Come tutti sanno, tra i soggetti più inclini ad andare in depressione, vanno annoverati innanzitutto gli iperattivi temporaneamente sprovvisti di attività. Osservazione, questa, da accompagnare rigorosamente a quella inversa: pur di non cadere in depressione, ci si nasconde il fatto che essa è lì a due passi rifugiandosi nell’iperattività, trovando mille cose da fare pur di non pensarci.

Altrettanto notoriamente, a venire descritto in biografie (comprese le proprie stesse memorie), interviste e altri documenti come una sorta di stakanovista dello spettacolo fu Vincente Minnelli; proprio lui che nelle opere della maturità ha spesso cantato lo Spettacolo come Lavoro, e che più precisamente ha messo in abisso come probabilmente nessuno mai a Hollywood la figura dell’artista legandola alla dimensione produttiva del fare.

Alla luce di questo, è impossibile meravigliarsi del fatto che quando gli studios hollywoodiani si incamminarono mesti verso il loro definitivo tramonto, verso la fine degli anni Cinquanta, fu proprio il cinema di Minnelli a colorarsi più degli altri di umori di impressionante cupezza. Intravisti in Gigi (1958), nel tramonto su cui un anziano Maurice Chevalier intona «I remember it well» (che in seguito sarà il titolo dell’autobiografia minnelliana), lucidamente intercettati e diligentemente reimpiegati per raggiungere una coloritura tonale rimasta unica nella storia del melodramma negli splendidi Qualcuno verrà (Some Came Running, 1959) e A casa dopo l’uragano (Home from the Hill, 1960), questi umori sbalestreranno l’equilibrio di I quattro cavalieri dell’Apocalisse (The Four Horsemen of the Apocalypse, 1962) e culmineranno in uno dei film più genuinamente dark mai usciti da Hollywood, Una fidanzata per papà (The Courtship of Eddie’s Father, 1963). Ma prima ci sarà Due settimane in un’altra città (Two Weeks in Another Town, 1962). Opera centrale di questo periodo, perché riprende Il bruto e la bella (The Bad and the Beautiful, 1952) e Spettacolo di varietà (The Band Wagon, 1953), e li riadatta a tempi ormai definitivamente posthollywoodiani.

Ironicamente, era già Il bruto e la bella a mettere in scena la fine di Hollywood, o quantomeno la sua drastica mutazione. Il film comincia, papale papale, con un progetto di package-unit: uno sceneggiatore, un’attrice e un regista a cui viene chiesto di convergere per far fare un film a Shields, produttore ora in disarmo (Kirk Douglas, protagonista anche in Due settimane) che un tempo contribuì al loro successo (tanto quanto, in realtà, alla loro disumanizzazione). Ebbene, questo tipo di contratti occasionali e “a progetto” era esattamente ciò che in quegli anni stava cominciando a sostituire il vecchio dominio “verticale” degli studios. C’è dunque, senza possibilità di equivoco, la volontà di tirare una riga e fare un bilancio di un’epoca che ormai è dietro le spalle. Cosa portare con sé nella nuova era? Lo si capisce meglio all’altro capo di questa pellicola, in cui il mogul (disumano ma fin troppo umano o comunque lontano anni luce dai cupio dissolvi wellesiani o da qualunque ipotesi di grandezza titanica) non si vede mai se non in flashback: anche ora che l’industria declina, la produzione si fa indipendente e la personalità dell’Autore (sia esso il regista, l’attore o lo sceneggiatore) guadagna il primo piano, non si dimentichi mai che a Hollywood il vero autore è sterile, e irrintracciabile. È un mediatore evanescente, uno che rilascia effetti solo nel modo dell’assenza; uno che in senso stretto non crea nulla, ma che sa sfruttare in pieno le potenzialità di quello che già è a disposizione, che siano gli esigui mezzi dei quickies a budget nullo o che sia la verve che un attore nasconde al di sotto di una complessa e scontrosa personalità, o quant’altro. Ed è lui che, più di qualsiasi artista, sa spalancare le porte di quell’Altro Mondo (quello del Sogno e dello Spettacolo) che in Minnelli si erge sempre e dappertutto a fianco di Questo.

