A ridosso del 19° Congresso del Partito Comunista cinese, che ha suffragato le ambizioni globali del colosso asiatico, nella provincia dello Shanxi, a Pingyao, si è tenuta la prima edizione del festival fondato da Jia Zhangke e diretto da Marco Müller. Rispetto all’evento che l’ha preceduto, il Pingyao Crouching Tiger Hidden Dragon International Film Festival (PYIFF) si è smarcato dalla granitica visione di un soleggiato avvenire invocata da Xi Jinping per aprire uno spazio di non-allineamento, cinematografico ma non esclusivamente tale. Seppur all’interno dell’alveo ufficiale sovrinteso dalle autorità preposte, il festival ha saputo incunearsi nelle crepe della facciata istituzionale proponendo una selezione di film quanto mai imprevedibile, plurima e, come lo stesso Müller l’ha definita, “felicemente contraddittoria”. Alla spettacolarità didascalica di un film di propaganda come Sky Hunter di Li Chen, regista marziale al suo esordio, il festival ha affiancato la sublime stroncatura che Vivian Qu formula in Angels Wear White nei confronti della corruzione endemica e patriarcale della Cina moderna. Al musicarello pechinese, l’unico ad aver alzato l’età media di un pubblico per lo più giovanissimo, si è alternato quello napoletano di Ammore e malavita dei Manetti Bros o la commedia pop-dialettale However della giovanissima Li Jiaxi che a Pingyao giocava in casa. All’insegna di una contaminazione internazionalista, il PYIFF ha aperto le sue porte al cinema di mezzo mondo: dall’Austria al Kyrgyzstan, dall’Argentina alla Georgia, dall’America al Giappone, dall’India alla Svezia e oltre. Se da un lato il festival di Jia Zhangke si rivolge alla comunità cinefila “locale” e fa riferimento a un’industria del cinema indipendente che in Cina continua a crescere, dall’altro si è sin da subito premurato di aprire varchi verso l’esterno per coltivare quelle sinergie di cui il cinema da sempre si nutre. Mentre i trade magazines si sono affrettati a descrivere il PYIFF come il “Sundance cinese”, a noi è parso qualcosa di decisamente meno standardizzato – fatto alquanto paradossale se si tiene conto del contesto politico in cui avviene. Un festival capace di rinvenire la centralità del cinema e della sala in un momento di frammentazione schermica senza però appellarsi alla retorica passatista della cinefilia nostalgica. A Pingyao, cittadina medievale patrimonio dell’UNESCO e dal 2017 anche dell’umanità cinefila intera, abbiamo preso un tè col direttore artistico e chiesto delucidazioni sul festival, la sua genesi e gli auspici per il futuro prossimo venturo.

Filmidee: Qual è il ruolo e il significato di questo festival per la Cina, ma anche per il cinema diciamo non cinese?

Marco Müller: Per tanti anni ho avuto il sogno di creare uno spazio privilegiato qui in Cina per presentare quei film che potessero in qualche modo suscitare una volta per tutte una fame per qualche cosa di diverso. Quindi si trattava di creare, aldilà di quei mastodonti che sono i festival con una più evidente stampigliatura ufficiale come il quello di Shanghai o di Pechino, un luogo e uno spazio diverso. Io mi sono rifiutato di dirigere il festival di Shanghai perché mi è stato detto che il mio mandato era di portare il numero di film presentati in otto giorni a 400 titoli. Stiamo scherzando!? Che senso ha portare dei film che vanno a farsi del male, dato che non potranno avere una vita dopo il festival sommersi come sono da centinaia di altri titoli? A mio avviso non ha nessun senso. Però appunto al contrario di queste grosse operazioni dove si deve far vedere tutto e il contrario di tutto si trattava invece di insistere su pochi film che devono dire agli spettatori che tra i tanti film non solo esistono anche questi, ma che sono questi i film che noi vorremmo che voi andaste a chiedere ai vostri distributori, alle piattaforme VoD. Si trattava in qualche modo di rendere più vivace la presenza di tanti titoli sul mercato cinese che una volta acquistati, vanno poi attivati! Ci sono tanti distributori in Cina che comprano grosse fette di un catalogo di un venditore per poi fare poco con quei film o addirittura certe volte, mi viene raccontato, non pagare oltre la prima rata. Queste società fanno parte di grossi gruppi che giocano in borsa e il fatto di poter vantare un catalogo così importante fa parte dei loro asset. Molto spesso dentro i loro listini ci sono cose meravigliose senza che i distributori lo sappiano, dato che spesso questi cataloghi vengono acquistati senza essere visti. Io sono rimasto stupefatto parlando con alcuni di loro – chiaramente ci sono tantissime eccezioni di distributori seri che fanno un ottimo lavoro e che hanno piena consapevolezza del valore dei film presenti nel loro listino – dopo aver scoperto che a sei mesi dall’acquisto nessuno aveva ancora visto il film. Da qui l’importanza di creare un festival che fosse un vero luogo d’incontro, di convivialità, che solo una piccola città come Pingyao poteva offrire. La città vecchia è così bella che una volta dentro le mura di cinta medievali non ti viene neanche voglia di uscire finendo così per gravitare attorno ai luoghi del festival.

