creativo, lasciandosi cambiare dalle circostanze e dimenticandosi delle "buone" regole: nella pratica quotidiana del dubbio, dell’incertezza, che soltanto una pacata, radicale, e forse un po’ eroica disposizione d’animo può nutrire e col tempo incanalare al meglio nel film. Ci lasciamo conquistare da Gigi perché abbiamo bisogno di percorsi senza risultati, di esperimenti da amare come si ama un bambino disobbediente, perché concentrarci sulle incongruenze che un film può suggerire significa riconoscere domande nuove, e finalmente esplorare i dintorni di un cinema altrimenti soffocante, quando non già al collasso. Abbiamo bisogno di un gentile cinema inatteso: ancora una volta, lo troveremo alla sua periferia, anzi nella sua provincia.
PER NON MORIRE DI TELEVISIONE


𝗚𝗶𝗼𝘃𝗲𝗱ı̀ 𝟲 𝗼𝘁𝘁𝗼𝗯𝗿𝗲
𝗗𝗶 𝗳𝘂𝗼𝗰𝗼 𝗶𝗻 𝗳𝘂𝗼𝗰𝗼: 𝗶𝗻𝗰𝗼𝗻𝘁𝗿𝗼 𝗰𝗼𝗻 𝗝𝗼𝗻𝗻𝘆 𝗖𝗼𝘀𝘁𝗮𝗻𝘁𝗶𝗻𝗼
a cura di Fabrizio Varesco
𝗟𝗼𝘃𝗶𝗻𝗴 𝗛𝗶𝗴𝗵𝘀𝗺𝗶𝘁𝗵 di Eva Vitija | Svizzera, Germania | 2022 | 83'
◇
𝗩𝗲𝗻𝗲𝗿𝗱ı̀ 𝟳 𝗼𝘁𝘁𝗼𝗯𝗿𝗲
𝗟𝗲𝘁𝗶𝘇𝗶𝗮 𝗕𝗮𝘁𝘁𝗮𝗴𝗹𝗶𝗮 - 𝗦𝗵𝗼𝗼𝘁𝗶𝗻𝗴 𝘁𝗵𝗲 𝗠𝗮𝗳𝗶𝗮 di Kim Longinotto | Irlanda | 2019 | 97'
◇
𝗦𝗮𝗯𝗮𝘁𝗼 𝟴 𝗼𝘁𝘁𝗼𝗯𝗿𝗲
𝗣𝗶𝗲𝗿 𝗣𝗮𝗼𝗹𝗼 𝗣𝗮𝘀𝗼𝗹𝗶𝗻𝗶 𝗲 𝗹𝗮 𝗽𝗼𝗲𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗲𝗹 𝗿𝗲𝗮𝗹𝗲
𝗙𝘂𝘁𝘂𝗿𝗮 di Alice Rohrwacher, Pietro Marcello, Francesco Munzi | Italia | 2021 | 105’
◇
𝗗𝗼𝗺𝗲𝗻𝗶𝗰𝗮 𝟵 𝗼𝘁𝘁𝗼𝗯𝗿𝗲
𝗰𝗼𝗻 𝗠𝗮𝗿𝗶𝗼 𝗕𝗹𝗮𝗰𝗼𝗻𝗮̀ 𝗲 𝗠𝗮𝗿𝗰𝗼 𝗟𝗼𝗻𝗴𝗼
𝗟’𝗲𝘁𝗮̀ 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗶𝗻𝗻𝗼𝗰𝗲𝗻𝘇𝗮 di Enrico Maisto | Italia, Svizzera | 2021 | 75’
Un diario intimo e personale che rappresenta le diverse fasi del distacco e della ricostruzione della relazione genitore-figlio. Dopo i convincenti Comandante e La convocazione, accomunati pur nelle grandi differenze dall’attrazione del regista verso le figure dei propri genitori e le loro professioni di giudici, L’età dell’innocenza compie un salto che è sì il desiderio di affrontare in prima persona la materia stessa della propria intimità, ma che si rivela soprattutto una coraggiosissima transizione di dispositivo e una profonda riflessione sul cinema e le sue forme.
◇◇◇
𝑇𝑢𝑡𝑡𝑒 𝑙𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑖𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑒 𝑙𝑒 𝑚𝑎𝑠𝑡𝑒𝑟𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑎 𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑔𝑟𝑎𝑡𝑢𝑖𝑡𝑜.
Largo Firenze 1, RAVENNA

LOCARNO A MILANO: GIGI LA LEGGE
Gigi, vigile urbano di mezza età nella friulana San Michele al Tagliamento, si dispone nell’inquadratura fronteggiando le fronde sregolate del proprio giardino domestico. La voce di un uomo non visibile in scena lo affronta, accusandolo di incuria verso quello spazio verde ormai così simile a una giungla. A chi appartiene quella voce? È davvero quella di un vicino di casa stanco dell’inerzia invasiva del protagonista, alla cui vita – alla cui mente – sempre più assomiglia quella selva oscura? Nel comico botta e risposta d’apertura, ogni certezza vacilla per configurare un dispositivo fatto di presenze non accertate e interlocuzioni forse solo immaginate, tra le quali si dispiegano le peripezie di quest’uomo che più che un rappresentante della legge ricorda un dandy animato da anarchia e curiosità.
