Filmidee propone una conversazione aperta sul nuovo film di Jonathan Glazer, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 76esimo Festival di Cannes: un’opera epocale e avanzata, che si confronta con il problema etico della rappresentazione per mettere in scena il ricordo dello sterminio e l’eternità della violenza. Dialogano Davide Palella e Leonardo Strano.

L: Compare il titolo. Lettere bianche. Poi lo schermo va a nero per alcuni minuti. Non si vede nulla, non c’è nessuna immagine. Mentre dal buio emerge lentamente il suono, che sembra riprodurre la natura, con cinguettii e gorgoglii acquatici, nel tempo dilatato dell’attesa lo sguardo si fa gesto, si fa presa di posizione. Quando l’immagine finalmente compare è abbagliante: uomini e donne in riva al fiume, sono in costume. Non è un’immagine d’epoca, ammantata di afflato storico, è al contrario un’immagine netta e definita, nitida e oggettiva. È documentaria, filmata di nascosto in tempo reale con telecamere controllate a distanza, ma mostra Rudolf Höss, il direttore del campo di concentramento di Auschwitz, fare un bagno con la sua famiglia e i suoi amici. Insomma, sospesa tra un passato ricostruito come un plastico in scala 1:1 (dopo anni di ricerche sul campo in Polonia) e un presente rimesso in scena in piena trasparenza (come in un re-enactment storico) l’immagine di The Zone of Interest sembra un’astrazione, il paradigma di uno sguardo, di un sentire, di un modo di vedere il mondo. È il punto di vista degli Höss, nazisti che vivono e ridono a bordo dello sterminio, si raccontano la favola dello spazio vitale e si pensano nobili, ma in realtà è l’immagine tipo di qualsiasi echo chamber cognitiva, la camera d’eco che amplifica le credenze e le ripete: una visione superficiale, piatta e senza ombre, in cui tutto risplende con chiarezza limpida sempre uguale a se stessa, in un rimbombo alienante che prende le forme di un recinto cavo, una prigione con mura di cemento in cui tutto è all’aria aperta ma senza ossigeno. Sbattendo questa immagine contro allo sguardo preparato dallo schermo nero, Glazer sembra chiedere di confrontare le due visioni: da un lato c’è l’assenza di definizione, l’annullamento della visione, l’impossibilità di dire qualcosa, e dall’altro c’è la massima definizione possibile, la visione totale, la possibilità che tutto sia in mostra.  Il regista, da trent’anni un teorico dell’audiovisivo, ci ricorda che lo sterminio ebraico è l’evento che permette di comprendere l’immagine come oggetto culturale: se esiste qualcosa di irrappresentabile, l’immagine è, in fondo, sempre e solo una prigione? 

D: Che l’immagine sia una prigione non è la prima volta che ce lo dice, Glazer. Tutto Under the Skin verteva già su questa costrizione fisica, epidermica, che è il visibile. E non è nemmeno l’unico a dircelo, anzi, negli ultimi decenni sono sempre di più i grandi registi che ammettono un limite invalicabile dello sguardo, limite che si scioglie talvolta solo grazie all’altra componente fondante del cinema, il suono. Il suono, a differenza del rappresentato, è in qualche modo intangibile, sfugge alla condanna dell’immagine e la scarcera. Se ne potrebbe parlare all’infinito delle soluzioni sonore di The Zone of Interest, tanto nel bene quanto nel male. Troppo spesso si parla solo e soltanto di pornografia nelle arti visive, ma cosa succede invece quando ci si interroga sulla componente uditoria del pornografico? Già Il figlio di Saul poneva al centro della sua forma il suono come punto di fuga quando costringeva lo spettatore all’ascolto delle insostenibili urla di dolore provenienti dalle camere gas. E nonostante il film tenti di dialettizzare sé stesso in tutti i modi – qui l’invito a parlare assieme della scena al pianoforte – mi sembra che, aimè, questo cavillo etico si ripresenti, seppur assai più morigerato. Sì, perché più volte Glazer ci obbliga all’ascolto di qualcosa di indicibile, di irrappresentabile qualunque forma assuma. Riprodurre significa, in buona sostanza, produrre di nuovo. E come si fa a voler ricreare qualcosa che non avrebbe mai dovuto esistere in primo luogo? Come si può pensare di re-inscenare a tavolino quelle grida, quella sofferenza? Chissà cosa ne penserebbe André Bazin… 

