In Occidente rivolte come quella iraniana sembrano spesso infuriare dal nulla. Le immagini da Teheran delle donne che bruciano i loro veli e si tagliano i capelli di fronte alle milizie del regime diventano presto simboli di rivendicazioni senza passato, icone mercificabili a uso e consumo di istituzioni compiacenti, anime belle e cattive solidarietà. Eppure, le proteste scoppiate dallo scorso 16 settembre in seguito all’uccisione da parte della polizia morale della ventiduenne Jina Mahsa Amini, rea di non aver indossato l’hijab in maniera “consona”, non sono una novità per l’Iran. Dal 1979, anno della rivoluzione che trasformò il paese da una monarchia a una repubblica islamica sotto il dominio dell’Ayatollah Khomeini e della legge coranica, simili moti di lotta e ribellione hanno costantemente attraversato la nazione, venendo quasi sempre repressi nel sangue. Gli eventi odierni sono culmine e prosecuzione di una storia complessa, fatta di speranze illuse, sotterranei interessi politici e morti, tanti morti, in nome di una libertà ancora di là da venire. Sulla piattaforma streaming di Another Gaze Journal, rivista femminista online dal 2016, è disponibile fino al 4 gennaio una rassegna di film realizzati da registe iraniane che ben restituiscono le sfumature di un conflitto profondo, nonché le contraddizioni e le crisi di un paese in cui la rivolta e l’oppressione sono permanenti, il movimento per i diritti civili è tra i più avanzati al mondo e nel quale fare cinema è spesso uno straordinario atto di coraggio, come attestano gli oltre cento filmmakers arrestati dall’inizio delle proteste. Films from Iran for Iran, questo il nome della rassegna gratuita grazie alla quale è possibile donare per sostenere organizzazioni LGBTQ+ e città assediate nel Kurdistan iraniano e nella provincia del Belucistan, tramite corti sperimentali, documentari e video saggi esplora dall’interno la specificità delle battaglie iraniane, ripudiando lo sguardo paternalista dell’Occidente e delineando un coacervo di sensibilità in grado di illuminare il passato, raccontare il presente e interrogare il futuro di un popolo in marcia.

Iranian Women’s Liberation Movement: Year Zero oltre ad aprire la rassegna è anche l’unico film a non essere stato girato da iraniane ma da un collettivo femminista francese. Questo documento del marzo 1979 testimonia i cortei di protesta che affollarono la capitale all’indomani della decisione di Khomeini di rendere obbligatorio l’uso del chador. Migliaia di donne, allora come oggi, uscirono in strada a esprimere il loro dissenso cantando parole di furore e libertà. Davanti agli occhi delle registe francesi, attonite nel vedere una partecipazione di massa tanto eterogenea, organizzata e impavida, si stava consumando il primo doloroso disincanto nei confronti degli ideali che pochi mesi prima avevano portato Khomeini al potere. Dalle rivendicazioni delle intervistate di quel marzo sarebbero emersi due principi fondamentali che avrebbero orientato le traiettorie dei tumulti iraniani fino ai nostri giorni: il primo afferma che non esiste vera rivoluzione sociale senza una compiuta liberazione femminile, il secondo ricorda come il rifiuto dell’obbligatorietà di indossare il velo sia al contempo e soprattutto rifiuto di una più generale condizione di subalternità e asservimento della donna rispetto all’uomo, secondo un discorso anticipatore che già all’epoca univa istanze private legate all’autodeterminazione dei corpi a diritti sociali come l’equità e il libero accesso al mondo dell’istruzione e del lavoro. 

Trent’anni dopo, nel giugno del 2009, la regista Bani Khoshnoudi filma in The Silent Majority Speaks le manifestazioni del cosiddetto “movimento verde” contro l’allora Presidente Mahmud Ahmadinejad, alla vigilia delle elezioni che poi lo avrebbero riconfermato, tra mille polemiche ed evidenze di brogli. Oltre a raccontare in prima linea la sete di cambiamento di una popolazione vessata da decenni di oscurantismo ma ancora desiderosa di unirsi in moltitudini, questo film guerriglia racconta l’euforia di un momento in cui un nuovo orizzonte sembrava finalmente sul punto di sorgere, per poi essere stroncato ancora una volta dalla violenza del potere e dai proiettili dell’esercito. Riflettendo sul valore delle immagini d’archivio, comprese quelle reperibili online, nel fondare una memoria collettiva e una coscienza condivisa, The Silent Majority Speaks è un attuale esempio di cosa comporti fare un film dissidente in Iran, a quali pericoli si vada incontro e quali limiti si debbano fissare per proteggere se stessi e le persone che si intende riprendere.

Degli stratagemmi e degli obblighi con cui il cinema iraniano si trova a confrontarsi per evitare la censura parla anche Irani Bag (2021) di Maryam Tafakory, video saggio lirico e teorico che analizza quanto un semplice oggetto come una borsa, in una cinematografia nella quale è mal visto qualsiasi contatto fisico tra le persone, possa diventare un insospettabile fulcro narrativo e un veicolo di emozioni come la rabbia, l’amore, il desiderio sessuale. Secondo quali filtri viene rappresentata l’intimità nell’Iran post-rivoluzionaria è una domanda estetica e politica che il lavoro di Tafakory scruta con acutezza, costringendo lo spettatore a riconsiderare la relazione tra tatto e vista, i rimossi nascosti dietro alle immagini e l’attrito che in esse si innesca tra l’ubbidienza alla norma e il fremere del sentimento. «In Iran una borsa non è mai solo una borsa», sostiene Irani Bag, che è un po’ come raccomandare di riconoscere con occhi nuovi, pronti alla meraviglia, gli attimi di verità che il cinema, anche quando sottomesso, può all’improvviso regalare se trova il modo di resistere alla paura. 

