Come un moderno Caronte, Maria, al soldo di una mezzana eroinomane per cui la libertà è “un campo vuoto, senza niente”, traghetta sul fiume le anime dannate, i corpi espropriati delle schiave di oggi, le africane prostituite e ingravidate per venderne, poi, i neonati. Il fiume, ringraziato nei titoli di coda come in un rituale animistico, è il Volturno, che la fotografia emozionante di Ferran Paredes, accanto a Edoardo De Angelis fin da Mozzarella Stories (anzi da prima, dai corti giovanili), trasforma ora in una colata di pece, ora in un nastro di metallo lavorato a sbalzo. Maria è il prodotto di un sottoproletariato abietto. È dura e inflessibile, Maria, finché interviene un fatto inaspettato: la scoperta di essere incinta. Ed è allora che la giovane comprende di doversi affrancare da quanto la circonda (e stritola).

Come nel precedente Indivisibili, De Angelis percorre l’itinerario coscienziale di una ragazza (stavolta, una soltanto) che cerca di sottrarsi alla sorte che altri hanno decretato per lei, di riscattarsi da una condizione mortificante e respingere il malefico influsso di persone che rivestono d’oltracotanza il loro fisiologico asservimento (chi alla droga, chi alla stupidità, chi a una visione fatalistica e aberrante del mondo). Premiato dal pubblico all’ultima Festa del Cinema di Roma e, per la regia e la migliore attrice protagonista, al Festival di Tokyo, Il vizio della speranza è un film nobile nelle intenzioni e potente nell’estetica, uno spaccato d’Italia che abrade lo sguardo e pugnala le viscere. Tra stamberghe scalcinate, immigrati irregolari, derelitti, sozzura, criminalità, sembra quasi di rileggere Victor Hugo. O rivedere certe pellicole del cosiddetto neorealismo nero, come Tombolo, paradiso nero di Giorgio Ferroni o Senza pietà di Alberto Lattuada, che esploravano il degrado e il malcostume occultato alla periferia del Paese. Opere di cui il cineasta campano non espande tanto la componente poliziesca, quanto l’intrinseca natura melodrammatica, sia nell’accumulo di passioni turgide ed estreme, sia, etimologicamente, nel mèlos. Sì, perché la musica (struggente) di Enzo Avitabile non si risparmia, anzi deborda e si elegge a narratrice, anche per l’intuizione del compositore di procedere per Leitmotive wagneriani (nel concetto, ovviamente, non nella sostanza melodica).

La macchina da presa aderisce ai personaggi e ne scruta i volti in frequenti close-up che paiono scavare, nella pelle, i solchi del dolore, ma anche attendere, in paziente appostamento, l’irradiarsi di un sorriso clandestino, la fioritura effimera di una labile serenità. E bisogna riconoscere che, forte di una gamma emotiva che contempla sgomento e sollievo, smarrimento e fierezza, Pina Turco presta a Maria una faccia encomiabile e rende un’interpretazione giustamente applaudita, più ricca e sfaccettata, a dire il vero, del lavoro eseguito sia da Marina Confalone che da Cristina Donadio, tendenti entrambe al monocorde.

Tessute le lodi, si enunciano i difetti. Non è grave, a conti fatti, ma dispiace che un film di così densa bellezza sia compromesso, non lo si può nascondere, da alcune pecche da cui la sceneggiatura, firmata da De Angelis e Umberto Contarello, avrebbe potuto guardarsi. La logica, qua e là, si appanna e, a partire dal pre-finale, scricchiola sonoramente, per cedere a soluzioni e sviluppi non molto plausibili. Anche la speranza, purtroppo, esige credibilità.