Cosa voglia dire il termine russo Nazidanie, il film ce lo spiega subito, traducendolo in una settantina di linguaggi tra cui il nostro. Significherebbe qualcosa come “edificazione”, quella ad esempio di un racconto veicolante una morale di cui fare tesoro e che dunque si presta a essere chiamato, in modo un po’ retrò, “edificante”.

Se tale termine contiene quasi tutto il cognome di Zinedine Zidane, è perché il racconto in questione consiste in un’imponente intelaiatura di parallelismi, nessi teorici e tracce narrative che l’artista e uomo di teatro Boris Yukhananov, assistito dal regista Aleksandr Shein, imbastisce intorno alla testata che il calciatore francese sferrò ai danni di Marco Materazzi nella finale dei campionati mondiali del 2006. Montando insieme un numero impressionante di materiali di repertorio (soprattutto televisivi), e facendo del risultato un efficacissimo bordone di accompagnamento dell’assolutamente prodigioso, forbitissimo eloquio in voce over che incolla per quasi due ore e mezza lo spettatore alla sedia senza un attimo di cedimento, conducendolo da un ritratto del campione transalpino agli annunci prima del suo ritiro dal calcio giocato e poi della sua ritrattazione, fino a ripercorrere separatamente i sentieri di Zidane e Materazzi dentro al torneo, i quali solo alla fine si incroceranno scontrandosi traumaticamente in quella che rimarrà l’immagine più famigerata di quell’edizione, Yukhananov e Shein dimostrano che quell’episodio rappresenta qualcosa come la paradossale rivelazione di una trascendenza.

Ci torneremo. Ma per poter chiarire di che si tratti, bisogna prima evidenziare un’altra cosa: e cioè che dentro alla parola Nazidanie c’è non solo Zidane, ma anche Nazi. I due autori hanno le idee chiarissime su quale sia la posta in gioco, e non esitano a rendercela nota già nei primissimi minuti: a essere decisivo, è il fatto che la fatale colluttazione abbia avuto luogo sullo sfondo dei campionati del mondo di calcio, ovvero sullo sfondo del massimo momento autocelebrativo di una civiltà che, come quella contemporanea, stringe insieme in un nodo inestricabile la globalizzazione con l’onnipresenza (per non dire l’onnipotenza) dei media. Ma i due autori sono altresì troppo intelligenti per dimenticare che il primo tentativo, volenteroso ma maldestro e dunque di successo soltanto effimero, di globalizzare il mondo e di suggellare questa unione con i media, fu il nazismo. Culmine di quel tentativo (e nel film lo si enuncia chiaro e tondo) furono le olimpiadi del ’36, il primo evento a venire teletrasmesso, rimasto poi nella Storia soprattutto perché Jesse Owens squarciò il velo del determinismo allora maggiormente di moda, quello della razza. Proprio lì, proprio nello stadio olimpico di Berlino in cui l’Italia alzerà la sua quarta coppa.

Quello che non riuscì ai nazisti, si sa, riuscì al tardo capitalismo uscito vittorioso dalla guerra fredda: l’unificazione del mondo sotto forma di globalizzazione che si auto-acclama mediaticamente. Ma Nazidanie ci mostra che anche in quella fatidica finale, al culmine di quella massima forma di auto-acclamazione mediatica del mondo globalizzato che sono i campionati mondiali di calcio, un altro e più subdolo determinismo è stato smentito, un altro velo è stato squarciato: quello della visibilità assoluta che i media garantirebbero grazie alla simultaneità (parola chiave del nostro universo globalizzato, quant’altre mai) che mettono in opera. In un mondiale che più di ogni altro ha visto intromettersi le tecnologie ottiche e di ripresa, arrivando là dove arbitro e guardalinee non possono vedere con sufficiente chiarezza, influenzando quindi le decisioni da loro prese sul campo e talvolta sconfessandole a posteriori, proprio il suo più leggendario episodio non è stato visto dall’occhio delle telecamere. O meglio: i due miliardi e passa di spettatori, la testata l’hanno vista, ma non in diretta, solo in replay. E anche nei giorni successivi, quando il fior fiore della strumentazione tecnologica è stato dispiegato da giornali e televisioni per carpire le fatidiche parole di Materazzi prima del fattaccio, è stato afferrato solo il proverbiale pugno di mosche: davvero uno dei maggiori campioni di tutti i tempi accetta di scivolare in un finale di carriera così inglorioso solo perché un macellaio in calzoncini corti ha risposto “preferisco la puttana di tua sorella” a una proposta di scambio di casacche?

