Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima.

(Michelangelo Antonioni, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema)

In una recente intervista a Francine Stock, Ang Lee dice che per lui il futuro del cinema si delinea pressappoco così: da una parte, una proliferazione di schermi e schermicchi, volti ad alimentare un intrattenimento audiovisivo di massa, a trazione narrativa. E dall’altra, un apparato spettacolare nuovo, spinto da nuove tecnologie di ripresa, cui corrisponderebbe un’esperienza estetica più ricercata, complessa, difficile, in ultima analisi: elitaria.

«È pur vero che qualcuno, osserva Philippe Junod nella voce redatta per i “Kritische Berichte” di Ulma 13, ha ugualmente invocato il teatro antico, i “misteri” medievali, le “fabbriche” (Bauhütten) gotiche, i grandi giardini rinascimentali, il bel composto di Bernini, il melodramma barocco, la féerie, l’arte pirotecnica, le entrate solenni, processioni, cortei storici e altre mascherate, ma si tratta pur sempre di ascendenze opinabili e non di rado contestate […]; l’espressione “opera d’arte totale” è oggi utilizzata negli ambiti più differenti e per designare i più svariati frutti della creatività umana». (Paolo Bolpagni, ‘La questione del Gesamkunstwerk dai primi Romantici a Wagner’, De Musica, 2011, 15:1)

Diversi elementi balzano all’occhio nella predizione di Lee. Il primo è l’inversione semantica che pare improntare il suo scenario. L’aumento del gradiente spettacolare caratterizzerebbe, a suo dire, il versante di nicchia e di ricerca del consumo cinematografico, e non – come ci aspetteremmo – quello dell’intrattenimento di massa. Il dettaglio è di quelli che colpiscono. Dopo tutto, la storia delle innovazioni tecnologiche al cinema, dal dopoguerra a oggi, è andata in un’altra direzione. Il Technicolor servì prima e piuttosto a mostrare le orchidee di Oz che le macerie di Berlino.

«Junod ha acutamente osservato che il fenomeno sarebbe favorito dalla nostalgia di una “unità perduta”, sorta di reazione compensatoria a quello che Max Weber chiamava “disincanto del mondo”». (Bolpagni, op. cit., 1)

L’inversione sorprende, ma fino a un certo punto. Lee riecheggia qui una retorica che fu già wellesiana: l’idea cioè di un cinema articolato su molteplici livelli di significazione; la nuova spettacolarità di cui parla deriva non da un aumento di volume o di formato, ma da quella che potremmo chiamare un’espansione semiotica. Il regista immagina un cinema espanso, narrativo, sì, ma indipendente dalla narrazione nelle sue meccaniche estetiche distintive. Si intravede, in sottotraccia, il sogno di un’esperienza estetica totalizzante, organica, capace di catturare e restituire qualcosa di fondamentale, e altrimenti inaccessibile, dell’esperienza umana del reale.

«Al film importa non tanto che l’interprete presenti al pubblico un’altra persona, quanto che egli presenti se stesso di fronte all’apparecchiatura». (Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1998, p. 20)

Per quanto implausibile alla luce delle tendenze economiche e storiche che hanno caratterizzato l’industria negli ultimi sessant’anni, lo scenario tecno-elitario prospettato da Lee risponde dunque a una logica culturale riconoscibile. Sorprende forse di più che l’avvento di questa nuova frontiera si contrapponga nelle parole del regista ad altre forme di intrattenimento audiovisivo, meno spettacolari, ma più schiettamente narrative. Sorprende soprattutto se si considera che Lee, pur con tutto il florilegio di sperimentazioni visuali che ha puntellato la sua carriera, resta un regista solidamente umanista, ancorato a un’idea del mondo e del racconto che verrebbe quasi da chiamare moderna.

È come se qualcosa nel racconto cinematografico contemporaneo inquietasse e spingesse Lee verso un utopismo tecnologico sulla cui natura profonda varrebbe la pena interrogarsi. Detto altrimenti: le sue prese di posizione tradiscono, mi sembra, un’ansia (umanista), un sospetto di impotenza le cui radici vanno cercate al di là degli orizzonti tecnologici della della macchina cinema (per quanto magnifici e progressivi questi orizzonti possano sembrare). E poiché Billy Lynn è un film sul ritorno a casa di un soldato, è sul filone bellico che occorre concentrarci.

