Gigi, vigile urbano di mezza età nella friulana San Michele al Tagliamento, si dispone nell’inquadratura fronteggiando le fronde sregolate del proprio giardino domestico. La voce di un uomo non visibile in scena lo affronta, accusandolo di incuria verso quello spazio verde ormai così simile a una giungla. A chi appartiene quella voce? È davvero quella di un vicino di casa stanco dell’inerzia invasiva del protagonista, alla cui vita – alla cui mente – sempre più assomiglia quella selva oscura? Nel comico botta e risposta d’apertura, ogni certezza vacilla per configurare un dispositivo fatto di presenze non accertate e interlocuzioni forse solo immaginate, tra le quali si dispiegano le peripezie di quest’uomo che più che un rappresentante della legge ricorda un dandy animato da anarchia e curiosità.

In Gigi la legge, terzo film di Alessandro Comodin presentato a Locarno75 in Concorso internazionale dove ha conquistato il Premio speciale della giuria, tutto sembra semplice e al contempo vertiginoso e sospeso: quel giardino labirintico su cui si apre il racconto, lo scopriamo presto, è solo la sineddoche di un microcosmo stregato, non molto più grande ma ugualmente ineludibile. Una cittadina del nord-est italiano, passata alla cronaca per gli innumerevoli casi di suicidio lungo i binari della ferrovia, su cui i treni continuano indifferenti a passare; una periferia dell’anima che, prima ancora che scenario naturalistico, a Comodin interessa in quanto astrazione, geografia fatale di una pena innominabile, che Gigi pattuglia pigramente sulla sua volante, ora solo, ora in compagnia delle colleghe, lasciando a chi lo osserva sullo schermo la possibilità di percepire lo stallo del tempo, la frustrazione di continui atti mancati, il suggerirsi di una follia che è quasi tabù.

Gigi questi spettri ha imparato a gestirli con la fantasia molto urbana che lo anima, eterno giovane che sogna nuove avventure e forse nuovi amori, che trasforma gli scambi con la centralinista della stazione di polizia in un buffo e ammaliante corteggiamento, che ogni tanto devia dal percorso prestabilito semplicemente per respirare, osservare nuovi angoli di quartiere, fumare una sigaretta. In questo peregrinare senza vero scopo, compare con le logiche imponderabili dello sketch il paesaggio umano che lo circonda, ma a ben vedere non si può che leggere l’intero non-racconto di Comodin come il ritratto di una solitudine e delle sue infinite, quasi disperate fantasticherie, dove tutte le altre presenze, come dicevamo, ci sono e non ci sono, compaiono d’improvviso quando meno ce le si aspetta – sottile e sorprendente in questo senso il montaggio di João Nicolau – e forse, ma solo forse, non esistono che nella mente del protagonista.

Sta proprio qui la forza del film, nella sua ambivalenza incessante che riesce a condensare, dietro a tocchi naïf costruiti con pazienza, tutto quello che confonde il fisico e il metafisico, il visibile e l’invisibile, e ancor più puntualmente la dimensione perimetrale del linguaggio e quella pervasiva del sentimento. Perché, è giusto ricordarlo, fin da L’estate di Giacomo che proprio a Locarno ha visto undici anni fa riconoscere il suo autore, il cinema di Comodin è un cinema che alimenta la teoria sondando il calore della natura umana, regalando scorci di tenerezza e di improvvisa commozione, restituendo con sorpresa la radice emotiva del nostro dialogare con le cose, con gli altri, sempre palesando la difficoltà di guardarci o ascoltarci da fuori, di chiudere il cerchio del discorso con i nostri fantasmi, che al contrario continuano ad abitare il nostro stare al mondo, con infinite traiettorie di fuga dentro bolle sospese: proprio come in questa Twin Peaks del nord-est, con i suoi passaggi a livello e i suoi centri di salute mentale che richiamano sconfinamenti proibiti.

In questo senso, se è vero che con Gigi la legge Comodin torna “a casa”, nei luoghi di origine già esplorati col film d’esordio, è altrettanto evidente che il passo (non così falso) della sua opera seconda, I tempi felici verranno presto, che di matasse irrisolte e presenze sfuggenti era affollato, permette alla sua poetica odierna di fare uno scatto in avanti, bilanciando senza schematismi selvaticherie impertinenti e densissima intuizione del dolore. E poi c’è la provincia: quante volte l’abbiamo vista, quante volte continuiamo a vederla approcciata con ambizioni di realismo ma insufficiente, se non rara, intensità percettiva. Comodin la conosce bene, se la porta dentro anche se non ci vive da anni, e al primato certo dei dettagli o delle storie preferisce abbracciare la possibilità incerta degli eventi e delle atmosfere. La sua campagna friulana esiste, forse non si discosta da quella reale, ma al contempo non teme di trasfigurarsi, di universalizzarsi, di diventare accessibile a chiunque perché più simile a un sogno, un sogno di cui non solo Gigi potrebbe essere il sognatore.

È un cinema, quello di Comodin, che al di là di tutte le possibili necessità produttive e dei legittimi riconoscimenti, non si fa davvero con le sole risorse materiali: in un certo senso, è un cinema di cui il denaro potrebbe anche essere nemico. Per questo va riconosciuta l’importanza di un disegno produttivo, intorno al suo lavoro, che ne abbia rispettate la natura e la direzione, se una loro definizione è possibile. E per questo va compresa l’intuizione di un festival come Locarno di valorizzare nel suo Concorso internazionale un’opera che sfida certe logiche di pubblico (e di vendita) per rilanciare possibilità altre, contribuendo a immaginari autoriali ancora in costruzione.

Perché Gigi la legge si colloca altrove, nelle relazioni preparatorie con i propri protagonisti, nell’intuizione di modalità di messinscena che scombussolano il “metodo”, nelle amicizie che presiedono il flusso creativo, lasciandosi cambiare dalle circostanze e dimenticandosi delle “buone” regole: nella pratica quotidiana del dubbio, dell’incertezza, che soltanto una pacata, radicale, e forse un po’ eroica disposizione d’animo può nutrire e col tempo incanalare al meglio nel film. Ci lasciamo conquistare da Gigi perché abbiamo bisogno di percorsi senza risultati, di esperimenti da amare come si ama un bambino disobbediente, perché concentrarci sulle incongruenze che un film può suggerire significa riconoscere domande nuove, e finalmente esplorare i dintorni di un cinema altrimenti soffocante, quando non già al collasso. Abbiamo bisogno di un gentile cinema inatteso: ancora una volta, lo troveremo alla sua periferia, anzi nella sua provincia.