In Gigi la legge, terzo film di Alessandro Comodin presentato a Locarno75 in Concorso internazionale dove ha conquistato il Premio speciale della giuria, tutto sembra semplice e al contempo vertiginoso e sospeso: quel giardino labirintico su cui si apre il racconto, lo scopriamo presto, è solo la sineddoche di un microcosmo stregato, non molto più grande ma ugualmente ineludibile. Una cittadina del nord-est italiano, passata alla cronaca per gli innumerevoli casi di suicidio lungo i binari della ferrovia, su cui i treni continuano indifferenti a passare; una periferia dell’anima che, prima ancora che scenario naturalistico, a Comodin interessa in quanto astrazione, geografia fatale di una pena innominabile, che Gigi pattuglia pigramente sulla sua volante, ora solo, ora in compagnia delle colleghe, lasciando a chi lo osserva sullo schermo la possibilità di percepire lo stallo del tempo, la frustrazione di continui atti mancati, il suggerirsi di una follia che è quasi tabù.
Gigi questi spettri ha imparato a gestirli con la fantasia molto urbana che lo anima, eterno giovane che sogna nuove avventure e forse nuovi amori, che trasforma gli scambi con la centralinista della stazione di polizia in un buffo e ammaliante corteggiamento, che ogni tanto devia dal percorso prestabilito semplicemente per respirare, osservare nuovi angoli di quartiere, fumare una sigaretta. In questo peregrinare senza vero scopo, compare con le logiche imponderabili dello sketch il paesaggio umano che lo circonda, ma a ben vedere non si può che leggere l’intero non-racconto di Comodin come il ritratto di una solitudine e delle sue infinite, quasi disperate fantasticherie, dove tutte le altre presenze, come dicevamo, ci sono e non ci sono, compaiono d’improvviso quando meno ce le si aspetta – sottile e sorprendente in questo senso il montaggio di João Nicolau – e forse, ma solo forse, non esistono che nella mente del protagonista.
Sta proprio qui la forza del film, nella sua ambivalenza incessante che riesce a condensare, dietro a tocchi naïf costruiti con pazienza, tutto quello che confonde il fisico e il metafisico, il visibile e l’invisibile, e ancor più puntualmente la dimensione perimetrale del linguaggio e quella pervasiva del sentimento. Perché, è giusto ricordarlo, fin da L’estate di Giacomo che proprio a Locarno ha visto undici anni fa riconoscere il suo autore, il cinema di Comodin è un cinema che alimenta la teoria sondando il calore della natura umana, regalando scorci di tenerezza e di improvvisa commozione, restituendo con sorpresa la radice emotiva del nostro dialogare con le cose, con gli altri, sempre palesando la difficoltà di guardarci o ascoltarci da fuori, di chiudere il cerchio del discorso con i nostri fantasmi, che al contrario continuano ad abitare il nostro stare al mondo, con infinite traiettorie di fuga dentro bolle sospese: proprio come in questa Twin Peaks del nord-est, con i suoi passaggi a livello e i suoi centri di salute mentale che richiamano sconfinamenti proibiti.
In questo senso, se è vero che con Gigi la legge Comodin torna “a casa”, nei luoghi di origine già esplorati col film d’esordio, è altrettanto evidente che il passo (non così falso) della sua opera seconda, I tempi felici verranno presto, che di matasse irrisolte e presenze sfuggenti era affollato, permette alla sua poetica odierna di fare uno scatto in avanti, bilanciando senza schematismi selvaticherie impertinenti e densissima intuizione del dolore. E poi c’è la provincia: quante volte l’abbiamo vista, quante volte continuiamo a vederla approcciata con ambizioni di realismo ma insufficiente, se non rara, intensità percettiva. Comodin la conosce bene, se la porta dentro anche se non ci vive da anni, e al primato certo dei dettagli o delle storie preferisce abbracciare la possibilità incerta degli eventi e delle atmosfere. La sua campagna friulana esiste, forse non si discosta da quella reale, ma al contempo non teme di trasfigurarsi, di universalizzarsi, di diventare accessibile a chiunque perché più simile a un sogno, un sogno di cui non solo Gigi potrebbe essere il sognatore.
È un cinema, quello di Comodin, che al di là di tutte le possibili necessità produttive e dei legittimi riconoscimenti, non si fa davvero con le sole risorse materiali: in un certo senso, è un cinema di cui il denaro potrebbe anche essere nemico. Per questo va riconosciuta l’importanza di un disegno produttivo, intorno al suo lavoro, che ne abbia rispettate la natura e la direzione, se una loro definizione è possibile. E per questo va compresa l’intuizione di un festival come Locarno di valorizzare nel suo Concorso internazionale un’opera che sfida certe logiche di pubblico (e di vendita) per rilanciare possibilità altre, contribuendo a immaginari autoriali ancora in costruzione.
Perché Gigi la legge si colloca altrove, nelle relazioni preparatorie con i propri protagonisti, nell’intuizione di modalità di messinscena che scombussolano il "metodo", nelle amicizie che presiedono il flusso creativo, lasciandosi cambiare dalle circostanze e dimenticandosi delle "buone" regole: nella pratica quotidiana del dubbio, dell’incertezza, che soltanto una pacata, radicale, e forse un po’ eroica disposizione d’animo può nutrire e col tempo incanalare al meglio nel film. Ci lasciamo conquistare da Gigi perché abbiamo bisogno di percorsi senza risultati, di esperimenti da amare come si ama un bambino disobbediente, perché concentrarci sulle incongruenze che un film può suggerire significa riconoscere domande nuove, e finalmente esplorare i dintorni di un cinema altrimenti soffocante, quando non già al collasso. Abbiamo bisogno di un gentile cinema inatteso: ancora una volta, lo troveremo alla sua periferia, anzi nella sua provincia.