Considerando che la grande maggioranza delle autrici protagoniste della rassegna vive e lavora lontano dall’Iran, non è un caso se uno dei temi più volte affioranti in questi film sia quello dell’esilio e del ritorno, del nostalgico abbandono di una terra d’origine amata e vilipesa, distante nello spazio ma non per questo meno intimamente desiderata. In A Week with Azar (2018) di Tara Najd Ahmadi questa lontananza fisica ed emotiva assume ripercussioni concrete. Il breve documentario racconta infatti la storia di Azar, un’ingegnera informatica iraniana ma residente negli Stati Uniti, e il suo dramma di non aver potuto rivedere la sorella prima che morisse per via del travel ban imposto da Trump nell’inverno del 2017 nei confronti di sette nazioni, tra cui l’Iran. «Cosa si può dire della rabbia causata dall’ingiustizia?», si chiede l’opera, associando immagini come versi di un diario poetico, catartici segni di disprezzo per le sopraffazioni razziste di politici ottusi. Vendicando la forzata immobilità di Azar, il film che ne indaga il lutto trascende invece i confini geo-cinematografici, esplorando simbolicamente quella particolare condizione scissa tra due estraneità – stranieri ovunque e a casa da nessuna parte – che accomuna le persone emigrate dall’Iran in cerca di una vita migliore.

Parla di distacco, disorientamento e del tentativo di riappropriarsi delle proprie radici anche I For Iran (2014) di Sanaz Azari, nel quale la regista torna studente per imparare a leggere e scrivere in persiano, lingua madre mai del tutto afferrata. A insegnarle la grammatica, in un’aula spoglia e luminosa, un maestro paziente, più grande di lei, dagli occhi gentili e dalla voce di chi conosce bene le ferite del suo paese. La lezione privata diviene quindi incontro tra generazioni, dialogo sulle parole e tra le parole, riflessione storica sulla ciclicità dei sommovimenti iraniani e sulla loro disfatta. Grazie a un manuale scolastico degli anni prerivoluzionari Azari si impadronisce dei fonemi, dei punti, della sintassi di una lingua misteriosa, e più ne svela il mistero più si scopre parte di una storia comune, figlia di un’ideologia autoritaria e di una terra in cerca di identità. Come il maestro di Azari cancella più volte le scritte sulla lavagna, ricominciando ogni volta dal nero a costruire una frase, così i nuovi sogni di chi in Iran aspira alla libertà si costruiscono sulle macerie dei sogni precedentemente infranti, in una perdurante battaglia di idee destinata alla vittoria o al suo eterno bruciare. 

A proposito di sogni, lotte da tramandare e tempo che scorre su se stesso, in Dream of Silk (2003) Nahid Rezaei torna tra i banchi del liceo su cui hai studiato vent’anni prima per domandare alle ragazze cosa si aspettano dal futuro, quali sono le loro aspirazioni, quali i desideri e i progetti per raggiungere la felicità. Tra chi vuole pubblicare poesie, chi non ne può più della scuola e chi pensa che l’Iran sia perduto e non possa offrire nulla di buono a una giovane donna, il ritratto che offre il film è quello di una gioventù appassionata e consapevole, senz’altro più moderna e solidale della società in cui vive. Molte di quelle adolescenti velate che all’epoca rispondevano con ironia e intelligenza alle domande di Rezaei oggi saranno per strada, ormai donne, a marciare per i loro diritti e per quelli delle loro figlie, affinché tra vent’anni i sogni di ieri siano conquiste assodate e i sogni di domani alla portata di tutte.  

Nell’impossibilità di rendere conto dei molti spiragli, degli sguardi e dei transiti che permette di sperimentare questa rassegna aliena, irregolare come il giornale che la ospita, film come rial and tERROR (2011) di Gelare Khoshgozaran e Gut Feelings: Fragments of Truth (2021) di Katayoun Jalilipour brillano per la maniera in cui piegano le immagini a narrazioni dissonanti, giocando con le sconfinate possibilità del digitale così da portare alla luce nodi irrisolti e traumi della cultura iraniana. rial and tERROR è un anacronistico video collage che monta in modo rapsodico spot pubblicitari di prodotti statunitensi ai tempi dell’Iran prerivoluzionaria, home movies amatoriali e videoclip pirata di canzoni americane contrabbandati illegalmente nel paese dopo l’ascesa al potere di Khomeini. Affondando il dito nella piaga del travagliato rapporto di influenza, attrazione e odio intercorso negli anni tra Iran e Stati Uniti, Khoshgozaran decostruisce lo sguardo doppiamente colonizzato della sua generazione, prima dalle pesanti lenti della legge islamica e poi, per vie più o meno traverse, dalla fabbrica delle immagini del divertimento statunitense e capitalista.

Gut Feelings: Fragments of Truth è invece una lettera immaginaria, colma di affetto e devozione, che l’autrice rivolge a Taj al-Saltaneh (1884-1936) attivista femminista e membra della dinastia Qajar regnante in Persia dal 1785 al 1925. Un tempo simbolo di bellezza e oggi derisa su internet attraverso meme sessisti e misogini, la parabola della figura di Taj al-Saltaneh consente a Jalilipour di rimarcare la fondamentale necessità di poter accedere online a informazioni veritiere per non cadere vittima della manipolazione di sistemi oppressivi, siano questi mediatici o politici. Inoltre, riscoprire l’attitudine ribelle e lo stile di vita anticonformista di questa vera e propria paladina queer fa traballare non poco le fondamenta patriarcali su cui ancora oggi si regge la società iraniana, insinuando il sovversivo dubbio che la donna a quelle latitudini non sia sempre stata succube, ma anche leader libera di amare senza catene e incidere con la sua condotta sulla vita pubblica del paese.