In uno dei momenti più spassosi del capolavoro di Buster Keaton, Il navigatore (1924), la coppia di fidanzati che si trova in balia del mare su un transatlantico deserto è terrorizzata dal viso di un uomo che d’improvviso si affaccia a un oblò, scompare, poi si riaffaccia: in verità si tratta di un ritratto che è fortunosamente finito appeso alla fiancata della nave. È un viso pietrificato, dietro il quale non c’è un corpo, una funzione drammatica, è puro accessorio, che compare e scompare. Pochi sanno che quella faccia appartiene all’uomo che ha diretto con Keaton il film: Donald Crisp, sicché l’intera gag appare come un’autoparodia, o addirittura una metafora della funzione del regista in questo tipo di film: qualcosa che c’è e non c’è, qualcosa di pietrificato e accessorio. Il cinema comico è davvero, fra i generi cinematografici, anomalo, fa parte per se stesso.

Già il gruppo che in Francia iniziò, negli anni ’50, la «nuova critica» André Bazin in testa, con la politique des auteurs, applicata con spavaldo e fantastico entusiasmo soprattutto al bistrattato cinema industriale americano, faceva eccezioni singolari per gli «autori» comici, individuati non nei registi come Edward Cline o Edward Buzzell o James W. Horne, ma negli attori, anche quando non apparivano «dietro la macchina da presa»: così, a metà degli anni ’60, i Dizionari cinematografici  «nouvelle vague» rigorosamente per «autori», con esclusioni e stroncature calcolatissime, accoglievano fra le voci privilegiate figure come Laurel e Hardy o i Marx Brothers, che non si sono mai sognati di dirigere un film. Nella più recente pratica critica cinematografica, dopo l’irruzione strutturalistica e gli scossoni ideologici sessantotteschi, tesi a recuperare la «materialità» del processo produttivo, il concetto di autore è venuto perdendo il suo valore taumaturgico e assoluto, anche se non si è instaurata una politique realmente alternativa.

L’attuale lavoro teorico, non tutto palese o popolare, verte essenzialmente sull’individuazione delle strutture linguistiche e ideologiche delle opere e del loro contesto, secondo gli esempi primi elaborati dai «Cahiers du Cinéma» ante svolta maoista totale, e a partire dal solito non mai studiato abbastanza cinema americano classico (c’è da recuperare quasi mezzo secolo di eurocentrismo critico). E Hollywood significa produzione «in serie», significa studios, significa «genere»: appunto sul «genere» sembra spostarsi sovente oggi il lavoro critico, anche se non siamo ancora a una politique des genres che sostituisca la politique des auteurs, essendo il «discorso sui generi» quasi un complemento, più o meno primario, di quest’ultima (e allora spesso si individua giustamente nella fedeltà o nella trasgressione alle regole il senso dell’operazione registica).

Nel mondo dei generi hollywoodiani (ma si potrebbe ripetere lo stesso discorso per le altre cinematografie, seppure con notevoli sfumature e attenuazioni, dovute alla minore disponibilità o capacità di organizzare una produzione in serie) esistono generi codificatissimi, come il western, e altri transitori, come il musical, ma nessuno ha le caratteristiche uniche e anomali del «comico». Nel «comico», distinto nettamente dalla «commedia», più o meno sofisticata, anche nella variante screwball più sfrenata (tipica delle commedie del grande Howard Hawks, come il capolavoro del genere, Susanna!, 1938), si incontrano impulsi diametralmente opposti. Il «comico» è il campo di paradossali contrasti, che rischiano di rendere addirittura inutile o problematica una definizione critica.

Una prima coppia di opposizioni è intanto quella che si è già rivelata inizialmente e che si potrebbe riassumere in questa proposizione: il cinema comico esalta l’autore al massimo grado/il cinema comico esclude l’autore. Il contrasto si risolve facilmente, si direbbe, togliendo al regista l’esclusiva della qualifica d’autore, ma sta di fatto che questa eccezione avviene solo ed unicamente per gli attori comici, e del resto l’esaltazione e umiliazione dell’autore corrispondono a due ben precisi tipi di film, facilmente esemplificabili. Da una parte i film di Chaplin, dall’altra i film con i fratelli Marx, ma anche da una parte i film di Buster Keaton, sia pure non diretti da lui, dall’altra i film di Woody Allen, sia pure diretti da lui. La discriminante è naturalmente il riconoscimento della regìa come mise en scène cosciente, come sistema di scrittura.

