Con il suo ultimo film, il colombiano Ciro Guerra ritorna ad affrontare l’impresa coloniale e i sempiterni dilemmi morali che ruotano intorno ad essa: le questioni relative ai soprusi e alle trasformazioni etno-antropologiche dei popoli sono del resto da sempre vicine al sentire del regista, come testimoniano le sue opere precedenti, specialmente Oro verde – C’era una volta in Colombia, che nel 2018 lo imponeva in via definitiva all’attenzione internazionale. A differenza di quella occasione però, Guerra sceglie di allontanarsi da un rapporto diretto con la Storia, coniando una narrazione atemporale e de-realizzata: presentato in concorso a Venezia nel 2019, Waiting for the Barbarians si colloca in una quinta dimensione, in cui la memoria storica di diversi secoli si concentra in un singolo istante sulla linea del tempo, raccontando una dinamica che, di fatto, non possiede né era né luogo.

Nell’avamposto sul fronte orientale di un impero non meglio identificato, la vita idilliaca di una piccola comunità sotto la guida di un pacato e ragionevole burocrate, detto il Magistrato, è sconvolta dall’arrivo del colonnello Joll che, delirante di potere e convinto che gli autoctoni della zona stiano progettando un imminente attacco, distruggerà tutti gli equilibri creatisi tra abitanti e nativi nel corso degli anni. All’interno di questa fantasia convivono architetture influenzate dalla dominazione spagnola, divise militari di stampo inglese, volti mediterranei e asiatici, lingue caucasiche e grammatiche sconosciute. Nel Paese immaginario, disegnato comunque in maniera realistica, i valori, le problematiche sociali e i principi della convivenza assumono un significato dalla portata universale ed universalmente comprensibile.

Escluso il puntuale progredire delle stagioni che scandisce l’arco narrativo in capitoli, il tempo in cui queste dinamiche comunitarie sono calate appare dunque relativo. A sottolinearne la relatività, la controversa attesa dei barbari che lo stesso titolo anticipa, e a sua volta la domanda che ne problematizza la prospettiva: chi sono i veri selvaggi? In una delle prime conversazioni tra Joll ed il Magistrato, quest’ultimo racconta come gli indigeni siano convinti che loro, i bianchi, siano presenze passeggere: che scorrerà un altro anno certo, forse due, ma che prima o poi partiranno per una nuova destinazione. D’altro canto, nell’epilogo della pellicola e dopo le torture inflitte da Joll e dal suo sottoposto Mandel ai nomadi, questi sfrecciano un colpo silente, rimandando al forte uno dei soldati con la testa scalpata: un possibile, fatale ma non definitivo, guanto di sfida. Il film suggerisce di fatto quest’ulteriore quesito: quando, e per volontà di chi, inizia effettivamente il punto di rottura che la vicenda sottende? La minaccia è scorsa sotto i nostri occhi, o bisognerà attendere ulteriori stagioni e temperature diverse per assistere allo scontro? Proprio questa ciclicità enfatizza l’urgenza morale di indagare su chi perpetri la violenza, tanto nel film quanto negli echi che l’opera esprime intorno alla storia della costruzione della civiltà occidentale.

Eccezion fatta per la violenza barbara nell’atto finale, non è difficile tuttavia scegliere per chi parteggiare: i personaggi di Joll e Mandel, interpretati da Johnny Depp e Robert Pattinson, sono segnati da un’ombrosità ferina non particolarmente soggetta a sfumature. I loro sono gesti brutali perpetrati fuori dai limiti del beneficio del dubbio, sostenuti dalla certezza apodittica, da parte dei rappresentanti dell’impero, della propria correttezza. L’unico personaggio ambivalente è il protagonista, il Magistrato; senza nome, cosicché qualsiasi spettatore possa aderirvi con la propria identità, è la bandiera della compostezza contro ogni oppressione ed oppressore. Eppure, nonostante la sua indiscutibile volontà di uomo votato al bene, la relazione che intraprende con una ragazza nativa rivela il suo involontario ma inconfutabile ruolo: quello di colonizzatore. Ama, ma perché prova una pena paternalistica mal ricambiata dalla donna, che si sente infelice; aiuta, perché anch’egli è sicuro che le sue gesta siano le uniche degne di valore.

La regia di Guerra e la fotografia di Chris Menges lasciano grande autonomia agli eventi atmosferici e ai campi aperti. I paesaggi sono gli effettivi contenitori delle storie delle genti e del loro divenire; non a caso l’opera si chiude con una carrellata verso lo spazio, immenso ed ignoto, del deserto. Un deserto che, nonostante il film sia l’adattamento del libro omonimo di J. M. Coetzee, non può che ricordare quello dei Tartari del nostro Buzzati: un altro racconto d’attese.