Ora, il dato fondamentale è che, se non sorprende questo interesse nell’impersonalità dell’atto creativo in uno che tre anni prima ha adattato Flaubert (Madame Bovary, 1949), d’altro canto è evidente che questo tipo di agency NON è quella che Minnelli mette primariamente nei suoi film. La sua presenza, lui, la fa sentire eccome, in particolare attraverso la cura delle scenografie; con buona pace delle professioni di fede nell’impersonale e nell’invisibilità del vero creatore, Minnelli è un artista che innanzitutto produce un mondo fittizio, e ci tiene a che il risultato del suo fare, che essenzialmente consiste nel set elevato ad oggetto artistico, venga esibito. Messo davanti all’alternativa secca tra zero e uno, Minnelli preferisce comunque l’uno; troppo artista (perché produttore di qualcosa che prima non c’è) per Hollywood e per rinunciare alla tangibilità dell’oggetto artistico, risultato flagrante di un fare, è nella tensione con Hollywood che egli trova la sua grandezza – e il suo limite. Lo mostra bene, appunto, Spettacolo di varietà, celebrazione della fabbrica dei sogni come miracoloso laboratorio capace di prendere il Faust e ritagliarlo su misura della cultura popolare, facendone un film noir; ma in tutto questo Minnelli non arretra di un centimetro dalla sua posizione di artista creatore, e dispiega i suoi inesauribili preziosismi figurativi in vista della costruzione ex novo di un Altro Mondo – cosa che, in fondo, contraddice le premesse stesse di questo film-manifesto. A salvare lo spettacolo dalla megalomania del regista arriva un attore: segno che la creazione, anche quando si incanala nel verso giusto, non riesce a liberarsi della categoria della presenza. Predicare bene e razzolare male: questo è il fascino di Minnelli.

In Due settimane, Jack Andrus è un divo affetto da depressione, violenza compulsiva, psicosi, allucinazioni, e ovviamente una forma cronica ed acuta di alcolismo. Un telegramma lo raggiunge nella lussuosa clinica del Connecticut in cui tenta di riprendersi. È di Kruger, regista della golden age hollywoodiana con cui firmò roboanti successi, e che ora è una delle vecchie glorie hollywoodiane che, a studios ormai sul viale del tramonto, arrancano verso la pensione girando improbabili kolossal a Cinecittà. Kruger vuole Jack a Roma per il suo nuovo film: gli affiderà prima la direzione del doppiaggio, e poi, dopo un malore, il film intero. Jack naturalmente accetta, e nella capitale riesuma il rapporto con l’ex moglie Carlotta (la Cyd Charisse di Spettacolo di varietà e di tante opere minnelliane), ne allaccia uno nuovo con la giovane fiamma Veronica, stringe un’ambigua amicizia con l’imberbe attorucolo Davie…

A interpretare Jack è un Kirk Douglas mai così vicino all’Errol Douglas de Il ritorno di Cagliostro (Daniele Ciprì e Franco Maresco, 2003): una maschera livida, bolsa, rintronata dalle medicine e dalla disillusione, gonfia, pressoché catatonica, e che sopravvive a una vita la cui parte migliore è ormai irrimediabilmente alle spalle. Innanzi a sé, niente o quasi. Lo vide bene Manny Farber, che descrisse Douglas come «un corpo in esibizione, il quale attraversa la mezza età come restringendosi, mentre la mente di colui che lo impiega si fissa su altre cose» [1]. Il geniale produttore invisibile de Il bruto e la bella si tramuta qui in un quid ambulante in flagrante eccesso di presenza, che si aggira in un cinemascope sempre troppo largo in modo oscuramente spaesato.

