Secondo la medicina tradizionale cinese il rene è l’organo energetico più importante dell’organismo, la sede dell’energia prenatale acquisita alla nascita. Dalla forza dei reni dipendono la volontà e il coraggio di affrontare le paure più profonde. La notte dopo aver visto Touch me Not ho sognato di scappare via da un ospedale dove volevano espiantarmi un rene senza il mio consenso. Da questo sogno è ripartita la mia riflessione sull’opera prima della regista rumena Adina Pintilie, la cui vittoria alla 68ª edizione della Berlinale ha generato non poche polemiche. Più importante – e più interessante – di soffermarsi sulla natura dei singoli giudizi negativi è capire perché Touch me Not abbia scatenato fastidi, noia e insofferenza tra i molti spettatori che hanno abbandonato la sala durante la proiezione.

Il film della Pintilie ha il potere di opporsi al dogma secondo il quale una narrazione riesce nei suoi intenti quando universalizza le emozioni rendendole condivisibili e tangibili e richiede, invece, di tornare a ritroso sull’origine convenzionale di ciò che senza troppe domande viene cristallizzato nella norma. Altra cosa dal gettare la realtà in balìa del relativismo, per la semplice ragione che qui ci si confronta con l’espressività non dicotomica del corpo e con la sua grammatica onirica. Nonostante le presunte battaglie intellettuali contro il modello cartesiano, la tendenza a convertire un processo di (auto)consapevolezza in legge universale è una forma di violenza a cui ci si è, già da tempo, socialmente e politicamente assuefatti. Touch me not è un esperimento riuscito di come sia impossibile applicare alla sfera intersoggettiva-affettiva verità quantificabili e non in virtù della sua inaffidabilità, ma perché in questo spazio non ci si ritrova naturalmente disposti su una stessa linea temporale condivisa, progressiva e omogenea. I protagonisti di Touch me not si sintonizzano per brevi momenti, ora con passione e immediatezza, ora con repulsione e titubanza, altre volte osservandosi di nascosto a distanza. Né il loro rapporto, né tantomeno quello con lo spettatore si fonda su un meccanismo di identificazione empatica, tramite cui ricercare il riconoscibile e il già noto. Più spesso semplicemente si è in ascolto di ciò che non si comprende. Per questo mi sono concessa in apertura di fare un accenno a un’esperienza personale, perché Pintilie racconta non una storia ma un viaggio sulla superficie espressiva dei sintomi.

Il film si apre con l’esplorazione ravvicinata di un corpo maschile nudo, sdraiato su un letto, subito seguita dall’inquadratura della regista che appare sullo schermo della telecamera rivolgendosi direttamente allo spettatore e mettendo immediatamente in questione il tema stesso del suo esperimento: “Why haven’t you asked me what is this film about? And why have I haven’t told you anyway?”. Fino alla fine Pintilie farà incursione in scena, dialogando con i protagonisti e, in alcuni casi, cedendo loro il suo posto. La voce melensa e lo sguardo assente – a dire il vero un po’ indisponenti – e il gioco di ridefinizione degli spazi d’azione sono indizi salienti del tentativo di prendere la misura della realtà attraverso i corpi: distanti, curiosi, avvinghiati.

Laura (Laura Benson) è una cinquantenne che cerca di superare la sua incapacità di provare piacere fisico, la sua insofferenza per il contatto, sperimentando un po’ svogliatamente una serie di soluzioni e rimedi terapeutici. Osserva un giovane call boy masturbarsi sul suo letto, assiste al peep-show della transessuale sex worker-cum-therapist Hanna (Hanna Hoffman) e si sottopone alla stimolazione tattile e agli esercizi di respirazione del sex coach Seani (Seani Leoni). Laura non viene mai definita dall’ambiente circostante: né dalla sua casa – sebbene vediamo tutti i personaggi fin dall’inizio entrare nel suo spazio privato senza riuscire a penetrarlo – né dalle strade su cui cammina, di cui nulla è visibile al di fuori dei suoi movimenti, scanditi da un estratto breve e tagliente da 5 Uhr/48 Tier degli Einstürzende Neubauten. La casa di Laura è un luogo asettico che annulla ogni possibile rimando al “focolare domestico”, nessuno oggetto porta le sue tracce, nessun gesto rimanda alla ritualità del quotidiano. Laura galleggia in una dimensione affatto corporea, al contrario di tutti gli altri personaggi che fanno il loro ingresso nella storia durante un workshop di yoga in cui sono guidati nella reciproca esplorazione dei loro corpi. La donna osserva, dalle ampie finestre dei corridoi della clinica, Tomas (Tomas Lemarquis) e Christian (Christian Bayerlein), un uomo affetto da atrofia muscolare spinale, mentre a turno, a occhi chiusi, usano le mani per conoscere la persona di fronte. Tomas esita ai bordi della bocca del suo partner da cui scivola della saliva, ma Christian con estrema naturalezza, la stessa con cui vive una vitale sessualità con la sua compagna, Grit (Grit Uhleman), non moralizza la reazione di disgusto. Sintomi, reazioni, espressioni corporee sono colte da Pintilie un attimo prima che possano venire limitate da categorie patologiche o dall’ossessione per la definizione della propria identità. Ciononostante, il film mostra sottotraccia l’impossibilità di uscire del tutto da questi processi, se non attraverso la provvisorietà di un incontro e a patto di tener conto del valore euristico del rischio. Touch me not  è stato accusato, tra le altre cose, di essere privo di ironia. Eppure, sulla carrellata di metodi e pratiche di self help e self awareness aleggia l’amara e goffa ironia insita nella convinzione di poter superare le barriere contemporanee del proprio ego: facendo del corpo lo strumento privilegiato per entrare in contatto con le autentiche sensazioni primordiali, ci si può ritrovare di fronte al paradosso di un corpo ridotto a una macchina cervellotica, a una danza narcisista intorno all’ego.