L: L’uso del suono è proprio uno dei modi con cui Glazer dimostra che l’immagine del cinema non è il deterministico recinto chiuso che corrisponde alla visione degli Höss o chi per essi. Non è un caso che proprio nell’incipit a schermo nero in cui si attesta l’impossibilità di mettere in scena lo sterminio, la prima informazione sia sonora e non visiva: è come se il suono fosse un precipitato di verità che esiste oltre l’immagine (anche quando non si vede) ma che si manifesta comunque nel cinema. Perché, nella visione espansa con cui Glazer ragiona, il cinema è quel medium che raccoglie più tipi di immagine: incorporandole, confrontandole, mettendole in movimento dialettico. Nel confronto tra il suono invisibile, impalpabile e inafferrabile, e l’immagine dell’eco determinista, si apre una prospettiva etica che è più di un alibi, è un assunto morale: siccome qualcosa minaccia la memoria dell’orrore, siccome forse l’orrore sta continuando a esistere attraverso nuove forme e nuove strutture formali, la lotta contro questo stesso orrore deve essere combattuta proprio sul piano delle forme. Glazer lo fa capire nel finale del suo film, dove rappresenta (con stesse marche formali delle immagini della quotidianità nazista) i campi di concentramento nel nuovo millennio, ormai diventati musei attraversati da addetti delle pulizie. Lo sterminio si è fatto immagine ripulita, netta, definita, messa sotto provetta dietro a enormi teche di vetro trasparente; l’orrore è di nuovo immagine, lo stesso show, lo stesso spettacolo a cui si prende parte in alienata visita (e pensa bene chi pensa ad Austerlitz). Contro questa deriva dell’immagine come supporto di controllo, come dispositivo di cristallizzazione, bisogna lottare, e in particolare bisogna lottare attraverso il cinema, fidandosi della sua capacità di ribaltare in surplus dialettico la tensione sadica che tutte le forme di rappresentazione in qualche modo condividono. Perché il cinema non si fa manipolare e non si appiattisce su un’idea di immagine, anzi, sopporta tutti quei segni indebiti, tutte quelle immagini in circolo là fuori, tutti quei modi di pensare il mondo, e fa economia politica di questi segni. E cioè li inquadra, li fa dialogare, e ne mostra la credibilità, la sostenibilità, la prospettiva culturale. Nessun altro medium può sopportare questo peso. Ecco perché Glazer non rinuncia a più forme espressive, anzi le accalca, rischiando la pornografia del dolore attraverso il suono, localizzando lì la realtà di uno sterminio che non si vede, triangolando poi il suono senza figurazione (a sfondo nero, bianco e rosso) e l’immagine di un bias cognitivo che quel suono non lo può sentire con una terza forma ancora diversa, quella del bianco e nero termico. 