Un momento di rottura nella parabola del genere comico, contrariamente a tutti gli altri generi, esclusi quelli di là da venire (musical, commedia sofisticata), è rappresentato dall’avvento del sonoro. Al comico «visivo» si accostò subito il comico «verbale», «musicale»; ai grandi mimi del muto subentrarono celebri ed oscuri fantasisti di music-hall, attori di vaudeville, comedians. Ecco, negli anni ’30, per limitarci a Hollywood, i Marx, Eddie Cantor, Joe E. Brown, W. C. Fields, Mae West, e il «riciclaggio» di Laurel e Hardy; ecco, negli anni ’40, Bob Hope, Gianni e Pinotto (Abbott e Costello), Red Skelton, Danny Kaye. I registi scompaiono «fuori bordo» come il povero Donald Crisp, che pure lasciava il passo a un grande autore alla guida della nave del film comico. Ma è la qualità stessa di questi nuovi attori che esige la defenestrazione dell’«autore»-regista, senza la sostituzione di un attore che sappia anche individuare una precisa «scrittura», diciamo così (come nel caso dei classici di Keaton). Dal palcoscenico, più o meno minore, questi nuovi comici portano una colossale carica «epica» che non può venire umiliata e disciplinata in una scrittura unitaria, senza una perdita secca nella vis comica dell’opera e del personaggio. Così Mae West rende tanto più quanto più si astrae in «a parte» con lo sguardo «fuori quadro» (esempio: «Cara, è primavera, la stagione dell’amore»/Mae, guardando in alto a destra: «Che si fa il resto dell’anno?», anzi «What’s the matter with the rest of the year?», e il partner non risponde, perché non ha sentito), e W. C. Fields quanto più si ingarbuglia e bofonchia perché è davvero ubriaco, Joe E. Brown quanto più spalanca inopinatamente una bocca spaventosamente grande in uno sbadiglio «fuori testo». E i fratelli Marx, i principi assoluti di questa faccia «senza autore» del cinema comico americano, portano all’estremo la frantumazione della scrittura «possibile», con indugi brutali su Chico che scorrazza con le dita sulla tastiera di un pianoforte, Harpo che s’incanta a un’arpa o estrae grammofoni dalla tasca o si rinfresca le idee passandosi un fazzoletto da un orecchio all’altro (internamente), Groucho che si perde in terribili dialoghi corrosivi che sono la vetta assoluta dell’«effetto di straniamento» al cinema, aiutato dalla tenuta «neutra» della partner («Tre mesi fa mi ha promesso di introdurmi in una società, da allora non ha fatto altro che incassare un ottimo salario» / «Ci dice niente? Quanta gente crede che riesca a incassare un ottimo salario, mia buona signora?» / «Non sono la sua buona signora» / «Non lo dica, non mi importa del suo passato»…).

È «epicità» autentica e geniale quella del comico di rivista o di music-hall, così disinibito ed esaltato nella sua volgarità, di fronte alla quale per decenni si è storto e ancora si storce il naso in certe aristocratiche province culturali. Per rifarsi a modelli europei basterebbe confrontare un «autore» massimamente cosciente e «scritto» come Jacques Tati a un attore «epico» come Totò, specialmente grande in certi momenti di assenza di regia. Il punto centrale di questo dilemma esaltazione-umiliazione dell’autore nel genere «comico» è l’opera dell’attor comico per eccellenza degli anni ’50 e ’60: Jerry Lewis. Nell’opera di Lewis si può seguire lo spostamento del genere dall’estremo «epico» (assenza del regista per lasciare spazio all’attore), cui appartengono molti film degli esordi in coppia con Dean Martin, all’auteur (come nei film da lui diretti), passando attraverso la mediazione di una forte personalità di gagman-regista, molto cosciente del carattere del genere: Frank Tashlin, i cui film con Lewis sono una sorta di episodio unico nella storia del genere, punto d’incontro delle due componenti contrastanti sopra notate. Jerry Lewis arriva anche a proporre strutturalmente l’assenza di regia come momento di scrittura, come nei lunghi momenti «vuoti» del non parlato Ragazzo tutto fare (1960), che si illuminano di senso solo dopo una gag fulminea, o del Ciarlatano (1967), che restano addirittura tali, volutamente, come la sequenza del kabuki. Oggi, Woody Allen tenta disperatamente di ripetere l’operazione Lewis, dall’«alto» di una più fertile fantasia verbale, di una più sicura «cultura» letteraria, ma precipita in «basso» perché non sa trovare né il difficile equilibrio del momento Lewis-Tashlin, né la libertà epica dei Marx Brothers o del primo Lewis (in ogni caso lì conseguendo i risultati migliori: Prendi i soldi e scappa, Il dittatore dello Stato Libero di Bananas), né la capacità di ricreare un universo autonomo di scrittura come Buster Keaton, Chaplin, il Lewis auteur. L’ultimo Amore e guerra mostra spietatamente questi limiti: ricco di momenti divertenti, bizzarro e snob nella formazione intellettuale di clichés tolstoiani e dostoevskiani, il film è soffocato dalla necessità di una storia, dalla volontà di fare spettacolo «plausibile»: il momento migliore è così quando l’attore Woody Allen si ferma, si «strania», monologa guardando direttamente nella macchina da presa, fisso, per qualche minuto, svergognando la funzione del Woody Allen regista.