I FANTASMI DI OLIVIER
Una presenza infesta gli oltre cento anni del cinema. È quella di Irma Vep, mitica protagonista criminale della serie muta Les Vampires, realizzata nel 1915 da Louis Feuillade e passata alla storia per l'interpretazione della leggendaria Musidora. Olivier Assayas aveva già rivisitato nel 1996 il film e l'icona, inventandosi nella Parigi contemporanea un set molto vivo e un po' sconsclusionato in cui di Les Vampires il vecchio regista in declino René Vidal, interpretato da Jean-Pierre Léaud, girava un remake, attraversato dal corpo e dello sguardo alieni di Maggie Chung, promessa del cinema di Hong Kong e poi compagna di Assayas per diversi anni. Oggi il regista francese scrive e realizza un film per la piattaforma HBO lungo quasi otto ore (lo si può chiamare serie, ma non conviene abbandonarsi a troppo sommarie definizioni), con protagonisti Alicia Vikander e Vincent Macaigne, che sta a metà tra il remake e il sequel, in una zona di confine tra il gusto di tornare sulle proprie ossessioni passate e il bisogno deliberatamente sentimentale di tracciare un bilancio su se stessi e sulle intuizioni del cinema più recente.
Anche per questo Irma Vep può non piacere, specialmente al pubblico più fedele ai crismi della serialità consolidata. È un oggetto gioiosamente intellettuale, cinefilo e quasi autoreferenziale, che procede per adiacenze narrative al limite della dispersione e non per progressioni e conflitti portanti. È un gioco di scatole cinesi in cui a intrecciarsi sono la vita sul set di un ulteriore remake (ebbene sì, una serie per la tv), le scene in formato anamorfico di questo nuovo "progetto", estratti generosi e significativi del muto di Feuillade (in una sorta di lezione non dichiarata di analisi del film), le memorie di Musidora rimesse in scena come digressioni sul set del 1915 e, non ultima, la parabola autoriale e biografica dello stesso Assayas, che nel Vidal di Macaigne trova qui un alter ego al quadrato, con tanto di sedute psicanalitiche e sogni a costellarne ansie, crisi e infinite immaginazioni.
Fulcro della vicenda è la diva Mira Harberg, interpretata da Vikander, ma a partire da questa figura di attrice blockbuster molto autoconsapevole e alla ricerca di svolte personali, che (finalmente) si concede una parentesi artistica su un set europeo nei panni misteriosi di Irma Vep, capiamo che il vero protagonista del film è proprio il cinema. Non tanto o non solo il cinema da finanziare, organizzare, mettere in piedi e concretamente girare – binario comunque portante del racconto: in tanti momenti Irma Vep richiama con forza Effetto notte e quella fitta rete di incontri, sortite, empasse, capricci, seduzioni e bugie di truffautiana memoria; ma soprattutto il cinema in quanto oggetto culturale sempre più sfuggente e ineffabile, intorno alla cui identità e funzione grava ormai il peso insopportabile dell'industria, dei big data, degli avvocati e – in sintesi – delle stesse piattaforme. Per questo Irma Vep apre un canale privilegiato a chi ha conosciuto, magari in tempo reale, il film molto libero del '96, e oggi rivive l'emozione di una storia che lascia percepire molto bene tutto quello che è successo al cinema – e potremmo dire alla cultura digitale tutta – tra la metà degli anni Novanta e il nostro tempo.
Molti personaggi della serie si interrogano in qualche maniera – e con differenti sfumature, intelligentemente studiate in scrittura – sul destino del cinema, che tocca le loro vite e li riguarda da vicino. Ancora una volta, come già si osservava su Sils Maria, Personal Shopper e Double Vies, Assayas porta la riflessione sul cambiamento dell'immagine e della parola nell'era digitale all'interno dei corpi e delle relazioni, tra pubblico e privato e sotto la noia ingombrante della sovraesposizione mediatica. Lo stesso respiro seriale si dissolve oltre ogni tentativo di equilibrata climax drammaturgica: i discorsi si moltiplicano, come frammenti di una riflessione in cui trovano posto, di volta in volta, la cancel culture e il rapporto tra sguardo autoriale (maschile) e ricezione del pubblico, la nostalgia per un cinema puro ed estraneo a qualsiasi compromesso, le etichette classificatorie come strumenti di contrattazione ("È un high-concept movie femminista con protagonista una supereroina, ok?", esclama a un certo punto l'agente americana di Mira per convincerla ad accettare l'ennesimo ruolo commerciale), fino a non meno importanti domande sull'appropriazione culturale e sulla riduzione del medium a mero content, anche quando l'arte si professa indipendente. Proprio perché le riflessioni si propagano di personaggio in personaggio e di bocca in bocca, l'aria che si finisce per respirare è proprio quella di un irredimibile – e sia chiaro, anche molto legittimo e divertente – relativismo, di fronte al quale resta sospesa o continuamente rimandata una questione centrale: perché, di fronte alla smaterializzazione del nostro orizzonte, continuiamo a fare quello che facciamo? Perché, soprattutto, continuiamo a fare cinema? A fare film?