Fi: Mi sembra di capire dunque che questo festival sia un po’ un’anomalia nel panorama cinese? È così?

MM: Assolutamente. È un’anomalia perché Jia Zhangke molto intelligentemente è riuscito a costruire una società privata che gestisce il festival. PYIFF è il primo festival in Cina ad essere gestito da una società privata e non da un organo municipale, e ti assicuro che questa è una bella differenza.

Fi: Anche in termini di libertà d’azione?

MM: Sì, una libertà d’azione limitata quanto vogliamo, ma che permette di definire un ambito e di provare a renderlo più vivace. Per me la grande incognita era, dato che abbiamo avuto un grosso evento politico a ridosso del festival (il festival è stato posticipato di due settimane circa a causa del 19° Congresso del Partito Comunista Cinese, ndr), chi si sarebbe preso la briga di viaggiare alcune ore in treno per venire a vedere film dei quali non avevamo potuto rilasciare troppe informazioni. Io adoro Pingyao e mi trovo benissimo con la gente del posto, però non posso certo dire che sia un nido di cinefili. Prima della nascita di questo festival c’erano solo due multiplex che passavano solo i film mainstream cinesi e i blockbuster americani, nient’altro. Devo dire che sono rimasto parecchio sbalordito, ho incontrato delle individualità veramente interessanti. Per dire: dopo la prima del film di Aida Begic (Never Leave Me) che è passato alle sette e mezzo di sera nell’arena all’aperto con otto gradi centigradi di temperatura, la regista, dato il riscontro emozionante da parte del pubblico, ha deciso di rimanere per un Q&A improvvisato con centinaia di spettatori che, nonostante il freddo, le hanno posto diverse domande. C’erano due madri che sono rimaste fino alla fine, evidentemente molto colpite dal film, con le quali mi sono fermato a parlare. Venivano da una città a circa un’ora di macchina da Pingyao e a casa avevano detto: “Non rompeteci le scatole, noi stasera andiamo a Pingyao a vedere film che non potremmo vedere altrove!”. Ovviamente stiamo parlando di una classe media con un certo livello di cultura.

Fi: Prima accennavi al fatto che PYIFF è il primo festival indipendente ad essere gestito da “un privato”. Ma invece il Beijing Independent Film Festival e l’altro festival indipendente a Nanjing erano organizzati da organi municipali?

MM: No, ma quelli erano festival non riconosciuti dalle autorità cinesi e infatti non ci sono più. PYIFF è il primo festival, riconosciuto e approvato dalle autorità, ad essere gestito da un ente privato.

Fi: La varietà di generi e approcci stilistici dei film cinesi presenti a questo festival suggerisce una ricchezza e complessità che i festival europei non mi sembrano riflettere. Un film come However (della ventenne Li Jiaxi) dubito che avrei potuto vederlo altrove. A tuo avviso l’immagine del cinema cinese in Europa e in America è per così dire vittima di stereotipi o comunque di una visione limitata?