Con il sonoro si rompe la parabola del genere comico anche in un altro senso, creando una seconda opposizione caratteristica: il genere comico esalta il meccanismo espressivo del cinema, lo «specifico filmico» (come si usava dire un tempo) e insieme lo tradisce spudoratamente. Meno ambigua certamente della prima opposizione, questa seconda coppia di opposti è decifrabile «storicamente»: nel cinema muto il film comico americano aveva messo a punto un infallibile sistema dinamico, basato sulla mobilità e il trucco fantastico, la gag e l’iperbole visiva, che influì enormemente ovunque, e che venne subito interpretato ed esaltato come la quintessenza del «cinematografo», colto nel suo «americanismo» aggressivo, nell’esibizione del meccanismo stesso del linguaggio filmico. Con il sonoro l’immissione del trucco verbale, della canzoncina, del balletto, tende a umiliare lo «specifico filmico», e il ritmo cinematografico si perde per adeguarsi ai tempi della rivista o della farsa, come venne subito rimproverato al nuovo mezzo. Sicuramente Ridolini e anche Harold Lloyd servono il medium, mentre per W. C. Fields o Totò è il medium che serve l’attore, ma in verità i moduli dello slapstick muto, della torta in faccia, della dinamicità violenta ritornarono quasi immediatamente, fondendosi, non sempre adeguatamente, nel nuovo linguaggio del comico «non d’autore», sicché ancor oggi si assiste all’accostamento di diversi momenti espressivi, talvolta con forzati salti strutturali. Certamente, anche qui, la frase esiste, l’anomalia del «comico» persiste.

C’è infine una terza e ancor più singolare coppia di opposti: il comico è il genere più persistente/il comico è un genere che ha bisogno del supporto di altri generi. Il cinema comico rinasce di continuo, come l’impulso a un riso aperto, «meccanico», ma insieme questo cinema ha singolari caratteristiche, diciamo, di «metagenere», ricorrendo alla mimesi parodistica degli altri codici espressivi. La storia di Hollywood è piena di western comici, di finti gialli buffoneschi, di farse in costume: è la inesauribile tradizione della parola del film «serio» di successo, che può limitarsi a uno sfottò isolato, ma può diventare un modo per appropriarsi, nel campo incerto e «anomalo» del film comico, delle strutture e delle figure di un altro genere. I grandi «autori» del cinema comico se ne appropriano al punto di produrre opere biformi: Come vinsi la guerra, cioè The General, di Buster Keaton è anche un meraviglioso western.