Ed è qui che si rivela una delle caratteristiche più convincenti di Irma Vep, quella di proporsi come un brillante metafilm sul rapporto tra istanza creativa e tensione critica verso ciò che è venuto prima: dimensioni che per Assayas sono naturalmente continue ma che oggi tendono ad essere sempre più sclerotizzate dalle contaminazioni derivative e interessate del post-tutto, e pur considerando l'ipertesto dentro cui siamo immersi, risultano paradossalmente sempre più lontane tra loro. Rifare Les Vampires e, soprattutto, rifare Irma Vep significa per Assayas ricordare "l'assoluta novità che spesso emerge dall'osservazione e dalla reinvenzione dell'antico", per citare una breve frase da A.O. Scott e dal suo recente Elogio della critica, ma al contempo farlo con un autentico desiderio di scoperta, di senso, che è motore della critica più autentica e perimetro di gioco per ogni possibile nuova creazione. Proprio come il regista/magus Kenneth Anger, Assayas rievoca l'angelo caduto del cinema per permettere al cinema di accedere (nuovamente) alla luce.
Che questa luce passi attraverso percorsi fantasmatici, è cosa ormai ben nota dagli ultimi anni di cinema di Assayas. Quello che a Mira viene chiesto in fondo è di credere all'invisibile, lasciandosi guidare dalla presenza di Irma Vep dentro al set e specialmente fuori. Ma a confrontarsi con l'invisibile è lo stesso René-Assayas, che incontra in sogno il fantasma di Maggie Chung, e non teme di sovrapporre la sua immagine (rimpianta) a quella di Alicia Vikander, nella finestra temporale comune in cui, dentro alla tuta sinuosa di Irma Vep, entrambe hanno percorso i tetti notturni di Parigi. Irma Vep è l'immagine mentale intorno a cui tutto si coordina: il lavoro di Assayas, i personaggi del film, il film nel film, fino all'ultimo cortocircuito di senso disponibile nel racconto, sono resi possibili dal fatto che il cinema, per citare Roberto Calasso e la teoria del figmentum nel suo Allucinazioni americane, "mette nella condizione di poter utilizzare come feticcio la totalità dei fantasmi psichici, di rendere cosa il fantasma". Di dare consistenza a un sogno perduto, il cui corpo però può attraversare le pareti, scivolando non osservato nella (non) vita degli altri.
A un certo punto René lo afferma candidamente: "I fantasmi hanno poco a che fare con la morte, ma con quello che è morto dentro di noi". Come per Assayas, anche per René fare per la seconda volta lo stesso film significa riconciliarsi con un momento della propria vita con cui non è ancora pacificato, ma a ben vedere tutta la serie è il meraviglioso affresco di un'umanità divisa tra passato e presente, che si perde, entra in contatto o in intimità, si ritrova in piena notte in camere d'albergo dove non dovrebbe stare: un'umanità che cerca di abbracciare la vita, quella buona e quella meno buona, per procedere in una qualche direzione nel tempo. Che questi sentimenti si intreccino alla lavorazione di un film non è peregrino: l'esistenza e l'arte procedono di pari passo, la prima potrebbe anche imitare la seconda, entrambe scoprono un senso se sono disposte a questionare il mondo, a trovare la parte migliore di sè.
(grazie a Leonardo Strano per il confronto)
LOCARNO 75: LA LEGGE DEL CUORE
Gigi, vigile urbano di mezza età nella friulana San Michele al Tagliamento, si dispone nell’inquadratura fronteggiando le fronde sregolate del proprio giardino domestico. La voce di un uomo non visibile in scena lo affronta, accusandolo di incuria verso quello spazio verde ormai così simile a una giungla. A chi appartiene quella voce? È davvero quella di un vicino di casa stanco dell’inerzia invasiva del protagonista, alla cui vita – alla cui mente – sempre più assomiglia quella selva oscura? Nel comico botta e risposta d’apertura, ogni certezza vacilla per configurare un dispositivo fatto di presenze non accertate e interlocuzioni forse solo immaginate, tra le quali si dispiegano le peripezie di quest’uomo che più che un rappresentante della legge ricorda un dandy animato da anarchia e curiosità.
In Gigi la legge, terzo film di Alessandro Comodin presentato a Locarno75 in Concorso internazionale dove ha conquistato il Premio speciale della giuria, tutto sembra semplice e al contempo vertiginoso e sospeso: quel giardino labirintico su cui si apre il racconto, lo scopriamo presto, è solo la sineddoche di un microcosmo stregato, non molto più grande ma ugualmente ineludibile. Una cittadina del nord-est italiano, passata alla cronaca per gli innumerevoli casi di suicidio lungo i binari della ferrovia, su cui i treni continuano indifferenti a passare; una periferia dell’anima che, prima ancora che scenario naturalistico, a Comodin interessa in quanto astrazione, geografia fatale di una pena innominabile, che Gigi pattuglia pigramente sulla sua volante, ora solo, ora in compagnia delle colleghe, lasciando a chi lo osserva sullo schermo la possibilità di percepire lo stallo del tempo, la frustrazione di continui atti mancati, il suggerirsi di una follia che è quasi tabù.
Gigi questi spettri ha imparato a gestirli con la fantasia molto urbana che lo anima, eterno giovane che sogna nuove avventure e forse nuovi amori, che trasforma gli scambi con la centralinista della stazione di polizia in un buffo e ammaliante corteggiamento, che ogni tanto devia dal percorso prestabilito semplicemente per respirare, osservare nuovi angoli di quartiere, fumare una sigaretta. In questo peregrinare senza vero scopo, compare con le logiche imponderabili dello sketch il paesaggio umano che lo circonda, ma a ben vedere non si può che leggere l’intero non-racconto di Comodin come il ritratto di una solitudine e delle sue infinite, quasi disperate fantasticherie, dove tutte le altre presenze, come dicevamo, ci sono e non ci sono, compaiono d’improvviso quando meno ce le si aspetta – sottile e sorprendente in questo senso il montaggio di João Nicolau – e forse, ma solo forse, non esistono che nella mente del protagonista.