MM: Io per primo devo confessare che vedere come avevo sempre fatto una quarantina o al massimo una cinquantina di film cinesi all’anno non trascrive la realtà di tutte le situazioni di un paese che dal punto di vista cinematografico sta ridiventando per fortuna multi-centrico. However ad esempio viene da questa provincia, lo Shanxi, che quest’anno ha prodotto ben 36 film che hanno passato la censura più un’altra dozzina che ancora aspettano il visto di censura. Cinquanta film era quello che produceva l’Italia nei momenti più tristi della sua storia produttiva. Un film come However non è soltanto una commedia, è una commedia localista (i sottotitoli non lo traducono, ma il film è in dialetto) piena di riferimenti alla cultura pop. È la prima commedia pop provinciale che ho visto in Cina. Il festival ha anche una sezione di work in progress dove ci sono delle cose strabilianti, anche se poi bisognerà vedere una volta passata la censura quante modifiche ci saranno state. Ho scoperto ad esempio che in una regione al confine con la Russia si può realizzare un film distopico di fantascienza, che i film di mafia del Nordest, resi famosi dall’Orso d’Oro a Diao Yinan per Black Coal, Thin Ice, si sono diversificati a tal punto che un film che ho visto nella sezione work in progress è una commedia scatenata. O ancora, che a duecento chilometri a sud di Shanghai si può fare un cinema alla Wong Kar-wai per raccontare la difficile transizione dalla società cosmopolita della Shanghai fine anni Quaranta alla metropoli socialista in un film che racconta la storia di un nightclub trasformato in casa del popolo.

Fi: In paesi come la Francia la difesa del prodotto cinematografico nazionale tramite leggi ad hoc è vista come un provvedimento legittimo per contrastare lo strapotere hollywoodiano. In Cina la quota annuale di 24 film stranieri che si possono distribuire (in profit-sharing) invece è percepita e descritta come un’arbitraria forma di censura. Qual è la tua opinione a riguardo?

MM: La nascita dell’Alleanza del cinema d’essai in Cina (Nationwide Alliance of Arthouse Cinema), ratificata nell’ottobre dell’anno scorso, ha permesso di ottenere entro la fine di quest’anno (2017, ndr) 10 quote supplementari per il film d’essai. Questa è una grossa novità, che insieme a questo festival aiuterà a nutrire quella fame di cinema indipendente di cui parlavo prima. Jia Zhangke sostiene che entro i prossimi due anni il pubblico cinese per quanto riguarda i film d’essai si aggirerà intorno ai 50 milioni. Per la Cina è poco, ma comparato ad altri paesi diventa un esercito di difensori di un’idea di cinema un po’ meno banale e scontata del solito. In questo senso tutto quello che riusciremo a mettere insieme pezzo per pezzo con questo festival servirà davvero alla penetrazione di un cinema straniero un po’ più originale. Il cinema italiano ad esempio in Cina è assolutamente inesistente perché non c’è mai stata un’operazione distributiva consapevole di come funzioni il mercato in questo paese. Proprio per questo ho ritenuto opportuno portare qui Ficarra & Picone (il cui L’ora legale ha vinto a Pingyao il premio del pubblico, ndr) e i Manetti Bros, e devo dire che quello che è successo dopo la proiezione di Ammore e malavita è stato incredibile. Il film dei Manetti è finito a mezzanotte e nonostante ciò sono rimaste 150 persone a parlare e a divertirsi con loro in un Q&A non previsto, cinquanta delle quali continuavano a strillare complimenti. Tutto ciò nell’arena all’aperto, al freddo!

Fi: Da fuori spesso la censura appare come un monolite inflessibile fatto di regole ferree. Qual è la realtà sul campo per quanto riguarda la censura cinematografica in Cina? Ci sono margini di manovra e dialogo?