D: Quindi il fine giustifica i mezzi? Mi viene da pensare che forse, dico, forse, la questione nazista è proprio quel tema che pur di essere risolto necessita giocoforza di un paradosso logico. La violenza può essere fermata solo con altrettanta violenza? È indubbio che per Glazer ci sia un continuo conflitto delle simmetrie tra fuori e dentro Auschwitz. E la bisettrice di tale simmetria altro non è che il muro che divide la magione degli Hoss dal campo di concentramento. Non solo, più volte durante il film assistiamo a delle recisioni visive che lasciano a malapena intravedere un’immagine che Glazer stesso si proibisce dal rappresentare in piena luce. Penso ai prigionieri tra le fronde o ancora alla fiamma dei forni crematori che divampa con così tanta intensità da rilucere sin dentro la casa nazista, da illuminare i corpi dei vari membri della famiglia Höss. In tal senso l’immagine termica della ragazzina che porta mele e pere all’interno del campo di prigionia diventa salvifica. La fotografia del film è composta esclusivamente di luce naturale o diegetica e gli unici momenti in cui i corpi degli attori sono illuminati da una fonte luminosa che non sia il Sole sono proprio quelli in cui lo sterminio crematorio viene compiuto. Al contrario la camera termica permette lo sprigionarsi della luce interna dei corpi e del calore che essi emanano. I corpi degli    Höss e dell’ambiente domestico sono glaciali, privi di un calore proprio e l’unica temperatura che emanano è indessicale rispetto al fuoco della Shoah. Il tutto assume una valenza biblica, rimarcata in primis dai tratti edenici del giardino nazista. Ma Glazer sembra volerci dire che quel giardino, così plastico e geometrico, non è altro che una menzogna. Non c’è mai nulla fuori posto, mai nulla che spezzi l’ordine costituito, ordine che le domestiche degli Höss cercano di mantenere attraverso una pulizia degli ambienti ossessiva e repentina. La stessa metodica pulizia che, come dicevi tu, sono chiamati oggi a svolgere quotidianamente gli inservienti del museo. Ci sono però, disseminati lungo il film, alcuni elementi che intendono una tensione sottocutanea, soffocata, una nevrosi pronta a implodere anche per le più piccole cose, come il pianto di un bambino o il latrato persistente del cane di famiglia. 

L: Di certo il fine del cinema giustifica l’uso di mezzi che non sono i suoi. Nel senso che il medium non ha paura a farsi violenza e mostrarsi incoerente, incompiuto e contradditorio, lasciandosi attraversare da immagini che per storia e definizione non gli appartengono pur di riscriverle e riorientarne la direzione di senso. Le immagini plastiche e geometriche che riprendono la quotidianità degli Höss non sono strettamente cinematografiche, filmate come sono da telecamere che rinunciano alla sintassi più convenzionale (non c’è un primo piano in questo film) per registrare e sorvegliare il vivere degli ambienti privati. Ma neanche i monocromi non figurativi di puro colore su cui si sciolgono i pixel brillanti dell’immagine digitale sono cinema, visto che rimandano a una realtà audiovisiva più installativa. Eppure nella logica argomentativa di Glazer tutte queste modalità di visione, ognuna con il suo preciso percorso mediale, convergono nel film e così trovano un nuovo ruolo, una nuova ragione d’essere. Il film le localizza, le raccoglie, ma non per sè o per il suo regista, bensì per lo sguardo, quello stesso sguardo interpellato dal profondo nero in apertura. Perché è nello sguardo, nel nostro e di tutti, che si gioca la partita: è lì che si compie il crimine della metodica pulizia di cui parli, passata e presente, ed è sempre lì che questo crimine può essere sovvertito. In questo senso entra in gioco la camera termica (altra configurazione estranea al cinema), con cui Glazer mostra una ragazza percorrere di notte i campi di lavoro per nascondere nella terra dei frutti per i prigionieri. L’immagine in bianco e nero del gesto sovversivo è contraria a quella a colori che rappresenta il punto di vista degli Höss, e infatti è mostrata in contrapposizione alle favole della buona notte che Rudolf racconta alle sue figlie. Poi però una scena decisiva dice qualcosa di più: la ragazza torna di soppiatto a casa propria e quando entra nell’androne, sfuggendo all’odore del fumo che proviene dai camini di Auschwitz, l’immagine termica in bianco e nero torna di colpo a colori e pulita. La vediamo mentre si siede al piano e suona una musica. Le sue sembrano semplici note ma una voce over ci avverte: i suoni appartengono a uno spartito ritrovato nei campi e portano la firma di Joseph Wulf, storico ebreo sopravvissuto ad Auschwitz. A ogni suono corrisponde una parola yiddish e il brano è una poesia, di cui il film riporta i versi: nella prigione del campo si resiste e si sopporta, attendendo una libertà che, come i raggi del sole, non si può spegnere. Quella che sembra un’innocua melodia è un grido di rivolta nel castello nemico: sappiamo che in controluce dentro a quell’immagine ce n’è un’altra senza colori, un’immagine non vista, scaldata dalla sofferenza e dal riscatto, che lotta per esistere malgrado tutto. Nella visione della ragazza al pianoforte le tre forme audiovisive del film si sintetizzano, virtualmente sovrapposte e il cinema si configura non come la sublimazione spettacolare di un’immagine qualsiasi, ma come la capacità dello sguardo di sentire e riconoscere un messaggio di libertà criptato e nascosto dentro a una prigione fatta di immagini invalicabili. Cinema come luce che evade di soppiatto dal bunker della realtà. Frutto nascosto da qualcuno nel buio della terra per il futuro. 