La presenza scenica, tuttavia, non è il vero centro del film. Esso è piuttosto il grado di presenza o di assenza che deve tenere l’Autore. Il passaggio del film-nel-film dalle mani di Kruger a quelle di Jack, replicando lo schema di Spettacolo di varietà del pragmatico attore che salva un’opera dalle mani di un regista eccessivamente megalomane, innesca il conflitto decisivo, che è quello tra due diverse concezioni del creatore cinematografico. Kruger è l’Autore con la “a” maiuscola, che sbraita sul set per imporre la sua visione e si scorna coi produttori per l’autonomia creativa. Jack è quello che tiene prudentemente la “a” minuscola: è quello che tiene insieme il microcosmo del set, che prende da parte gli attori e li mette pazientemente in sintonia con il film, che dà un calcio nel culo alle dive quando c’è bisogno e si mette alla pari dei tecnici. Insomma un’azione discreta, molto sotto le righe, ma efficace. (Ed è difficile che sia un caso, nell’ottica minnelliana abbozzata in precedenza, tipicamente imperniata sul fasto scenografico, che la stessa scena – una baruffa tra due amanti su una barchetta – sia girata prima da Kruger su un set reale, e poi da Jack davanti a un fondale finto).

Sostanzialmente, Due settimane si chiede: è possibile, nella presente era ormai post-hollywoodiana, sintetizzare queste due forme della creazione, come lo Shields de Il bruto e la bella era sia brand da sbandierare, che agente invisibile dietro le quinte? La risposta è no. I benintenzionati tentativi di Jack di salvare il salvabile si scontrano con il timore di Kruger che il proprio marchio autoriale non venga riconosciuto, fino ad allontanare Jack dal set con l’accusa di rubargli il film. L’autore come azione sotterranea si scontra con l’Autore come firma, e nessuna conciliazione sembra possibile, ora che si è orfani degli studios e i produttori sono, quando va bene, scaltri agenti immobiliari.

Ha ragione Joe McElhaney, nella sua pregevolmente dettagliata analisi del film [2], a sostenere che dietro a questo conflitto sia in atto una dinamica edipica. Peccato che lui stesso rimanga impigliato nelle spire di Edipo senza troppo raccapezzarcisi, troppo impegnato a dimostrare quello che è ovvio fin dall’inizio, e cioè che il centro di film è la decadenza di una Hollywood giunta a un irreversibile capolinea. Eppure la soluzione dell’enigma è facile; emana da gran parte della filmografia minnelliana e la illumina a propria volta. Per Jack, Kruger è un evidente padre putativo, con cui intrattiene un rapporto di amore e odio, una conflittualità continua ma piena di reciproco rispetto. Che ci sia Edipo di mezzo lo conferma il fatto che l’ex moglie Carlotta è stata amante di Kruger. Tuttavia, quello tra i due è un Edipo anomalo. Jack, il cui disinteresse verso Carlotta è palese, non vuole strappare la “madre” al padre putativo; ciò che interessa invece sottrargli è direttamente la funzione creatrice/riproduttiva, che non di rado in Minnelli slitta dalla donna (che viene dunque inusualmente emarginata dalla triangolazione edipica) all’uomo. Brama di vivere (Lust for Life, 1956), in effetti, si fonda su una simile variazione edipica, in cui al posto del triangolo c’è un rapporto a due vagamente cripto-omosessuale, in cui la posta in gioco è direttamente la creazione artistica. L’Edipo irrisolto, esplicitamente al centro di Tè e simpatia (Tea and Sympathy, 1956) (e più implicitamente di La tela del ragno [The Cobweb], 1955) trova qui un ulteriore, significativo sviluppo. Se l’Edipo prevede tipicamente la ripetizione-risoluzione della scena primaria, Jack viene da una “controscena primaria” che gli ha distrutto il matrimonio (ha visto la moglie a letto con l’amante – che poi sarebbe il padre putativo Kruger) e lo ha portato sull’orlo del suicidio, spingendolo a schiantarsi con la macchina contro un muro per lo shock; a Roma, quello che Jack ripete è precisamente il gesto autodistruttivo dopo aver rivisto Carlotta con l’attuale compagno in un’orgia: una corsa automobilistica a perdifiato verso la morte, ma solo per finta, come del resto clamorosamente artificiale e inverosimile è il modo scelto da Minnelli per metterla in scena. In altre parole, mentre Due settimane ripete nuovamente quella fine di Hollywood che fu Il bruto e la bella, quello che si ripete in questa variazione edipica è precisamente la mancata risoluzione dell’Edipo. Contestualmente, Jack è alle prese col fatto che scippare la funzione creatrice/riproduttiva al padre putativo significa partorirsi da solo: è precisamente ciò che avviene, simbolicamente, allorché Jack prende a fare da padre putativo a Davie (che nel romanzo è omosessuale), il quale per molti versi coincide con Jack stesso: i due condividono la stessa donna (Veronica), e il rapporto burrascoso tra Davie e Kruger ricalca quello passato tra Jack e Kruger. Non a caso, Jack perde una giornata intera per cercare il giovane attore, irreperibile – ma lui è lì, proprio dentro l’appartamento di Jack.

