Dopo un anno di innegabile ripresa delle sale, il ritorno dei grandi autori al cinema e i pronostici sulla programmazione dei principali festival internazionali permettono di tracciare una panoramica ricca ed esaustiva di quanto aspettarci dal 2024.

L’anno appena cominciato segna infatti la ricomparsa di due cineasti, attesi e da sempre discussi, alle prese con opere che, con ogni probabilità, chiuderanno le loro carriere dietro la macchina da presa: parliamo anzitutto di Quentin Tarantino e del suo The Movie Critic, storia di un critico irriverente nella California degli anni ’70 che recensisce film mainstream per una rivista porno; ma potremmo (il condizionale è d’obbligo) finalmente vedere anche il progetto pluridecennale di Francis Ford Coppola, Megalopolis, a tredici anni da Twixt, e a trentatré dalla sua ultima produzione milionaria, Dracula di Bram Stoker.

Tra gli altri, in arrivo anche il nuovo film di Bong Joon-ho, Mickey 17, con Robert Pattinson; Oh, Canada, ultimo lavoro del prolifico Paul Schrader, con Richard Gere, a quarantaquattro anni da American Gigolò; l’adattamento di Nosferatu nelle mani di Robert Eggers; The Entertainment System Is Down, del due volte vincitore della Palma d’oro Ruben Östlund; la saga western in due capitoli Horizon, diretta da Kevin Costner, di nuovo alla regia dopo ventuno anni, forte del successo della serie Yellowstone; Queer di Luca Guadagnino (protagonista l’ex James Bond Daniel Craig) di cui dobbiamo ancora vedere Challengers con Zendaya, cancellato all’ultimo dallo scorso Festival di Venezia; il biopic su Maria Callas, Maria, diretto dall’ormai specializzato nel genere Pablo Larraín; The Island di Paweł Pawlikowski, con la coppia Joaquin Phoenix e Rooney Mara; The End, progetto di finzione del regista di The Act of Killing e The Look of Silence, Joshua Oppenheimer; l’adattamento del celebre romanzo di Mary Shelley, Frankenstein, diretto da Guillermo Del Toro; il nuovo film di Oliver Assayas, Suspended Time, che torna a lavorare con Vincent Macaigne in un racconto che prende le sue mosse dalla pandemia del 2020. E, tra gli italiani, sono in corso di realizzazione il nuovo documentario di Gianfranco Rosi, in fase di riprese a Napoli e dintorni, e l’omaggio di Pietro Marcello a Eleonora Duse.

Una breve rassegna che ci fa piacere proseguire, in maniera più approfondita, segnalando alcuni film da noi molto attesi, pronti o in via di completamento, anticipando informazioni sulla loro lavorazione e scommettendo su almeno un paio di sorprese.

GRAND TOUR di Miguel Gomes

Con un importante progetto da girare in Brasile rimandato per anni (e forse destinato a non vedere la luce ancora per un po’) e una pandemia che ha rallentato il ritorno alla finzione del regista portoghese, il 2024 vede uno dei più importanti autori contemporanei alle prese con un film che – per chi ha già avuto modo di vedere qualcosa – lo restituisce in forma smagliante. Prendendo spunto da una traccia narrativa di Somerset Maugham, il racconto comincia nel 1917 da Rangoon, in Birmania, dove un funzionario dell’impero britannico abbandona la fidanzata il giorno in cui lei lo raggiunge per le nozze. In un viaggio durante il quale il panico lascia il posto alla malinconia, l’uomo contempla il vuoto della propria esistenza mentre la donna, divertita dalla sua fuga, ne segue le sue tracce lungo vari paesi orientali. Girato in bianco e nero, in digitale e pellicola, Grand Tour riprende la bipartizione del magnifico Tabu (corredata da un prologo, proprio come nel film del 2012) e nonostante l’impianto melodrammatico prevede un diffuso tono ironico. Produzione Portogallo/Italia/Francia, in distribuzione per Match Factory, punta a Cannes.

