Nel 2010 John Berger, uno dei più importanti studiosi viventi di cultura visuale, si è sottoposto a un intervento di cataratta. Lo racconta lui stesso in Cataract, piccolo diario di guarigione ricco di una minuziosa descrizione degli stati di luminosità percepiti dall’occhio interdetto. Diario sulla luce quindi, o meglio, sull’incontro con la luce dopo averla dimenticata. Guarire dalla cataratta, mera ostruzione occludente e oscurante, ha permesso infatti a Berger di riacquisire consapevolezza di come “tutto sia circondato dalla luce”: “Così come i pesci vivono e nuotano nell’acqua, noi viviamo e ci muoviamo nella luce. La luce poggia una mano sulla tua spalla. E se non ti volti è solo perché riconosci il suo tocco come un ricordo molto molto lontano. É la prima cosa vista, a cui mai si è dato un nome”. C’è una certa malinconia tra le righe di questo diario, un’idea di vecchiaia. Non è che momentanea però. Ciò che infatti interessa a Berger della guarigione non è tanto la nostalgia (anche se c’è una seduzione proustiana nella sua visione intensificata del bianco, che riporta l’autore alle porcellane materne) o un’ultima redenzione dei sensi (al punto da sentire, in sinestesia, i colori come note musicali), ma una cognizione in fondo politica: il prezzo da pagare per una nuova visibilità, e cioè una nuova consapevolezza del mondo, del suo ordine e disordine, delle sue relazioni, è un doloroso contratto con il buio. Cioè con un momentaneo impedimento della vista. Il buio cieco permette di vedere come stanno le cose, mentre l’abbaglio della luce acceca e basta.

E quindi l’oscurità è una contromisura biologica, sì, ma anche ideologica, cognitiva, esistenziale. Sempre più rara e sempre meno esperita. Quand’è che si può fare esperienza del buio d’altra parte? Uno che aveva capito il valore politico dell’oscurità era Amos Vogel, che pensava al cinema come evento sovversivo non per qualche radicalità politica o preminenza tematica, ma proprio perché permetteva di fare esperienza momentanea del buio: “L’essenza del cinema non è la luce, ma un patto segreto fra luce e oscurità: metà del tempo passato al cinema dalle vittime di quest’arte tecnologica è oscurità totale, nessuna immagine passa sullo schermo, in un solo secondo quarantotto momenti di oscurità si alternano a quarantotto momenti di luce”. Grazie ai neri della pellicola proiettati al cinema, l’occhio vedeva qualcosa di più, vedeva qualcosa davvero, perché lo si vestiva di una cataratta artificiale, che risvegliava lo sguardo con un fascio di tenebra. Ma nella società contemporanea del nuovo millennio pare più difficile trovare gusci d’ombra come quello annidato tra i fotogrammi: il mondo digitale sembra sempre acceso, pienamente visibile ed esposto, e la sua vista annullata tanto quanto più sollecitata. L’accecante luminosità del numerico è testarda e inestricabile, al punto da essere inutile e reazionario tentare di opporsi ad essa pensandosi al di fuori, al riparo in uno spazio inesistente, fuori tempo massimo.

La partita si gioca piuttosto all’interno del territorio nemico, lavorando dentro, tra le sue linee, tra i suoi spazi, tra i suoi codici. Trasformare lo 0 che interrompe ogni 1 del tessuto binario nella crepa oscura tra i fotogrammi, usare il “falso” della logica matematica come uno strumento per dire la verità, rivendicare la luminosità del buio o l’umbratile fragilità della luce mentre cresce la militarizzazione del senso: questa l’unica sovversione linguistica e percettiva nell’audiovisivo contemporaneo. In Italia lo ha capito forse solo Fabrizio Ferraro. Wanted, il suo ultimo film (ignorato alla Festa del cinema di Roma da una critica dolosa in cerca del tema e del contenuto) ne è la commovente dimostrazione. Perché come può non essere commovente la storia dell’incarcerazione e dello sfruttamento della luce da parte del digitale? Per Ferraro – che chiude il progetto Un-Wanted, pensato fuori dall’industria, per aprire dentro Cinecittà (il centro di detenzione del film) un nuovo ciclo Wanted – la riflessione sul proprio cambio di passo produttivo è il punto di partenza per rappresentare il controllo dispotico esercitato dal numerico sulla realtà. Non è difficile riconoscere nelle ambigue figure dei funzionari carcerari al centro del film i manipolatori delle immagini, e nella donna protagonista vestita di bianco, trattenuta e torturata, la luce del reale, inviata sotto copertura negli antri opachi della parola e del codice.