Solo riconfermando la duplice impossibilità di superare l’Edipo da un lato, e dall’altro (ma inseparabilmente) di risolvere l’enigma della Creazione, Jack approda all’agognata catarsi. Salendo sull’aereo che lo riporterà in America, Jack si sente notevolmente alleggerito, e si vede. È insomma finalmente libero da entrambe le illusioni. Una è l’illusione di aggiustare la propria vita sentimentale: le donne sono ora per lui quanto mai chiaramente qualcosa da avvicinare, anche sessualmente, solo per esorcizzarle, mentre ne rimane succube l’amico-nemico Kruger. L’altra è l’illusione della produttività, dell’effettività del fare. Superandole, può affacciarsi su un presente preziosamente vuoto, svuotato persino di Veronica, che fino a quel momento era stata per lui la gradevole ma ingombrante personificazione di quel vuoto che è appunto il presente. Libero da quelle due illusioni speculari, e altrettanto assurde, che sono il crearsi da solo, e l’autodistruggersi.

A essere decisiva è proprio la scena della folle corsa in automobile: la macchina è sfacciatamente ferma, il fondale sfacciatamente fittizio, e Minnelli spara luci irreali sui volti paonazzi di Douglas e Charisse mentre compie panoramiche chirurgiche da un lato all’altro della vettura fintamente sfrenata. Dopo un film intero attraversato da una morbosa atmosfera di morte, di palese assenza di futuro, di amara consapevolezza della vanità di qualsiasi slancio propositivo, la morte viene guardata in faccia, solo per accorgersi che il suo essere momento totale e assoluto della verità non è che illusorio, come e più dei sogni di cartapesta che vengono esibiti sullo schermo.

In una sala di proiezione, verso metà film, Jack/Douglas si rivede nelle immagini de Il bruto e la bella sullo schermo. Dieci anni sono passati, ma sembra un secolo. Douglas rimbrotta Lana Turner: il pubblico piange. Douglas butta in piscina Lana Turner: il pubblico ride. È chiaro che nessuna di queste reazioni verrà provocata dal film-nel-film abborracciato che girano Jack e Kruger, e tantomeno da quel film gloriosamente fallito che è Due settimane. Pellicola, questa, tormentata da guai in produzione e post-produzione che non possono non ricordare quelli del film-nel-film; ad essi Minnelli e Houseman (il produttore) imputeranno la mancata riuscita del film, ma nemmeno loro sembrano troppo convinti. Comunque sia, la sua forma slabbrata, restia a sviluppare situazioni che vengono lasciate là, abbozzate o peggio, è quanto di più appropriato possa esserci per un film, come questo, attraverso cui Minnelli si spinge al di là dell’illusione che ha retto l’intera sua carriera, quella del fare produttivo, qui dipinto come una quadratura del cerchio (quella tra l’autore come presenza e l’autore come assenza) intrinsecamente impossibile da raggiungere. Certo, negli interni Minnelli si trova a casa, e costruisce come al solito i suoi fastosi set in cui può giocare coi rossi (la sala di proiezione; l’appartamento della diva), coi verdi (gli abiti di Carlotta) e quant’altro. Ma negli esterni, Minnelli sembra quasi intimorito dalla sovrabbondanza di un set come Roma, e spinge all’estremo la sua tendenza (vedi Un americano a Parigi [An American in Paris], 1952) a fare delle metropoli dei villaggetti a forza di sfrondarne la ricchezza visiva: ritratta quasi sempre di notte, Roma è qui ridotta quasi in ogni scena a pochi tratti grafici essenziali, che sia una spiaggia quasi dechirichiana, una spettrale Trinità dei Monti o la Via Veneto più astratta mai vista sullo schermo. Anziché creare, davanti a Roma Minnelli sottrae brutalmente.