AFTERNOON OF SOLITUDE di Albert Serra

Mentre si prepara a girare Out of This World – si vocifera, con Kristen Stewart tra i protagonisti – Albert Serra ha portato a conclusione il documentario sul mondo della corrida che vedrà la luce in uno dei principali festival del 2024 (vedi foto di copertina). Un film che si prevede molto cruento: “La corrida è uno degli esempi più eccessivi delle origini primitive della civiltà dell’Europa meridionale,” – ha detto il regista – “possiede una sorta di spettacolarità al limite dell’arte, e mi piace questa idea. Come mi piacciono la sua violenza e la pressione che esercita. Il film parla del dolore spirituale del torero” – ha aggiunto – “e sono più concentrato su questo aspetto che sul dibattito sociale legato alla pratica”. In che modo il regista catalano piegherà al proprio approccio la dimensione documentaria è senz’altro uno dei temi di maggior curiosità: “Mi interessa riuscire a manipolare, in senso buono, i sentimenti che si intensificano nel breve lasso di tempo in cui le cose accadono. Per me è qui che la fantasia e la finzione possono evolvere in qualcosa di diverso, perché voglio portare il soggetto verso qualcosa di molto ruvido, selvaggio e reale. Si tratta di una performance, dopotutto”.

BIRD di Andrea Arnold

A 8 anni di distanza da American Honey e dopo il documentario Cow (2021), c’è grande attesa per il nuovo film della regista inglese, anche se sono pochissime le informazioni a disposizione. Come di consueto affiancata dal fidato direttore della fotografia Robbie Ryan, Arnold ha messo insieme un cast composto da Barry Keoghan (reduce dal successo di Saltburn e all’epoca deciso a rinunciare a una parte nel Gladiatore 2 di Ridley Scott pur di lavorare a questo film) e Franz Rogowski, insieme all’esordiente Nykiya Lynn Adams. Sarà ancora una volta un racconto di gioventù intensa e passionale (le uniche immagini dal set in circolazione sono quelle di un tatuatissimo Keoghan). Girato nel Kent sul finire dell’estate scorsa, il film è alle ultime fasi di montaggio e verrà sottoposto allo scrutinio del Festival di Cannes.

THE DAMNED di Roberto Minervini

1862. Nel mezzo della Guerra Civile, l’esercito invia un’unità di volontari a perlustrare e proteggere le inesplorate terre di confine dell’Ovest americano. Un evento improvviso e inaspettato costringe il gruppo a rivalutare la propria strategia e a cercare di dare un senso alla propria condizione. “Un film di attesa e paura”: così il regista marchigiano di stanza negli USA riassume lo spirito del sua prima incursione nel territorio della finzione – anche se, inevitabilmente, alla sua maniera. Girato in Montana, The Damned è un film che vede Minervini confrontarsi con un cinema di guerra che trova “da sempre violento, reazionario, egemonico, al servizio di uno status quo del potere che propaga idee velenose di eroismo, martirio, di causa giusta che considero molto pericolose”. La storia di un gruppo di uomini intrappolati nella guerra per mettere in luce la dimensione umana di un gruppo di persone perse in un territorio ostile che non appartiene loro, e in cui la stasi della convivialità occupa la quasi totalità del tempo trascorso insieme dai soldati. Produzione Italia/Belgio/Stati Uniti, previsto per la seconda metà dell’anno.

MEKTOUB: CANTO DUE di Abdellatif Kechiche

Come dimenticare la folgorante proiezione di Mektoub: Canto uno a Venezia 2017? E come, per altri versi, quella di Mektoub: Intermezzo a Cannes due anni più tardi – un capitolo intermedio che aveva lasciato non poche perplessità (compresa un’infuocata scena di sesso nel bagno della discoteca) e che non ha mai visto la luce in sala? E che tipo di chiusa offrirà il Canto due ora in fase di completamento al montaggio? Quello che si sa è che ritroveremo Amin dove l’evevamo lasciato al termine del primo episodio: l’estate volge al termine e dopo la ronda amorosa del primo film ora il giovane protagonista ha finalmente incontrato in Charlotte la persona giusta per lui e ne è innamorato. Anche la sua carriera di sceneggiatore sembra essere a una svolta: conosce un produttore disposto a farlo entrare nel mondo del cinema. La moglie del produttore però sembra essere particolarmente interessata a lui e ciò metterà Amin di fronte a un bivio: restare con la donna che ama oppure dare una svolta alla propria vita professionale. Sullo sfondo ancora la presenza di Ophelie, che occupa un posto speciale nel cuore del giovane e resta il fulcro di un intreccio di desideri difficile da sciogliere (è incinta del cugino latin lover di Amin, Toni, e il suo compagno militare sta per fare ritorno). Sarà un film decisamente più cupo di quello che l’ha preceduto e con un finale che vira al dramma. Aspettiamo con ansia di vederlo a Cannes o a Venezia.