Alla fine degli anni Settanta, in La Cultura del narcisismo, Christopher Lasch descriveva spietatamente l’autofagocitamento egotico della società americana: “Gli americani dei giorni nostri si sentono schiacciati non dal senso delle possibilità senza limiti, ma dalla banalità dell’ordine sociale che hanno eretto per dominarle. Avendo interiorizzato le restrizioni sociali attraverso cui cercarono nel passato di contenere le libertà entro i limiti della convivenza civile, si sentono sopraffatti da una noia che li annienta, come animali i cui istinti siano stati fiaccati dalla cattività. Il ritorno a uno stato primitivo rappresenta per loro una minaccia tanto lontana che ciò a cui aspirano è proprio una esistenza più vigorosamente istintuale. La gente, oggi, lamenta piuttosto la perdita di emotività; valorizza esperienze più intense, cerca di risvegliare sensi addormentati, si sforza di stimolare stanchi appetiti. Gli uomini del XX secolo hanno eretto una tale quantità di barriere psicologiche per difendersi da emozioni intense, e investito in questo processo tanta parte dell’energia pulsionale, che hanno quasi dimenticato cosa si prova a lasciarsi invadere dal desiderio. Tendono, piuttosto, a radersi di una rabbia inespressa, che nasce dalle difese erette contro il desiderio e che a sua volta genera nuove difese. Anche se in apparenza sono persone miti, remissive e socievoli, internamente sono sconvolti dall’ira, che in una società compatta, burocratica e sovrappopolata non può disporre di molti sbocchi legittimi”. [1]

Touch me not è anche e soprattutto un film su quest’ira e, ancor più importante, sulla rabbia femminile. Quella “rabbia indecifrabile” di cui parla Angela McRobbie, prendendo in esame gli stereotipi interpretativi mediatici dei disordini alimentari per mostrare come le ragioni di alcuni malesseri femminili non vengano più lette come violenza delle “norme restrittive” ma, al contrario, come conseguenza della sperimentazione della raggiunta libertà. La retorica del disagio diffuso diviene così uno strumento per marcare una differenza sessuale e definire “l’ego corporeo delle donne come incline all’angoscia, in un certo senso incompleto e incapace di autostima”. [2]

In effetti di questa rabbia e dei suoi multiformi livelli si parla ancora poco e male e il rimando all’isteria, in quella che è diventata la sua vulgata comune, è sempre in agguato. Anche per questo motivo Touch me not è un film importante che si è pienamente meritato la vittoria dell’Orso d’oro, perché non ha la pretesa né l’intento di esaurire un tema così profondo e necessario ma schiude più livelli dei conflitti al fondo della rabbia indecifrabile: quando la regista di spalle, seduta sul divano a casa di Laura, le racconta un sogno recente: “Ho sognato che facevo l’amore con il mio compagno e mia madre compariva ai piedi del letto. Le dicevo di andare via ma lei rimaneva lì. Allora la chiudevo fuori in balcone, ma lei ricompariva, non voleva andare via”. O quando Laura urla goffamente stimolata dai pugni sul petto da Seani – ed è chiaro come non sia l’espressione liberatoria, risolutiva, di un impulso violento che ha molti nomi e molti strati.

[1] C. Lasch (1979), La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, p. 23

[2] A. McRobbie, La rabbia indecifrabile. Giovani donne e disturbi post-femministi, in “Studi Culturali”, Anno V, N. 2, agosto 2008, p. 190.