Ma rimane una domanda: quanto può piegarsi questo cinema, quanto può rischiare l’annullamento, quanto può farsi notte prima che lo sguardo che cerca di accendere si spenga senza una seconda possibilità?

D: La storia, tra le innumerevoli lezioni che ha impartito, ci ha insegnato due cose: non esiste nessun evento talmente catastrofico da poter arrestare la vita dell’umanità (perlomeno, finora) e la violenza è senza dubbio la più efficace macchina del tempo. Se pensiamo a una costante invariata nella storia dell’uomo, quella è la violenza. Quando, terminata la riunione che vede i comandanti dei vari campi di sterminio pianificare l’Aktion Höß, Rudolf Höss scende le scale dell’edificio e trattiene a fatica alcuni conati di vomito. La mente va subito a The Act of Killing e al genocida indonesiano Anwar Congo che, nei momenti finali del film, sembra accusare la stessa sorte del criminale di guerra tedesco. Sembra esserci, in quei conati di vomito, qualcosa di ineludibile, qualcosa che somatizza l’insostenibile portata degli eventi che hanno attraversato i due carnefici di cui a loro volta, ben volentieri, si sono resi tramite. È come se l’intero significato dell’Olocausto, sempre che di significato si possa parlare, trovasse sfogo in un significante fisico, iscrivendosi nella carne e nelle viscere di chi ha perpetrato tali atrocità. Quando penso all’effetto che ha il linguaggio sul nostro corpo mi viene sempre in mente un breve racconto di Kafka intitolato “Nella colonia penale”. È il racconto dell’esecuzione di un soldato, applicata utilizzando un macchinario che, attraverso una serie di aghi, incide sul corpo prono del condannato il motivo della pena. Le lettere di queste scritte sono “adornate” da un’infinità di ghirigori e decorazioni, tanto da risultare illeggibili, per coprire meglio il corpo del condannato e dare più tempo di lavoro alla macchina. Mi pare che in questo sadico meccanismo descritto da Kafka si racchiuda tutta la complessità espressiva che Glazer sprigiona grazie a quel conato di vomito. Ma ciò che rende The Zone of Interest un fondamentale tassello in più per comprendere meglio la mastodontica indecifrabilità dell’Olocausto, è quell’interconnessione temporale tra passato e presente che permette a Höss di vedere aldilà del tempo, di vedere il nostro, di tempo. Prima parlavo di viscere e allora mi viene in mente un altro carnefice che, lo si voglia o meno, ha fatto la storia: Jack lo squartatore. Nel capolavoro a fumetti di Alan Moore, From Hell, c’è un passaggio mozzafiato che vede Jack dissezionare il corpo nudo di una donna sdraiata a letto. Più affila la lama nel nero inchiostro della carne, più le coordinate spazio-temporali del mondo che circonda l’assassino si infrangono, anzi, si compattano così tanto da far precipitare lo squartatore tra i grattacieli della moderna Londra. In un capitolo successivo lo si vedrà addirittura trasfigurarsi in dipinti e opere d’arte appartenenti a luoghi ed epoche distantissimi gli uni dalle altre. Di nuovo, la violenza sembra essere la più efficace macchina del tempo che l’uomo abbia mai creato. 

“Perhaps this is the purpose of all art, all writing, on the murders, fiction and non-fiction: simply to participate.” – Alan Moore, From Hell