L’oscurità che circonda e interroga questa luce è una falsa oscurità, che abbaglia con la sua opacità e il suo grigiore. I carcerieri cercano di manipolare le immagini della luce, la controllano dalle videocamere di sorveglianza, la formattano attraverso gli strumenti del cinema, nelle stanze dotate di precisi dispositivi di postproduzione. Allo stesso modo l’atteggiamento della luce, che si finge senza luminosità, sommessa e senza parola, dubbiosa e contrita, annuncia una silenziosa forma di contestazione. “In caso di fallimento del programma attenersi scrupolosamente alle seguenti direttive: mantenere sempre la calma, assumere un atteggiamento collaborativo, dovrai sembrare sotto shock” illustra la donna a capo della ribellione che conta sulla luce per avere informazioni dall’interno del sistema. Allora ecco che la differenza sostanziale tra i due  simili e sovrapposti grigiori presto si trasforma in una dialettica redentiva, che cambia di segno la sottomissione al sistema e la rivendica come strategia di libertà, ottenuta di straforo: la luce si è ammutolita e mascherata da buio per interdire un’ultima volta o forse per la prima volta dopo molto tempo la piena visibilità, cortocircuitare il linguaggio, portare il discorso a un punto morto.

“La parola rende liberi” dice un funzionario, per poi iniziare a tossire, rattrappendosi nell’impossibilità di capire, mentre il silenzio dell’immagine pura, vestita di soprabito bianco, annoda la lingua alla parola, costringe il cattivo infinito digitale a spiegarsi sempre di più, a esaurirsi, e infine a desiderare di essere altro (come per l’inquisitrice che veste i panni dell’accusata di fronte a un camerino e poi fugge dal presidio in una crisi d’identità). Ferraro lascia che le immagini del suo film corrispondano alle immagini manipolate dai controllori, fa coincidere le proprie inquadrature con quelle dei sistemi coercitivi fino a sfumare completamente la differenza tra le prime e le seconde e così penetrare lentamente nella logica manipolatoria, rivoltandola dall’interno, mostrando la grana del digitale dopo averne assunto il punto di vista, denunciando la rigida struttura dietro alla tridimensionalità “naturale” del flusso numerico. Il suo gesto isomorfista – Benjamin l’avrebbe chiamata la cinematica “strategia del vaccino” (riprodurre in piccola scala il grande shock dell’alienazione e così curare il simile con il simile) – ribalta l’ideologia del contemporaneo con semplicità marziale. E infatti non si conclude in boato, ma in un lento zoom su fermo immagine, dolce movimento virtuale che genera una doppia rotazione. Quella dello sguardo, che assume i connotati del dispositivo di controllo ma invece di confermarsi suo inconsapevole complice riconosce in questa passata complicità il primo segno di cambiamento. E quella della cultura, in un certo senso, se si considera il volto ribelle che guarda fisso in camera al centro dell’immagine come un ideale controcampo teorico alla Betty di Gerhard Richter. Perché se quel quadro, che portava la pittura al massimo punto di precisione fotografica solo per frustrarla e interdirla (negandoci il volto), cercava nell’ironia postmoderna una sospensione al crollo del senso, ecco che ora l’immagine digitale, degradata di definizione e sfumata fino a un pittoricità seicentesca barocca (Guercino per intenderci però, non Caravaggio), annuncia invece una nuova strada d’azione. 

Quale? Il film sembra annunciarlo un po’ prima in realtà, quando la donna in bianco è trascinata via dalle guardie tra i palazzi, e si innalza il Funeral Canticle di John Tavener (che sussurra con i suoi versi sulla memoria eterna: “Ogni cosa non è che flebile ombra”). È allora che diventa evidente quanto questo cinema, vero cantico funebre esalato nel “cimitero del genere” che accetta di adombrare le forme in nome di una nuova visibilità e cerca il frammento di oscurità negli 0 del tessuto digitale per scagliarlo nell’occhio – come una cataratta che non è fine della visione ma “preludio della conoscenza” –, trovi nella debolezza la sua vittoria. È proprio allora che appare chiaro quanto questa debolezza, pronta ad accettare il peso della possibile dispersione dell’immagine sotto al dominio dei nuovi poteri, pronta coraggiosamente a farsi smentire piuttosto che a proteggersi con l’ironia, possa essere un principio di manifesto. La guida per una lotta percettiva che non sembra interessare a nessuno – presi come siamo nelle nostre posture festivaliere, nei nostri giochi interpretativi, nelle nostre continue politiche inebetite – e riguarda invece l’urgenza del vivere.

Chiudere gli occhi per vedere meglio, in tempi in cui la luce dice bugie, può essere un atto rivoluzionario.