Basta confrontarlo con Mezzogiorno e mezzo di fuoco di Mel Brooks per accorgersene: quest’ultimo tenta la strada della mimesi, ma senza percorrerla fino in fondo, anche se coglie momenti penetranti e giusti, come la fatidica posa ricorrente dei cowboys intorno al fuoco, «corretta» da una sinfonia di rutti e flatulenze inaudite; quindi, senza ripensare correttamente al codice del western, finisce per rifugiarsi nella tradizione troppo episodica e particolare del film comico alla Hellzapoppin (esaltazione del meccanismo assurdo, e dell’«assenza» di regia «ordinatrice»), ma troppo tardi con la confusione babelica degli studios e l’irruzione del musical nel western. Mel Brooks, si sa, è la «rivelazione comica» delle ultime stagiomi, e sembra compiere un’operazione analoga a certe altre coscientissime di registi come Altman o Bogdanovich o Polanski, con le loro nostalgie superflue o vitali. In Brooks sembra proprio di cogliere una componente «filologica», per cui nei suoi momenti migliori si ritrovano, coscienti, certe caratteristiche costanti e, s’è visto, certe «rotture» tipiche del genere comico. Ecco allora il ricorso ad attori comici formidabili lasciati liberi, volgari o intellettuali, di «creare» quasi spontaneamente: Madeline Kahn, Zero Mostel, Marty Feldman e soprattutto Gene Wilder, che ora si è cimentato anche in proprio con una regìa curiosamente a metà fra Allen e Brooks. Ecco il disordine e l’incertezza di una scrittura volutamente «a singhiozzo», addirittura «assente», non però nel senso del vuoto pneumatico alla Woody Allen, ma nel senso della sua casualità più caotica. Ecco infine, e più importante, la componente del «metagenere», portato in epoca ipercosciente e revivalistica, a livelli abbastanza articolati e precisi.

Nel film migliore e più noto di Mel Brooks, Frankenstein junior, i riferimenti ai clichés del genere horror sono molto corretti e puntualissimi, fin dall’inizio con cripta, bara, rintocchi di mezzanotte, bianco e nero specialissimo e inconfondibile (il lavoro dell’operatore è magnifico). Senza aver visto e rivisto i film sul dottor Frankenstein degli anni ’30 e ’40 non si può comprendere del tutto il senso dell’operazione di Brooks (quando il mostro è con una bambina al pozzo e la piccola domanda: «E adesso cosa ci buttiamo?», il mostro getta uno sguardo d’intesa alla macchina da presa, cioè allo spettatore, che come la «creatura» ha visto il vecchio film di Whale… e se non l’ha visto non capisce il senso della scena, che finisce lì). E la scena bellissima dell’esibizione di tip tap del mostro con il suo creatore è un piccolo capolavoro di contaminazione dei generi, che corregge splendidamente le ingenuità goliardiche di Mezzogiorno e mezzo di fuoco. Ma nel complesso Mel Brooks dà l’impressione di non aver saputo misurarsi con un autentico metafilm comico del terrore, e l’impressione si accresce se si confronta il suo film con i numerosi esemplari precedenti di farse «horror» o di rifacimenti in chiave comica di storie di vampiri, di dottor Jekyll o Frankenstein. Il film di Brooks è forse superiore a certi remoti modelli cui in fondo assomiglia, come le variazioni sul tema con Gianni e Pinotto e la coppia Jerry Lewis-Dean Martin (Morti di paura); mostra però la corda non solo se confrontato al «classico» del secondo Jerry Lewis Le folli notti del dottor Jerryl, uno dei migliori fra i rari film d’autore del genere comico, o al mirabile rifacimento ironico del codice del genere in Per favore… non mordermi sul collo! di Roman Polanski, ma anche a due recenti divertimenti di Paul Morissey (e Andy Warhol), girati in Italia (Il mostro è in tavola… barone Frankenstein e Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete!!!), canzonature oltraggiosamente kitsch, leggibili comunque a un primo livello orrorifico. Mel Brooks invece ha inzeppato l’opera di gag estranee, distraendosi, perdendo in finezza per inseguire occasioni grossolane di divertimento. Del resto non ha neppure scatenato del tutto il suo temperamento sanguigno e simpaticamente «volgare», sicché Frankenstein junior dà la strana impressione di essere troppo calcolato e freddo, ma anche, subito dopo, di lasciare troppo liberi gli estri del momento. Tuttavia è un’opera preziosa per rivelare le anomalie e le «fratture» interne di un genere, che pare davvero essere il più difficile da elaborare coscientemente proprio per l’inafferrabilità delle sue regole.

Quel che pare certo è che oggi si sente il bisogno di far rientrare dalla finestra la figura del regista-autore, per governare una barca ancora valida ma che ha percorso troppe rotte casuali seppure gloriose.

(Testo apparso su «D’Ars», 80, luglio 1976 (corredato da foto di scena); poi in Gli occhi del sogno. Scritti sul cinema, a cura di Lorenzo Pellizzari, Roma, Biblioteca di Bianco & Nero, 2000)