MM: Guarda, io ho avuto a che fare con la censura di Pechino, con la censura del governo centrale e con quella di Macao. Devo dire che quello che è cambiato negli ultimi anno è che ormai è la censura a livello locale che prende le decisioni riguardo la produzione dei film, la loro uscita nelle sale e la proiezione ai festival. Per quanto riguarda questo festival il fatto più clamoroso è rappresentato dal film di Arnaud Desplechin (Les fantômes d’Ismaëlndr) a cui abbiamo dovuto apportare una lieve modifica ricentrando sette secondi di film dove c’erano troppi peli pubici in primo piano. Per il resto non abbiamo dovuto toccare nulla di un film che ha parecchie scene di nudo. La censura provinciale ha detto – e io sono rimasto veramente sbalordito dalla loro dichiarazione – “per tutti quei film dove riscontriamo una qualità artistica e una volontà autoriale sufficientemente forte da giustificare scene di nudo, quest’ultime saranno approvate.” Poi certo, alcuni film che abbiamo sottoposto alla censura sono stati bocciati e io per primo, senza voler rivendicare una volontà di autocensura che non c’è stata, ogni volta che c’erano film con scene di sesso molto esplicite e insistite, scene di violenza eccessiva, ho ritenuto inopportuno proporli. Non avrebbe avuto senso, stiamo provando ad instaurare un rapporto di fiducia reciproca e devo dire che sta funzionando se pensi che abbiamo fatto vedere il film di Kitano (Outrage: Codandr)…

Fi: Qual è stata la reazione del pubblico e dei media cinesi ai film stranieri che sono passati al festival?

MM: Parliamo pure di film italiani, stasera infatti verrà premiato L’ora legale di Ficarra & Picone che ha vinto il premio del pubblico. È un evento senza precedenti nel senso che il cinema italiano nella testa della gente si limita ad un riferimento obbligato al neorealismo e al ricordo, per chi ha più di quarant’anni, del successo in sala di Zorro di Duccio Tessari e de L’ultima neve di primavera che sono gli ultimi due film italiani ad avere avuto successo al botteghino qui in Cina. Conoscono poi “L’ultimo imperatore di Bertolucci” anche se in pochi l’hanno visto, poi ovviamente Chung Kuo – Cina di Antonioni che sollevò grandi polemiche al tempo anche se poi il verdetto politico sul film negli anni è stato rivisto. E poi basta, tutto qui. La percezione del cinema italiano in Cina si limita a questa manciata di titoli. Per i pochi altri film che sono stati distribuiti trattasi di distribuzioni più che confidenziali, Notturno Bus (di Davide Marengo, ndr) l’hanno visto in poche decine di migliaia di spettatori e non ha avuto nessun impatto. Io ho invitato due film italiani che mi convincono molto sul piano artistico e creativo, ma che sono anche in grado di combinare tutti gli elementi necessari. Due film di cinema popolare d’autore in qualche modo capaci di parlare a diversi gruppi di spettatori e di comunicare, nel caso dei Manetti, il referente che hanno nel cinema di John Woo e nel cinema d’azione di Hong Kong. Nonostante Ammore e malavita abbia già un distributore qui in Cina, ci sono stati ben cinque distributori cinesi che dopo la proiezione si sono fatti avanti. Anche il film di Ficarra & Picone ha evidentemente colpito nel segno, riflettendo problematiche nelle quali il pubblico locale si è in qualche modo ritrovato.

Fi: Qual è lo stato della cinefilia in Cina?

MM: Guarda, un po’ come in Italia e altrove valgono molto di più le pubblicazioni online che quelle cartacee. Lì conosco i pochi critici seri della carta stampata, ma la maggior parte dei giornalisti cinesi che si occupano di cinema sono coloristi. Trovo il caso di Junzi Wei, che qui al festival ha moderato l’incontro con John Woo, molto significativo. Lui è stato il primo critico cinematografico ad applicare la politica degli autori al cinema di genere cinese, e la sua attività di critico e difensore di un certo tipo di cinema l’ha poi portato a produrre il film di Woo-Ping Yuen (Qi men dun jiandr), il coreografo di Kill Bill e Matrix. La realtà cinematografica qui in Cina è molto sfaccettata e in continuo cambiamento.