Film inaugurale di Un Certain Regard, Barbara di Mathieu Amalric è la nuova regia di un attore/autore che omaggia un’icona della canzone francese degli anni Sessanta e Settanta e il talento dell’interprete che la impersona, Jeanne Balibar.

Quest’anno a Cannes si sono visti alcuni ottimi film di donne sugli uomini, come Western di Valeska Grisabach, o film sul dominio della mentalità e della cultura maschile sulle donne (con tutte le ambivalenze e ambiguità del caso) come Los perros di Marcela Said. Film di un uomo sulle donne, o meglio su una donna d’eccezione, è invece il bel Barbara di Mathieu Amalric che ha inaugurato la sezione Un Certain Regard.

Amalric, attualmente l’icona più gettonata tra gli attori della nuova generazione del cinema d’autore francese, qui alla sua quarta regia (ma ci sono anche due film per la tv) che succede all’ottimo Tournée (2010), ha scelto Jeanne Balibar, attrice poco nota da noi ma di vero fascino, per raccontare il percorso della cantante francese Barbara (L’aigle noire), anch’essa ormai un’icona quasi prossima, per restare in ambito canoro, a una Edith Piaf, dalla quale, del resto, Barbara rimase posseduta.

In pieno spirito Nouvelle Vague, Amalric realizza anche un film sul cinema, in questo caso biografico, mostrando un film che si sta progettando studiando gli archivi, interrogando e intervistando (il regista), lavorandone il personaggio, la voce, le partiture, le canzoni (l’attrice). Ma questi frammenti di bloc notes sulla lavorazione di un lungometraggio in preparazione si incastonano con frammenti del film su Barbara, splendidamente virati nella grana e nei colori degli anni Sessanta-Settanta, appunto gli anni di Barbara.

Un po’ bazar di eventi spesso non calcolati, la rappresentazione per mezzo di modalità impressionistiche di una mentalità tipica degli anni Sessanta e Settanta è riflessa nello stile caotico (ma in realtà con un suo ordine che si scopre riflettendoci su una volta giunti i titoli di coda) che produce gradualmente, se non un capolavoro, comunque una vera magia, un incanto, una rivelazione, sia per chi già conosce la grande cantante sia per chi la conosce poco o per nulla. Distruggendo, destrutturando la cronologia degli eventi con i segmenti del film girato e quelli del film in preparazione (ma in realtà anche questi simulati), quindi la fiction e il (presunto) documentario – rispecchiando così l’autobiografia lasciata incompiuta (Il était un piano noir) di questa donna che cercò tutta la vita di esorcizzare la paura del padre e dell’incesto di cui fu vittima – Amalric realizza un film di dolci e malinconici ectoplasmi, di evocazioni, di emanazioni, di trasparenze dove si sovrappongono immagini eteree di una cantante che si è fatta fantasma dell’epoca in cui esplodeva l’etere in tutta la sua potenza e le immagini dell’interprete protagonista di oggi, la cantante-attrice Jeanne Balibar che Amalric ritrova oltre quindici anni dopo aver realizzato con lei Le stade de Wimbledon (2001): ne viene fuori un film dallo spleen un po’ onirico, di respirazione di un mondo d’antan ormai scomparso per sempre ma rievocato all’insegna di una sorta di girandola ludica.

Si susseguono così frammenti di gioia, lavoro, disperazione, come la morte di Jacques Brel che provoca nella cantante un atto estremo, un tentativo di suicidio. Dietro alle quinte, espressione giusta perché qui il cinema si confonde con il teatro (di posa), lo spettatore scorge infatti gradualmente anche delle ombre positive, quelle di grandi chansonnier dell’epoca come Brassens e lo stesso Brel. In questo film rapsodico che sembra finire e ricominciare sempre, dove le cose s’iniziano e non finiscono, rispecchiando in pieno lo spirito di un’epoca e al tempo stesso il casino – le bordel come dicono i francesi – della creazione, lo spettatore è colto da un lento ma inarrestabile crescendo dove dapprima la persona e le canzoni di Barbara diventano per davvero una cosa sola per poi sciogliere ancora Barbara in Balibar (e viceversa). Trovando qui l’unitarietà, chiudendo qui le molte piste lanciate nel caos apparente.

Certo, Barbara non è tra le mani di un regista altamente raffinato, empatico e sensuale, di una sorta di scultore sciamano dell’immagine come il portoghese Pedro Costa, tra i più innovativi cineasti contemporanei che dedicò a Jeanne Balibar uno straordinario documentario sulla sua attività canora, Ne change rien (presentato a Cannes alla Quinzaine des réalisateurs nel 2009). La cantante, filmata in un raffinato bianco e nero, poco a poco si mutava, anzi si trasmutava in un altro essere dalle sembianze negroidi, in una sacerdotessa voodoo dell’incanto visivo – intesa come ipnosi in collegamento con l’inconscio – in fusione intensa con l’incanto canoro. Nel cinema di Costa il fantasma si fa carne, e oltretutto carne sensuale, una pantera nera suadente quanto oscura che sembra sorta da un’evocazione alla Jacques Tourneur. In Amalric si mantiene invece nella sua dimensione leggera, eterea, quella più classicamente fantasma.

Ma il film di Amalric, in questo suo lavoro ludico eppure empatico sulla fusione che ci auguriamo trovi una distribuzione italiana come era accaduto a Tournée, se non ambisce sul piano formale ai livelli più alti della creazione è comunque un piccolo, ottimo film, non pretenzioso, un po’ pop (ma senza giocare al vintage e senza cadere nel kitsch di certo pop), un po’ film che si vuole eterno brogliaccio – éternel brouillon come dicono ancora i francesi –, che consacrando artisti popolari e insieme raffinati come Barbara, dalla vera personalità, omaggia in filigrana un’epoca esistenzialista, dove personaggi di questo tipo potevano divenire anche vere star, per infine fondere le due cose, epoca e artista, come fossero una soluzione unica. È un’alchimia da piccolo sciamano, forse. Ma non è poco, in quest’epoca.