La cifra del film è probabilmente quella delle prime immagini, con Jack che vaga nei cortili della clinica letteralmente senza sapere cosa farsene del proprio corpo: va in giro, gioca a boccette, aspetta… Tutto il film sembra un’emanazione di questo mood; lontano dall’olimpica distensione di Qualcuno verrà e A casa dopo l’uragano, Due settimane è un film in cui le scene sono clamorosamente prive di ogni tensione: lente, sfatte, stiracchiate, amorfe. La trama tira avanti come può, a colpi di innamoramenti improvvisi e infarti. Se il cinemascope è un acquario, qui i pesci boccheggiano vistosamente, e anche quando la messa in scena è alta coreografia (come nella scena del ristorante lungamente analizzata da McElhaney), lo appare in virtù di preziosismi un po’ gratuiti, a mo’ di direzione del traffico fine a se stessa. Domina l’indecisione del ritmo, un opprimente senso di stanchezza, ed è con stanchezza che si direbbe vengano accantonate le esche drammatiche, che non mancano affatto: il deterioramento del rapporto tra Jack e Kruger, la “lotta” tra Davie e Jack per Veronica… tutte situazioni emotivamente esplosive, liquidate con un’alzata di spalle. Basta in fondo paragonare le rispettive scene dei party nel film del 1952 e in quello del 1962: frizzante nel primo, immerso in un inquietante rigor mortis nel secondo.

Ma in Due settimane una qualche catarsi, come abbiamo visto, c’è, e la cosa può legittimamente estendersi alla carriera di Minnelli in generale. Come in questo film, è solo guardando in faccia la stagnazione che possono emergere segni di rinascita. Nel 1976, Minnelli firma Nina [A Matter of Time], forse il paradigma insuperabile del film di un veterano che sembra girato da un ragazzino esordiente. La “questione di tempo” del titolo è, più precisamente, la questione di quella che Deleuze chiamò immagine-tempo: lo specchiarsi reciproco tra il presente e il passato (in quel film rappresentato dal rapporto tra una diva decrepita e una esordiente), che finisce col restituire al presente il proprio vuoto originario. E in questo senso, si può ben dire che Due settimane, col suo ripetere il passato sempre e solo per conservarlo irrisolto, sia stata la necessaria preparazione al definitivo testamento di quattordici anni più tardi.

Bisognava insomma guardare in faccia la stagnazione. Bisognava attraversare e lasciarsi alle spalle la fondativa illusione del fare, riconoscendolo come una chimera intrinsecamente inconsistente. Rimosso il fare, rimane l’essere. Ma chi si è fidato troppo del fare, rifugiandosi a lungo nell’iperattività, una volta restituito all’essere, si trova la strada sbarrata dal mal di testa. Ecco: con quella sua aria nebulosa, dolente, svogliata, inerte, pervasa da stati sottilmente ma insistentemente dissociativi, Due settimane è, prima di tutto, la massima materializzazione cinematografica di cosa sia un mal di testa.


NOTE

[1] Manny Farber, Negative Space, New York: Da Capo Press, 1998, p. 53.

[2] Joe McElhaney, The Death of Classical Cinema: Hitchcock, Lang, Minnelli, Albany: SUNY Press, 2006, pp. 141-200.