Sta proprio qui la forza del film, nella sua ambivalenza incessante che riesce a condensare, dietro a tocchi naïf costruiti con pazienza, tutto quello che confonde il fisico e il metafisico, il visibile e l’invisibile, e ancor più puntualmente la dimensione perimetrale del linguaggio e quella pervasiva del sentimento. Perché, è giusto ricordarlo, fin da L’estate di Giacomo che proprio a Locarno ha visto undici anni fa riconoscere il suo autore, il cinema di Comodin è un cinema che alimenta la teoria sondando il calore della natura umana, regalando scorci di tenerezza e di improvvisa commozione, restituendo con sorpresa la radice emotiva del nostro dialogare con le cose, con gli altri, sempre palesando la difficoltà di guardarci o ascoltarci da fuori, di chiudere il cerchio del discorso con i nostri fantasmi, che al contrario continuano ad abitare il nostro stare al mondo, con infinite traiettorie di fuga dentro bolle sospese: proprio come in questa Twin Peaks del nord-est, con i suoi passaggi a livello e i suoi centri di salute mentale che richiamano sconfinamenti proibiti.
In questo senso, se è vero che con Gigi la legge Comodin torna “a casa”, nei luoghi di origine già esplorati col film d’esordio, è altrettanto evidente che il passo (non così falso) della sua opera seconda, I tempi felici verranno presto, che di matasse irrisolte e presenze sfuggenti era affollato, permette alla sua poetica odierna di fare uno scatto in avanti, bilanciando senza schematismi selvaticherie impertinenti e densissima intuizione del dolore. E poi c’è la provincia: quante volte l’abbiamo vista, quante volte continuiamo a vederla approcciata con ambizioni di realismo ma insufficiente, se non rara, intensità percettiva. Comodin la conosce bene, se la porta dentro anche se non ci vive da anni, e al primato certo dei dettagli o delle storie preferisce abbracciare la possibilità incerta degli eventi e delle atmosfere. La sua campagna friulana esiste, forse non si discosta da quella reale, ma al contempo non teme di trasfigurarsi, di universalizzarsi, di diventare accessibile a chiunque perché più simile a un sogno, un sogno di cui non solo Gigi potrebbe essere il sognatore.
È un cinema, quello di Comodin, che al di là di tutte le possibili necessità produttive e dei legittimi riconoscimenti, non si fa davvero con le sole risorse materiali: in un certo senso, è un cinema di cui il denaro potrebbe anche essere nemico. Per questo va riconosciuta l’importanza di un disegno produttivo, intorno al suo lavoro, che ne abbia rispettate la natura e la direzione, se una loro definizione è possibile. E per questo va compresa l’intuizione di un festival come Locarno di valorizzare nel suo Concorso internazionale un’opera che sfida certe logiche di pubblico (e di vendita) per rilanciare possibilità altre, contribuendo a immaginari autoriali ancora in costruzione.
Perché Gigi la legge si colloca altrove, nelle relazioni preparatorie con i propri protagonisti, nell’intuizione di modalità di messinscena che scombussolano il "metodo", nelle amicizie che presiedono il flusso creativo, lasciandosi cambiare dalle circostanze e dimenticandosi delle "buone" regole: nella pratica quotidiana del dubbio, dell’incertezza, che soltanto una pacata, radicale, e forse un po’ eroica disposizione d’animo può nutrire e col tempo incanalare al meglio nel film. Ci lasciamo conquistare da Gigi perché abbiamo bisogno di percorsi senza risultati, di esperimenti da amare come si ama un bambino disobbediente, perché concentrarci sulle incongruenze che un film può suggerire significa riconoscere domande nuove, e finalmente esplorare i dintorni di un cinema altrimenti soffocante, quando non già al collasso. Abbiamo bisogno di un gentile cinema inatteso: ancora una volta, lo troveremo alla sua periferia, anzi nella sua provincia.
BEST OF 2021
In seguito alla chiusura delle sale e allo stop delle produzioni molti film previsti per il 2020 hanno visto la loro uscita slittare direttamente al 2021, "caricando" questa stagione cinematografica di opere dal grande interesse, di ogni genere e da tutto il mondo.
Con soddisfazione abbiamo assistito a un anno in cui un certo cinema italiano è riuscito a proporre alla scena internazionale molti lungometraggi di sicura ambizione. Non parliamo dei lavori dei grandi maestri, spesso purtroppo bloccati da un manierismo che non lascia scampo, quanto dei film di cineasti che spesso si muovono ai margini delle grandi produzioni, e che forse proprio grazie a questa "marginalità" si sono dimostrati in grado di raccontare qualcosa di nuovo, allontanandosi coscientemente da canoni e maniera. Ci riferiamo a opere di registi come Michelangelo Frammartino, Giovanni Cioni, Bonifacio Angius, Jonas Carpignano, Fabrizio Ferraro, ma anche all'affermazione di giovani promesse come Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis ed Enrico Maisto.
Sulla scena internazionale abbiamo invece notato finalmente la presenza di numerose opere firmate da registe, come Celine Sciamma, Julia Ducournau, Joanna Hogg, Audrey Diwan, Maureen Fazendeiro ed Elisabeth Perceval, che sono riuscite a ricavarsi uno spazio importante grazie anche a film che lanciano una sfida a un potere patriarcale ancora troppo presente nel cinema di tutto il mondo.