Ritorniamo qui a un discorso che su queste stesse pagine ho avuto più volte occasione di toccare: quello sull’immaginario bellico e sulle sue strutture di rappresentazione. Scrivevo a proposito di Good Kill che, a seguito di una crisi iniziata grosso modo col conflitto in Vietnam e portata a compimento da Kubrick, il cinema americano contemporaneo ha tentato due percorsi paralleli per mettere in scena la guerra. Il primo filone – emblematizzato da titoli come The Hurt Locker o, più di recente, Restrepo – neutralizza il problema trasformando il racconto bellico in un’analisi dei meccanismi di percezione individuale, mettendo l’esperienza del corpo-in-guerra al centro dell’attenzione. Il secondo, cui fanno capo film come Redacted o In The Valley of Elah, circoscrive e ascrive la causa della crisi alla natura iper-mediale, pervasiva e da ultimo a-morale delle immagini che saturano l’orizzonte della guerra contemporanea. Volendo fare dei nomi, potremmo ricondurre il primo filone critico, quello ‘mediale’, agli scritti di Garrett Stewart, e il secondo, quello ‘corporeo’, agli studi recenti di Robert Burgoyne.

Già con Good Kill, tuttavia, si intravedeva una convergenza delle due tendenze: passata la marea mediale irachena, sostanzialmente dimenticato il conflitto afgano, Niccol riusciva a risolvere tanto lo scacco della messinscena quanto quello della narrazione con una regressione (posticcia quanto rassicurante) ai canoni scopici e morali della guerra giusta.

Lee tenta una forzatura più audace. Il suo approccio scavalca la stagione appena conclusa – gli anni zero a le tensioni tra digitale e corporeo appena descritte – per affondare, non senza una certa ambizione, nel nocciolo settantesco della questione.

Parlo di iperrealtà: tendenza principe del cinema americano del decennio Vietnam secondo Franco La Polla, e, soprattutto, elemento chiave della crisi di quel soggetto mito-scopico che dal Vietnam arriva a Falluja. Il soggetto in questione è quello americano, che afferma la propria legittimità affrontando e assimilando il nemico non-bianco in una terra non sua. Ma è anche (vale la pena ricordarlo) il soggetto cartesiano-prospettico che riconosce il mondo in quanto reale, in quanto oggetto, e in quanto linguisticamente dotato di senso e presenza e valore.

(Una modalità di visione non si può ridurre a un punto di vista: essa necessariamente comprende l’architettura culturale o mitologica all’interno della quale lo spazio della visione stessa si apre. E così lo sguardo del soggetto – con tutte le coloriture ideologiche che esso può comunque assumere: capitalista, quantitativo, prospettico, patriarcale, la lista è lunga – si colloca, nel contesto culturale americano, all’interno di uno spazio simbolico riconoscibile. L’uomo, il cavallo, la terra vergine, l’Altro. I due sistemi, visivo e mito-culturale, marciano di pari passo. Fin quando qualcosa non si inceppa.)

Già La Polla notava che l’iperrealtà degli anni Novanta era qualcosa di diverso da quella degli anni Settanta. Sempre meno riconducibili al regime visivo del soggetto (americano), quelle nuove immagini novantesche si popolavano di corpi di superficie, corpi virtuali senza massa, peso, grana. Visioni ultra-nitide di uno spazio sempre meno abitabile, sempre meno riconoscibile, sempre meno umano. Venti anni dopo, la triade tecnica messa in campo da Lee con Billy Lynn – 120 fotogrammi al secondo, stereoscopia e ultradefinizione – realizza finalmente la tendenza colta in nuce dallo studioso bolognese: un cinema di spazi e di corpi ultra-reali, in una realtà completamente e irrimediabilmente virtuale.

