Jorge de Sena è un poeta nato a Lisbona che, perseguitato dalla PIDE (la polizia politica di Salazar), approfitta di un convegno universitario in Brasile per lasciare il Portogallo. Sophia de Mello Breyner è invece una poetessa che da oppositrice sotto il regime ha vissuto fino al suo tramonto, trascorrendo di fatto una vita da esiliata nel proprio Paese. I due mantennero una corrispondenza durata quasi vent’anni, dal 1959 al 1978: intensa, viva, custodita in grande segreto nonostante i ripetuti spostamenti di lei e lo sguardo sempre attento della PIDE. Corrêspondencias di Rita Azevedo Gomes, presentato nel Concorso Internazionale dell’ultimo Festival di Locarno, riaccende la fiamma mai estinta di questo carteggio. Il film risponde a una sfida costante nel cinema: filmare la parola. L’elemento sonoro, atto invisibile, è portato nell’opera della regista lusitana al suo grado massimo di articolazione: la poesia, chiarificatrice del mondo ma al tempo stesso creatrice di nuovi universi.

Azevedo Gomes si introduce filmicamente nelle corrispondenze tra Jorge de Sena e Sophia de Mello attuando in un primo momento le pratiche di un’esplorazione borgesiana, dove i testi si intrecciano l’uno con l’altro. Così anche le lingue, diverse ma intelligibili tra di loro, lasciano sperimentare l’appartenenza ad un mondo ideale, dove la parola supera la traccia scritta e le frontiere linguistiche sotto un dominio assoluto del pensiero (come in Um filme falado di de Oliveira o, come in parte visto recentemente proprio a Locarno, ne L’Accademia delle Muse di Guerín). In un secondo momento l’identità dei due poli dialoganti si fa man mano più definita: inizialmente evocati come fantasmi, le voci dei due poeti riaffiorano dall’oblio e riprendono vita. In Corrêspondencias tuttavia non vediamo banalmente questi incarnarsi nella figura dell’attore o dell’attrice che di volta in volta prendono possesso dell’inquadratura: sono le parole stesse a farsi corpo, a farsi mondo (così come le scogliere erose dalle onde dell’Oceano, o le rovine di Delfi), a riprendere possesso della materia nella stessa maniera contraddittoria in cui la poesia, secondo le parole di Sophia de Mello, “ci colloca nel vuoto, e al tempo stesso nella comunione”.

La triangolazione tra gesto poetico, vuoto e comunione si manifesta nel dialogo tra i due corrispondenti, in particolar modo nella contraddizione delle scelte di ciascuno dei due soggetti: rimanere in Patria, abbandonarla per scoprire l’esilio. Queste stesse decisioni, vissute e trasmesse dal carteggio, assumono nel cinema di Azevedo Gomes una dimensione programmatica: le parole di chi la dittatura l’ha vissuta come intellettuale, rinunciando alla propria vita o cercandone un’altra senza mai fare ritorno, fanno eco nello sguardo della cineasta che in quel Portogallo è cresciuta e si è formata intellettualmente, civilmente e sentimentalmente. La ricerca della Patria perduta si fa primo motore nel lavoro di Azevedo Gomes. Tra le parole di Jorge e Sophia, non sono neanche più il sangue, la dittatura, la polizia politica ad essere oggetto di attacco, causa di malessere. La saudade di de Sena assume una conversione, sulla via dell’esilio, di stampo cosmico piuttosto che antropologico, in cui l’assenza della Patria non è altro che una condizione perenne dell’uomo contemporaneo a cui nessuna legge, nessuno Stato, nessun partito potrà porre rimedio.

Nel suo restare in Portogallo Sophia viene ammonita: “Non è uno spreco d’intelligenza spiegare agli stupidi la loro stessa stupidità?” Il ventesimo secolo è declinato in un senso anarchico come l’età del fallimento delle Patrie, erose così come le coste lusitane tormentate dall’Oceano. La consapevolezza è condizione dolorosa di un’assenza, come “la gioia di un uccello di fronte alle briciole della vita, e il dolore di non essere uccello per potersi accontentare di queste”. Sono solo due i momenti del film in cui Azevedo Gomes ci mostra i due poeti “in carne ed ossa” nelle loro funzioni, attraverso delle immagini d’archivio. Sofia de Mello appare insieme al marito Francisco Sousa Tavares di fronte a dei reporter francesi, denunciando l’onnipresenza della polizia politica nella vita pubblica e privata dei cittadini portoghesi: lo spirito militante, l’adesione a quell’illusione chiamata Patria non trova esaurimento. Jorge de Sena in cambio appare, solitario, in un monologo televisivo. “Sono io stesso la mia patria”, afferma di fronte alla camera, desideroso unicamente di condividere un caffè a Creta in compagnia del Minotauro.

Il pellegrinaggio in Grecia, le rovine di Delfi, momento elevatissimo della corrispondenza così come del film, non sono altro che illusione e materializzazione de “la disperazione che la vita ci ha rubato – una mera angoscia melanconica, sulla quale sognerai come fosse un’età dell’oro”. Ma in esse appare come una ricongiunzione tra le anime dei due poeti che mai più in vita si ritroveranno (Jorge de Sena trova la morte nel 1979 negli Stati Uniti, senza aver mai fatto ritorno in Portogallo e senza aver mai rincontrato Sofia de Mello). Le rovine pongono un sigillo su un’amicizia poetica inossidabile al di là delle contraddizioni in seno alle divergenze politiche e dialettiche, sublimandosi in una necessità umana di vicinanza, di calore, di un abbraccio: “[La disperazione] segretamente, nostalgicamente, incantevolmente, vi parlerà di noi, come in un sogno”.