Nella nostra classifica generale (qui il video montato da Astrid Ardenti) vi abbiamo proposto 15 film selezionati dalla redazione, che ribadiamo qui:
Memoria, Apichatpong Weerasethakul
Diários de Otsoga, Maureen Fazendeiro, Miguel Gomes
Bad Luck Banging or Loony Porn, Radu Jude
Titane, Julia Ducournau
I Giganti, Bonifacio Angius
Annette, Leos Carax
Il buco, Michelangelo Frammartino
What Do We See When We Look at the Sky?, Alexandre Koberidze
Dal pianeta degli umani, Giovanni Cioni
Petite Maman, Céline Sciamma
The Card Counter, Paul Schrader
Re Granchio, Alessio Rigo De Righi, Matteo Zoppis
Drive My Car, Ryûsuke Hamaguchi
The Souvenir Part II, Joanna Hogg
Nous disons révolution, Elisabeth Perceval, Nicolas Klotz
A seguire le top 10, spesso in ordine sparso, dei membri della redazione e dei collaboratori di Filmidee:
ASTRID ARDENTI
Diários de Otsoga, Maureen Fazendeiro e Miguel Gomes
Il buco, Michelangelo Frammartino
Spencer, Pablo Larraín
A Chiara, Jonas Carpignano
A Night of Knowing Nothing, Payal Kapadia
Re Granchio, Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis
Memoria, Apichatpong Weerasethakul
Petite Maman, Céline Sciamma
Vengeance Is Mine, All Others Pay Cash, Edwin
Bad Luck Banging or Loony Porn, Radu Jude
Bonus:
Scum Mutation, Ov
Ira - Iosonouncane
LUCIANO BARISONE
Aya, Simon Coulibaly Gillard
Dal pianeta degli umani, Giovanni Cioni
Petite Maman, Céline Sciamma
Il Potere del Cane, Jane Campion
Marx può aspettare, Marco Bellocchio
Al Naher, Ghassan Salhab
One Second, Zhang Yimou
The Hand of God, Paolo Sorrentino
A Chiara, Jonas Carpignano
West Side Story, Steven Spielberg
MARIO BLACONÀ
Bad Luck Banging or Loony Porn, Radu Jude
Nous disons révolution, Nicolas Klotz ed Elisabeth Perceval
France, Bruno Dumont
Dal pianeta degli umani, Giovanni Cioni
Zeros and Ones, Abel Ferrara
Il buco, Michelangelo Frammartino
Titane, Julia Ducournau
I Giganti, Bonifacio Angius
Memoria, Apichatpong Weerasethakul
La veduta luminosa, Fabrizio Ferraro
Bonus:
Zero Lenght Spring, Ross Meckfessel
Études from an inner garden, Gal Orsolya
Bros, Romeo Castellucci
CARLOTTA CENTONZE
Marx può aspettare, Marco Bellocchio
La persona peggiore del mondo, Joachim Trier
L’età dell’innocenza, Enrico Maisto
Hive, Blerta Basholli
Scompartimento n.6, Juho Kuosmanen
Summer of soul, Ahmir "Questlove" Thompson
Annette, Leos Carax
Titane, Julia Ducournau
L'Événement, Audrey Diwan
Drive My Car, Ryûsuke Hamaguchi
EMILIANO DAL TOSO
Compartment No. 6, Juho Kuosmanen
The Hand of God, Paolo Sorrentino
Titane, Julia Ducournau
L'Événement, Audrey Diwan
France, Bruno Dumont
The Card Counter, Paul Schrader
Last Night in Soho, Edgar Wright
Bad Luck Banging or Loony Porn, Radu Jude
Il palazzo, Federica Di Giacomo
Life of Crime 1984-2020, Jon Alpert
Bonus
How Do You Measure a Year?, Jay Rosenblatt
ALESSANDRO DEL RE
What Do We See When We Look at the Sky?, Alexandre Koberidze
Drive My Car, Ryûsuke Hamaguchi
France, Bruno Dumont
A Night of Knowing Nothing, Payal Kapadia
Re Granchio, Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis
Bad Luck Banging or Loony Porn, Radu Jude
In Front of Your Face, Hong Sang-soo
El Gran Movimiento, Kiro Russo
Concierto para la batalla de El Tala, Mariano Llinás
La Traversée, Florence Miailhe
ALBERTO DIANA
A Chiara, Jonas Carpignano
Dal pianeta degli umani, Giovanni Cioni
Diários de Otsoga, Maureen Fazendeiro e Miguel Gomes
I Giganti, Bonifacio Angius
L'Événement, Audrey Diwan
Qui rido io, Mario Martone
Sis dies corrents, Neus Ballús
The Card Counter, Paul Schrader
The First 54 Years, Avi Mograbi
Titane, Julia Ducournau
MARCO LONGO
A Glitch in the Matrix, Rodney Ascher
Benedetta, Paul Verhoeven
Bad Luck Banging or Loony Porn, Radu Jude
The Card Counter, Paul Schrader
Marx può aspettare, Marco Bellocchio
Nous disons révolution, Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval
Pathos Ethos Logos, Joaquim Pinto e Nuno Leonel Coelho
Diários de Otsoga, Maureen Fazendeiro e Miguel Gomes
What Do We See When We Look at the Sky?, Alexandre Koberidze
Wheel of Fortune and Fantasy, Ryûsuke Hamaguchi
Bonus:
Nucleo, Alessandra Cristiani (Testimonianze ricerca azioni XII, Genova)
Skinned, Mike Hoolboom
The Death of David Cronenberg, David Cronenberg
Collapsed In Sunbeams, Arlo Parks
Dave, David Burd/Jeff Schaffer
VANESSA MANGIAVACCA
Petite Maman, Céline Sciamma
L'Événement, Audrey Diwan
