Che Fabio Grassadonia e Antonio Piazza fossero intenzionati a portare avanti nel loro lavoro uno sguardo personale e il più possibile distinto dalle molte, prevedibili convenzioni del cinema italiano di finzione, appariva già chiaro di fronte a Salvo, l’esordio nel lungometraggio con cui i due registi avevano conquistato i favori della Semaine de la Critique nel 2013 a Cannes e invitato pubblico e critica a investire non poche aspettative sul loro, insolito, percorso autoriale. In quell’occasione si trattava di capovolgere il noir criminale a sfondo mafioso, con tutta una serie di codici riconoscibili e consapevolmente trasfigurati, in una storia d’amore venata di miracoloso (la vista riconquistata da parte della giovane Rita, cieca dalla nascita), definendo un ventaglio di piste narrative e tensioni estetiche che, in un futuro non troppo remoto, avrebbero potuto essere sviluppate in un’eventuale, e come noto spesso temuta, opera seconda.

Ci sono voluti quattro anni per arrivare a Sicilian Ghost Story, ancora una volta ambientato nella regione natale dei registi, sebbene con un piccolo salto indietro nel tempo – alcuni indizi lasciano intendere che siamo intorno alla metà degli anni Novanta. Il film, in uscita nelle sale italiane contemporaneamente alla sua presentazione in apertura della Semaine de la Critique 2017, inscrive gli echi della tragedia di Romeo e Giulietta nel contesto oscuro dei sequestri mafiosi, scegliendo di guardare all’intera vicenda attraverso gli occhi di un’adolescente ribelle e sognatrice, Luna, nel pieno di quella fase di transizione fisica e psicologica che conduce verso una più feconda maturità della testa e del cuore. Il motore del plot è l’innamoramento di Luna verso il coetaneo e compagno di scuola Giuseppe, che ricambia i sentimenti della ragazza e la proietta su un orizzonte di felicità ancora sconosciuta: questa prospettiva di scoperta risulta però immediatamente troncata dalla scomparsa del ragazzo, intorno alla quale cala, ineludibile, il silenzio omertoso di un intero paese. Figlio di un pentito di mafia, proprio come il dedicatario del film Giuseppe Di Matteo che fu sequestrato da Cosa nostra nel 1993 e dopo quasi tre anni di prigionia atrocemente ucciso dai suoi aguzzini, il ragazzo è sottratto alla libertà e trascinato in irrintracciabili nascondigli, senza che nessuno si curi davvero di provare a indagare sulla sua sparizione.

A partire da questo evento scatenante, di fronte al quale la sola Luna sarà disposta a lottare in cerca di un barlume di verità e contro il silenzio collettivo (persino nella sua protettiva e al contempo soffocante famiglia, guidata da una madre anaffettiva di origini svizzere), il film intensifica e definitivamente abbraccia l’afflato fiabesco introdotto dagli autori fin dall’incipit: è qui che si riconosce, potremmo dire secondo copione, il fattore inedito del lavoro e l’intuizione preziosa che vorrebbe animarlo, l’idea cioè di trasportare un fatto di cronaca – già mediato dal racconto di Marco Mancassola Un cavaliere bianco – in un universo simbolico di boschi silenti e laghi spettrali, presenze animali e allusioni mitologiche, laddove il carattere fantasmatico che il titolo immediatamente sottolinea diventa la chiave di lettura di un percorso di formazione tra orrore e riconquistata libertà. Una Sicilia quasi irriconoscibile – opposta e per tanti versi complementare a Io non ho paura, con cui il film di Grassadonia e Piazza spartisce pregi e difetti – diventa così il teatro nero dei sogni e delle visioni di Luna, uniche possibili vie di accesso all’indagine che, dentro la realtà e al nucleo dei propri sentimenti, la ragazza non può fare a meno di intraprendere.

Che cosa, rispetto a queste premesse, non funziona esattamente come avrebbe potuto? Difficile dirlo senza sconfinare nel territorio spesso arbitrario del gusto. Eppure l’intera operazione di Grassadonia e Piazza, come già era accaduto in Salvo, non riesce a liberare il proprio carattere di novità da quelle idiosincrasie, piuttosto ingenue e asfittiche, che il loro cinema comincia definitivamente a delineare: l’ossessione quasi compulsiva per la composizione estetizzante, l’incapacità di tutelare la forza del racconto dall’artificiosità del movimento di macchina, una certa attitudine ad abitare il simbolo con grande accondiscendenza, spesso privilegiando lo sguardo meccanico su corpi, volti e ambienti, piuttosto che preservarne l’immediatezza, la freschezza, la non piena controllabilità. Tutto, in questo film dotato di valido potenziale, tradisce anche il bisogno di risultare pianificato dal primo all’ultimo frame, di rendere nota la sua articolazione produttiva, trascinando nello schema il lavoro di Luca Bigazzi alla fotografia, Cristiano Travaglioli ai ritmi (fin troppo dilatati) del montaggio, Marco Dentici alla scenografia. Non basta la messinscena di continue e spesso imprevedibili visioni a fare del film il viaggio inconscio che vorrebbe essere, la tortuosa incursione nel sonnambulismo emotivo della sua protagonista. Se di fronte a Sicilian Ghost Story ci auguriamo che tanti altri autori si impegnino nell’esercizio di trasfigurare la realtà, la Storia e le storie in slanci sempre più personali e sentiti, specialmente in quella cartografia problematica che è la narrazione dell’incubo mafioso nel nuovo millennio italiano, resta aperta la necessità di continuare a lavorare e giocare con il cinema senza rimanerne a propria volta imprigionati. Solo così, forse, anche la cronaca dolorosa che ne alimenta le trame potrà essere davvero rispettata.

Da vedere, per capire quello che un film voleva essere, e perché non lo è stato.