Proprio qui sta il punto. Ciò che fatalmente sfugge all’onnipresente occhio mediatico, può venire invece afferrato da uno sguardo che rinuncia alla simultaneità per mettere i fenomeni in prospettiva, uno sguardo che come quello di Yukhananov e Shein dispiega un’eccezionale capacità retorico-affabulatoria, e uno straordinario saper scrivere, cosciente di tutti i trucchi del mestiere (digressioni, anafore, accelerazioni, inserimento di sottotrame – quella di De Rossi – a sostegno della narrazione principale), per rendere evidente l’oggettivo intreccio di destini rappreso nel folle gesto di Zidane. Quest’ultimo ode un’offesa alla madre che mai fu proferita (semmai, alla sorella), ma così facendo non fa che confermare un chiasmo che farebbe la delizia degli antropologi, tra la verticalità materna e l’orizzontalità dei fratelli, dopo un film intero in cui si ribadisce più volte la centralità della figura nella madre (da lui perduta da giovane) nella vita e nella carriera di Materazzi, e quella dei fratelli in quella di Zidane, il quale attribuisce proprio a loro la responsabilità della decisione di tornare a calcare i campi contravvenendo all’annuncio del ritiro, dopo che in un’allucinante intervista invece lui stesso, in un primo momento, dichiarò che era stata una voce misteriosa e probabilmente sovrannaturale a dirgli di tornare a giocare. Voce che può essere solo quella di Dio, quello che a sentire Materazzi lo prese e lo fece saltare più in alto di tutti nel suo primo gol ai mondiali, e soprattutto colui che il medesimo Zidane, nell’ultima immagine del film, definì “il più grande dei drammaturghi”. Tutto Nazidanie, in buona sostanza, cerca di sbozzare una sorta di armonia delle sfere in cui tutti i fenomeni sono reciprocamente connessi, in cui la guerra in Libano mossa da Israele all’indomani del mondiale “risponde” al ritiro dalle colonie a Gaza sancito proprio quando, due anni prima, Zinedine annunciò al mondo di appendere le scarpette al chiodo, e in cui l’assurdo rigore del fuoriclasse transalpino nei primi minuti della finale “risponde” alla traversa di Trezeguet nella lotteria che assegnò la coppa dopo i supplementari.

Il tempo, insomma, è lì solo per rapprendersi continuamente e sistematicamente in spazio a furia di rime interne, ma intanto il tempo c’è, e il suo dispiegarsi è, come si conviene, il dispiegarsi del racconto. Ecco allora che la partita diventa finalmente chiara. Da un lato ci sono i campionati mondiali, iperbole di quell’orgia mediatica che viviamo tutti i giorni, e che a spettatori e protagonisti non chiede che la perpetua riconferma dell’eterno presente globalizzato, dominato dalla visibilità assoluta e dalla simultaneità, attraverso il gesto puramente performativo della partecipazione al rituale. Dall’altro c’è l’irresistibile affabulazione di Yukhananov e Shein, che strappa un istante topico dall’eterno presente e lo mette in prospettiva. Attenzione: tra le due cose non c’è contrapposizione frontale. I due autori, all’orgia mediatica partecipano pienamente, e di fuoriuscirne non si sognano neppure: il loro ammaliante eloquio tutto sommato paga pegno al postmoderno proprio in virtù del suo eclettismo stilistico: la felicità omerica che sovranamente prendeva tangenti lontanissime nello spazio e nel tempo senza mai rinunciare a far sentire ogni singolo momento come quello presente si mescola a motivi tragici, rinascimentali (specie nei richiami pittorici), biblici, cristiani; così facendo, la necessità interna dello stile si polverizza fino a far rimanere solo l’atto del narrare (con inaudita maestria) in sé e per sé, pura e vuota performance affabulatoria. E gli autori lo riconoscono apertamente: i mondiali, afferma a un certo punto la voce over, sono belli perché rivelano che il nostro stare al mondo è prima di tutto gioioso a prescindere da tutto quello che ci succede, e dunque l’accanito zelo ermeneutico esibito da Nazidanie, che tenta di ricondurre tutto a un senso preciso ed enunciato come tale, passa sostanzialmente in secondo piano davanti alla jouissance che lo sottende, innanzitutto la jouissance del raccontare.

Ma a dispetto di questa intima complicità con l’avversario, uno spostamento decisivo Nazidanie lo opera. Esso assomiglia per molti versi a ciò che Benjamin chiamava “violenza divina”, quale antidoto alla “violenza mitica”: se il Mito si spaccia come una sorta di canale privilegiato verso la trascendenza, la trascendenza vera si situerà nella rivelazione (la benjaminiana “illuminazione profana”) che questo rapporto non sussiste. Il Mito-Zidane, con la sua testata, rinuncia a qualsiasi pretesa di divinità, e per così dire torna umano proprio al termine della partita che doveva consegnarlo all’Olimpo. E proprio quel momento cruciale, l’onnipresente occhio mediatico non lo trasmette in diretta mondiale. Dunque anche il mito contemporaneo della visibilità assoluta e della simultaneità finisce per vacillare: il re è nudo, e a spogliarlo è un movimento retorico interno all’orgia mediatica da cui è comunque impossibile uscire, un movimento retorico che scippa l’eterno presente dall’altare della sua perpetua riconferma rituale, e restituisce alla negazione del tempo in cui esso consiste il nome che nei secoli ha sempre avuto: quello di destino. Un destino mai individuale, ma sempre intersoggettivo, perché tutto è interconnesso, sempre. Presupposto, questo, che definisce precisamente ciò che sarebbe la globalizzazione, ma che quel suo supporto rituale che è la perpetua auto-acclamazione mediatica tende a occultare, e a cancellare nel vuoto atto della partecipazione. Presupposto a cui Nazidanie intende invece restituire una visibilità, in forma di fitto sistema di corrispondenze. L’orgia mediatica di tutti i giorni, culminante nei mondiali, è un’infinita cerimonia religiosa in cui il mondo globalizzato si investe per auto-acclamazione come il migliore dei mondi possibili, e ci ripete incessantemente “non avrai altro Dio all’infuori di me, semplicemente perché non esiste nessun ‘fuori’ della visibilità assoluta e della simultaneità”. Nazidanie, senza rinunciare a parteciparvi, spinge questo dispositivo teologico agli estremi reintroducendo nientemeno che un disegno divino, ma uno in cui Dio finisce per esaurirsi totalmente nel disegno. E sta in questo, la morale con cui Nazidanie dovrebbe e deve edificarci.