Museum of the revolution, Srđan Keča
Drive my car, Ryûsuke Hamaguchi
Spencer, Pablo Larraín
Re Granchio, Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis
Bad Luck Banging or Loony Porn, Radu Jude
Quo Vadis Aida, Jasmila Žbanić
Madres Parallelas, Pedro Almodovar
Dal Pianeta degli Umani, Giovanni Cioni
Bonus
Swallow the Universe, Nieto
FRANCESCA MONTI
Annette, Leos Carax
What Do We See When We Look at the Sky?, Alexandre Koberidze
The Souvenir Part II, Joanna Hogg
Drive My Car, Ryûsuke Hamaguchi
I Giganti, Bonifacio Angius
The French Dispatch, Wes Anderson
Bergman Island, Mia Hansen-Løve
Ariaferma, Leonardo Di Costanzo
Last Night in Soho, Edgar Wright
Azor, Andreas Fontana
DAVIDE PALELLA
Eartheartheart, Daïchi Saïto
Come Here, Anocha Suwichakornpong
Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time, Hideaki Anno
Un monde flottant, Jean-Claude Rousseau
From Bakersfield To Mojave, James Benning
Re Granchio, Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis
Diários de Otsoga, Maureen Fazendeiro e Miguel Gomes,
Memoria, Apichatpong Weerasethakul
Mad God, Phil Tippett
The Card Counter, Paul Schrader
Bonus
Shingeki no kyojin, Hajime Isayama
Bright Green Field, Squid
DAVIDE PEREGO
I Giganti, Bonifacio Angius
France, Bruno Dumont
Il Signor Bachman e la sua classe, Maria Speth
Un autre monde, Stéphane Brizé
Bad Luck Banging or Loony Porn, Radu Jude
Il buco, Michelangelo Frammartino
Diários de Otsoga, Maureen Fazendeiro e Miguel Gomes
Azor, Andreas Fontana
Competencia oficial, Gastón Duprat e Mariano Cohn
Petite Maman, Céline Sciamma
DANIELA PERSICO
The Souvenir Part II, Joanna Hogg
Memoria, Apichatpong Weerasethakul
Il buco, Michelangelo Frammartino
Diários de Otsoga, Maureen Fazendeiro e Miguel Gomes
Titane, Julia Ducournau
The power of the dog, Jane Campion
Nous disons révolution, Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval
Dal pianeta degli umani, Giovanni Cioni
Re Granchio, Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis
Petite Maman, Céline Sciamma
EMANUELE SACCHI
Drive My Car, Ryûsuke Hamaguchi
Annette, Leos Carax
The Card Counter, Paul Schrader
The Girl and the Spider, Ramon e Silvan Zürcher
Illusions perdues, Xavier Giannoli
Bad Luck Banging or Loony Porn, Radu Jude
Faya Dayi, Jessica Bashir
I Giganti, Bonifacio Angius
Old, M. Night Shyamalan
Wheel of Fortune and Fantasy, Ryûsuke Hamaguchi
ALESSANDRO STELLINO
Il buco, Michelangelo Frammartino
Bad Luck Banging or Loony Porn, Radu Jude
The Card Counter, Paul Schrader
Diários de Otsoga, Maureen Fazendeiro e Miguel Gomes
Drive My Car, Ryûsuke Hamaguchi
I Giganti, Bonifacio Angius
Nous disons révolution, Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval
Re Granchio, Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis
The Souvenir Part II, Joanna Hogg
McCartney 3, 2, 1, Zachary Heinzerling
LEONARDO STRANO
Nous disons révolution, Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval
Il buco, Michelangelo Frammartino
No sudden move, Steven Soderbergh
Petite Maman, Céline Sciamma
The girl and the spider, Ramon e Silvan Zürcher
Drive my car, Ryûsuke Hamaguchi
Ariaferma, Leonardo di Costanzo
Mad god, Phil Tippet
Diários de Otsoga, Maureen Fazendeiro e Miguel Gomes
Sis dies corrientes, Neus Ballús i Montserrat
Bonus:
Contrapposto Studies, Bruce Nauman, Punta della Dogana, Venezia
How Beautiful Life Can Be, The Lathums
Grazie a tutte le collaboratrici e a tutti i collaboratori per il loro lavoro, la loro intelligenza e la loro sensibilità.
(Il Best of 2021 è stato curato da Mario Blaconà)
POPOLI 62: L'ETÀ DELL'INNOCENZA
Fin dal suo titolo, il terzo film del trentatreenne Enrico Maisto inquadra una stagione della vita da cui prendere congedo, e al contempo l'ineludibile legame tra l'esistenza relazionale e quella creativa. Dopo i convincenti Comandante e La convocazione, accomunati pur nelle grandi differenze dall'attrazione del regista verso le figure dei propri genitori e le loro professioni di giudici, L'età dell'innocenza compie un salto che è sì il desiderio di affrontare in prima persona la materia stessa della propria intimità, a partire dalla trattativa emotiva e comunicativa che stringe Maisto a sua madre sollevando oggi interrogativi impellenti, ma si rivela soprattutto una coraggiosissima transizione di dispositivo e una profonda riflessione sul cinema e le sue forme.
