Trenque Lauquen di Laura Citarella, fin dalla sua genesi, si inserisce all’interno di una genealogia aperta, ramificatasi in seno alla casa di produzione argentina El Pampero Cine, di cui fanno parte, oltre alla regista, di solito nelle vesti di produttrice, Mariano Llinás (La Flor, Historias Extraordinarias), Alejo Moguillansky (al montaggio) e Agustìn Mendilaharzu (direttore della fotografia). Il film appartiene a un progetto più ampio, cominciato nel 2011 con Ostende, che ruota attorno all’idea di un gruppo di opere in cui lo stesso personaggio vive vite diverse in diverse città della provincia di Buenos Aires. Un personaggio, Laura, interpretato immancabilmente da Laura Paredes, che nella saga dovrebbe richiamare la figura di uno Sherlock Holmes al femminile, smarrita in una città sconosciuta e desiderosa di avventure. Trenque Lauquen si pone da subito come opera aperta, polisenso, interminabile, un film che comunica con altri film, dove i personaggi si trasferiscono da un mondo all’altro, e da un mondo all’altro cambiano identità e origine.

Nella sua ambivalenza, il film si articola, nella durata fluviale di quattro ore e mezza, a partire da un mistero: due uomini, Rafael ed Ezequiel, cercano lungo le strade e le praterie de La Pampa una ragazza amata da entrambi – Laura, per l’appunto – giovane biologa in procinto di ottenere una cattedra universitaria e arrivata nella cittadina di Trenque Lauquen, a ovest di Buenos Aires, con il compito di classificare, raccogliere e studiare piante e fiori della zona. Il film si divide in due parti, a loro volta suddivise in dodici capitoli, che, come da tradizione “familiare” dei film targati Pampero Cine, si spostano liberamente lungo generi cinematografici diversi e intrecciano i punti di vista (di maschi, e sempre sbagliati) dei personaggi in scena in una scrittura complessa e stratificata. La fuga diventa il propulsore di una serie di storie che hanno nel segreto da risolvere, nel mistero da disvelare (come in una argentina Twin Peaks) il loro centro nascosto: l’avventura di due uomini che con passo «lento e triste» seguono le tracce impossibili della donna amata; il segreto di una coppia, Carmen Zuna e Paolo Bertino, emerso dall’indagine filologica compiuta da Laura ed Ezequiel sulla loro corrispondenza erotica; e nella seconda parte, il mistero che avvolge Trenque Lauquen e la sua laguna circolare, dove un giorno viene trovato un essere alieno, tra l’umano e il caimano, custodito nella casa di una coppia di donne; infine, il mistero di una terra, La Pampa, che brulica di spettri e fantasmi, presenze e assenze.

Laura Citarella popola l’universo di Trenque Lauquen di donne: detective, scienziate (come nella rubrica radiofonica che tiene Laura), donne isolate, incinta, in fuga. Donne che detengono un nucleo di verità nell’intrecciarsi di prospettive e ipotesi che suggeriscono al film e allo spettatore (maschio, in questo caso) direzioni da prendere: scontate e sbagliate. Trenque Lauquen e i suoi personaggi femminili non si lasciano direzionare: sono i loro desideri che creano lo spazio del racconto e reciprocamente vengono influenzate dagli ambienti e dalle circostanze che incontrano. La regista costruisce una narrazione borgesiana, analettica, dove i piani temporali sono compresenti: per questo il discorso che si genera assomiglia a una cartografia, a una mappa (oggetto che ritorna più volte nel film) che delinea i destini possibili dei personaggi all’interno di un universo caotico-casuale, tanto che lo sguardo dello spettatore non ha mai una visione d’insieme, ma sempre relativa e relativizzante. Del resto, la struttura “a scatola cinese” indica esplicitamente l’avvicendarsi dei punti di vista (i nomi dei capitoli parlano chiaro: “La parte di Ezequiel”, “La parte di Rafael”). Solo l’ultimo capitolo, “La parte di Laura”, coincide con la verità del racconto, che ha bisogno di uno spazio visivo alternativo, di un diverso aspect ratio per esprimersi. Laura non scompare per paura, come pensa il suo fidanzato Rafael; non scompare per ricercare la verità dietro l’epistolario di Carmen Zuna, come crede Ezequiel. Per la sua fuga non si può fare niente di niente. Succede per forza del racconto, per vigore d’affabulazione.

Come una favola postmoderna, Tranque Lauquen inverte il paradigma di mimesi consolidato: se solitamente la parola rispecchia il mondo, qui il mondo rispecchia la parola. Oppure: il cinema invade il reale, lo fagocita, ne cambia il segno. I nomi dei personaggi si sovrappongono ai nomi degli attori reali, come il destino di Laura sembra combaciare col destino, tutto letterario e scritto, del suo doppio su lettera; allo stesso tempo il corpo dell’attrice, come già in La Flor, è una tavola su cui incidere, foglio bianco su cui il mondo fenomenico e cinematografico scrivono i loro caratteri. L’immagine è al servizio della sceneggiatura, del suo srotolarsi in avanti e indietro, senza però abbandonare mai l’ignoto del fuoricampo, il potere disvelante della panoramica capace di trasfigurare, come nel finale, la realtà, per lasciare chi guarda in bilico tra fantasmagoria e verità. L’asciuttezza di stile e la verbosità del film servono a scoprire i punti invisibili di un’immagine in verità viva, profonda, enigmatica, come le musiche di Gabriel Chwojnik lasciano intuire. Trenque Lauquen preferisce la ripetizione di luoghi, suoni e figure, in un rito di trasfigurazione e scomparsa: una costruzione in cemento si confonde con una navicella ufo; le praterie de La Pampa danno vita a fantasmi; la ricerca filologica non risale ad alcun archetipo; Laura, motivo della quête, insiste a far(ci) credere nella sua consistenza, alle sue camminate nei campi, ma il gesto cinematografico – dell’altra Laura – ne mette in dubbio l’esistenza: Laura è cinema, lettera, essere alieno, o realtà?