Billy Lynn si apre con due gesti eroici. La prima sequenza ci invita a studiare da vicino un fermo-immagine: sulla videocamera digitale di un giornalista fuggito, scrutiamo il fotogramma che cattura il gesto eroico di Lynn mentre soccorre il sergente caduto. Sarà quel gesto eroico, diffuso e mediatizzato dalla gran cassa propagandistica dell’amministrazione in armi, a mettere in moto la trama. L’altro beau geste di quella prima sequenza, naturalmente, è quello di Lee. Se la stagione del cinema bellico degli anni zero aveva sviluppato un suo proprio idioma di messinscena, nel quale la figura del soldato-con-la-videocamera serviva da promemoria di un problema irrisolto, il gesto di Lee ha qui tutto il sapore di un salvataggio in extremis. La lenta progressione, lo zoom che ingrandisce il viso di Billy fino a scoprire la grana digitale preparano e annunciano l’arrivo della cavalleria. Dopo un’elegante dissolvenza a nero, la sequenza iniziale ci rivela l’intimità della stanza d’albergo di Billy nell’ultra-definizione delle immagini generate dalla nuova macchina-cinema. Il testimone è passato di mano: il limite, raggiunto.

«Every artist discovers that drawing – when it is an urgent activity – is a two-way process. To draw is not only to measure and put down, it is also to receive. When the intensity of looking reaches a certain degree, one becomes aware of an equally intense energy coming towards one, through the appearance of whatever one is scrutinizing. Giacometti’s life’s work is a demonstration of this. The encounter of these two energies, their dialogue, does not have the form of question and answer. It is a ferocious and inarticulated dialogue». (John Berger, A Professional Secret, 1987)

L’iperrealtà di Billy Lynn si riallaccia dunque a entrambe le tendenze del cinema bellico degli Anni Zero. Da un lato, la nitidezza impossibile delle immagini rimuove ogni residuo sfarfallio, ogni possibile interstizio, consegnando allo spettatore una superficie finalmente chiusa: un universo visivo e morale in cui ogni cosa – dai pori sulla pelle del protagonista al tessuto delle uniformi – è allo scoperto. Dall’altro, l’uso insistito delle inquadrature in soggettiva spinge lo spettatore all’interno di questo universo, visivamente e e fisicamente nel corpo di Billy, invitandolo a oltrepassare la barriera percettiva dello schermo. Questi corpi saranno anche virtuali – Lee sembra suggerire – ma sono nostri.

«If something is moving across the screen, it moves much smoother, much more like real life. As opposed to in a cinematic experience, something’s moving across the screen. Then, you can see it sort of stuttering. We call that ‘jutter’ in the movie industry. [With 120 fps], it’s almost like looking through a window as opposed to watching a film». (Don Show, intervistato da Jordan Zakarin a proposito della tecnica di ripresa utilizzata in Billy Lynn, Inverse, 16 novembre 2016)

La superficie mediale del film avvolge tanto l’esperienza del protagonista quanto le maglie culturali del racconto di guerra in una superficialità iperreale, lapollianamente virtuale. La galleria di ovvi stereotipi americani che popola la giornata di gloria del soldato Lynn – il football, il giorno del Ringraziamento, le cheerleader, il petroliere texano, e via dicendo – sfilano dinanzi a noi tanto quanto le immagini ‘vere’ della scaramuccia irachena.

Qui, tuttavia, e a dispetto di quello che può sembrare, non c’è alcuna ironia postmoderna: solo il riconoscimento di un nuovo regime mito-scopico, al quale Lee ci invita a rispondere con tutta la serietà del suo retaggio umanista. Le inquadrature in soggettiva di Lynn ci spingono, appunto, a riconoscere la necessità di affrontare questa superficialità per quello che è: un punto di arrivo. Di più: ci invitano ad affrontarla nei termini incarnati della nostra esperienza umana vissuta – nei termini, cioè, di soggetti calati, malgrado tutto, nel vivo della Storia e nelle nostre esistenze.

Tutto nuovo, quindi? Quasi. L’impressione è che l’umanesimo di Lee non gli consenta, in ultima battuta, di rinunciare del tutto a una qualche forma di trascendenza (storica, morale, ontologica). Nella sequenza in cui il film finalmente rivela il trauma del novello eroe americano – l’uccisione all’arma bianca del nemico non-bianco – la macchina da presa arretra quanto basta a catturare l’ultimo sguardo del nemico morente. Quello sguardo, con tutta la violenza morale e metafisica che racchiude, non è diretto al protagonista. Quello sguardo è per noi. E non c’è superficie che riesca a racchiuderlo.

«La rappresentazione della morte reale è anch’essa un’oscenità, non più morale come nell’amore, ma metafisica». (André Bazin, Morte ogni pomeriggio, 1949)