Sulla scia di un approccio che in Italia abbiamo (in pochi) potuto scoprire attraverso i documentari di Ross McElwee, di cui con naturalezza eredita la possibile poetica, Maisto si chiede in sostanza una cosa talmente disgregante e paradossale da risultare spesso, per chiunque e non solo per i figli unici come lui, di difficilissima verbalizzazione: fin dove ho il coraggio di esistere, al di fuori del cerchio amoroso che mi ha nutrito e da cui ancora oggi mi sento chiamato, se a questo nido io ho negato, per paura del giudizio o della repressione, l'accesso pieno alla mia identità? A partire da questa domanda complessa il film si dispiega in un mirabile caleidoscopio di istantanee familiari, sempre tenere e talvolta crudeli, in cui a essere messe in campo sono le linee primarie di una psicanalisi universale: da una parte l'immagine di una madre avanti negli anni che, come tutte le madri imperfette nella loro perfetta amorevolezza, rivolge al figlio ormai adulto la richiesta utopica di certificarle la sua felicità, la sua realizzazione, e così liberarla per sempre; dall'altra, le lucidissime prove di fragilità che il figlio offre suo malgrado ai propri genitori – su tutte, una divertentissima fuga da un calabrone – ammettendo la fatica di esporsi al mondo più di quanto finora sia già stato costretto a fare. Un serissimo gioco insomma, a suo modo performativo, in cui nessuno ha mai soltanto torto o soltanto ragione, ma ciascuno corteggia il proprio fantasma senza davvero essere in grado di eluderlo, perché il dolore che questo comporta appare sempre meno naturale del conforto cui l'infanzia della vita ci ha abituati.
Tuttavia è proprio qui che il film, in pieno rispetto della sua vocazione documentaristica, compie il salto libero e audace di cui si accennava. Potremmo dire che non si ferma al contenuto e lo trasporta nella forma, ma vorremmo essere più precisi: è in grado di trovarlo, nella forma, che per questa ragione diventa il vero cardine dell'opera e rende L'età dell'innocenza l'high-concept movie che quasi certamente il suo autore desiderava esprimere. Perché il film di Maisto non è semplicemente una riflessione sull'ingresso nella vita adulta, sul riconoscimento paritario delle proprie figure genitoriali, e naturalmente sul racconto del sé che un'operazione di messa a nudo è in grado di generare: il film, più puntualmente, è un ipertesto di immagini sparse nel tempo e nello spazio, una sorta di geografia emotiva fatta di richiami interni, echi sottili, provocazioni inconsce, ritorni inaspettati, elaborare il quale significa accogliere il tempo e la vita che verranno.
Così carico delle rifrazioni di un'identità in costruzione – dai poster dei supereroi a quelli dei film d'autore, dall'archivio dischiuso dei primi esperimenti cinematografici a quello riconfigurato dei vecchi filmini delle vacanze, passando naturalmente dalla lettura diaristica, volutamente goffa e lacunosa, del quotidiano e dei suoi eventi –, il film diventa dunque un esorcismo dell'impossibilità di dirsi all'altro attraverso un tuffo verticale nel medium cui costitutivamente si aggrappa. Perciò quando la madre afferra la camera che Maisto per buona parte del film tiene in mano, filmando lei e rimanendo fuori scena, e scherzando proclama al figlio l'avvento della propria vendetta, in quel momento si realizza ciò che probabilmente in assenza del medium non sarebbe mai accaduto alla stessa maniera: è attraverso la camera che il figlio chiede alla madre di essere letto, di essere compreso, di accogliere la sua commozione.
Se c'è un'immagine che letteralmente perturba in un simile, grande, archivio biografico – ma potremmo dire biologico, vista l'importanza dei corpi e del tempo in questo intreccio di vite a cui spontaneamente ci sentiamo vicini –, è forse quella di una vecchia recita scolastica in cui, bambino, il regista interpreta il monologo del clown bianco, figura che storicamente incarna le caratteristiche di un contesto culturale e sociale dominante, un sistema di senso egemone che ambisce all'unicità e da cui occorre riscattarsi; spunto appropriato perché L'età dell'innocenza non parla soltanto della possibilità di trasformarsi da figli in adulti, amanti stabili, e persino padri, ma suggerisce di farlo abbracciando l'occasione di evadere il "senso unico" su cui è costruito il nostro corso sociale, sapendo al contempo salvarsi dal rischio del "non senso". Il film diventa, a partire da questo dettaglio, una sorta di liberissimo itinerario di clown-poiesi che investe tanto il piano della vita quanto quello della stessa creatività, in una sorta di fuga radicale e iniziatica dai presunti dettami dell'antropopoiesi cui il contemporaneo, e le sue strutture logico-causali spesso interessate, hanno ormai costretto tante sfere dell'esistenza e tra queste, disgraziatamente, anche il fare-cinema.
L'età dell'innocenza, al contrario, è una scommessa che segue oltre ogni interesse la propria intuizione, e grazie a una modulazione strutturale meditata e pulsante – lo sarà, siamo sicuri, per ciascuna futura visione – concreta la massima di Edgar Reitz che improvvisamente si innesta al suo interno, nella forma di un biglietto di Natale rivolto al regista e in fondo anche allo spettatore: "Che ogni giorno possa essere l'inizio di un nuovo film". Che ogni film possa essere l'inizio di una nuova vita.