DRY LEAF di Alexandre Koberidze

È il regista di uno dei film che abbiamo più amato negli ultimi anni, What Do We See When We Look at the Sky? (2021), e nutriamo grande attesa per il suo nuovo lungometraggio, a cui fa da sfondo una della sue grandi passioni: il calcio. Alla scomparsa di una giovane fotografa, il padre si mette sulle sue tracce sapendo che era al lavoro su un progetto per una rivista sportiva, impegnata in un reportage sui campi di calcio nei villaggi della Georgia. Nonostante la ragazza abbia lasciato una lettera in cui chiede esplicitamente di non voler essere rintracciata, l’uomo chiede aiuto a un amico e collega della giovane, che partirà con lui. Sua peculiarità: essere invisibile. Stando alle indicazioni del regista, la prima parte del film segue una sceneggiatura mentre ciò che segue è in parte lasciato all’imponderabilità degli avvenimenti. Chi nell’infanzia o durante l’adolescenza ha vissuto il piacere di inseguire un pallone in campetti scalcagnati di paese sa di cosa si parla: “Non c’è villaggio in Georgia che non abbia un campo da calcio,” – ci racconta il regista – “e questi campi, per lo più pianeggianti e aperti, o a volte delimitati, differiscono da luogo a luogo. A volte si tratta di un campo ben curato e bello, altre volte l’erba corre selvaggia con cancelli bianchi posti su entrambi i lati del campo. A volte c’è solo un terreno brullo sul quale sembra impossibile far rotolare un pallone. Ho deciso di utilizzare questi luoghi nel mio film come percorso del viaggio dei protagonisti”. Un viaggio che sarà anche il malinconico attraversamento di una Georgia scomparsa, in cui a partire dagli anni ‘90 l’inurbamento ha svuotato molti villaggi oggi abbandonati, così come i loro campi di calcio. Il film è alle ultime fasi di montaggio, pronto per Cannes e i festival a seguire.

BOGANCLOCH di Ben Rivers

Forse il titolo non rimarrà questo, perché il regista sta dando gli ultimi ritocchi al montaggio. Quello che si sa per certo è che si tratta di un “sequel” di Two Years at Sea del 2011, affascinante studio sulla solitudine e sulla vita ai margini della civiltà dell’eremita Jake, isolato per scelta nel mezzo della foresta di Clashindarroch in Scozia da quasi mezzo secolo. “Abbiamo continuato a frequentarci e nel tempo abbiamo pensato spesso di dare un seguito al film precedente”, ha detto Rivers parlando del nuovo lungometraggio girato come di consueto in pellicola ma che stavolta prevede la presenza di alcuni brani musicali e di interventi a colori sul bianco e nero dominante. Nel frattempo, sul finire del 2023, Rivers ha girato un altro film a Minorca, Mare’s Nest, protagonista un gruppo di giovanissimi in un mondo in cui “non ci sono più adulti, solo bambini anarchici che mettono in scena spettacoli d’avanguardia”. Sarà il suo Il signore delle mosche?

THE BALCONETTES di Noemie Merlant

Girato l’estate scorsa in una bollente Marsiglia, la commedia horror dell’attrice/regista potrebbe essere una delle sorprese dell’anno. Scritto a quattro mani con Céline Sciamma, negli intenti dell’autrice è un film “al femminile” che guarda alla violenza e alla vittimizzazione per riflettere sulla sofferenza delle donne ma anche sulla maniera in cui “usiamo il nostro umorismo come arma”. La regista ha aggiunto: “Volevo spingere il concetto di fondo all’estremo e osservare ciò che provoca, introducendo elementi di genere, fantasy e gore. Ho scoperto il cinema grazie ai film horror asiatici che io e mia sorella guardavamo durante l’adolescenza e che mi hanno influenzato molto”. Chi l’ha visto parla di “audace e inequivocabile incursione nel genere” per un film divertente e liberatorio, con affondi nella farsa e con una vitale dichiarazione femminista al centro. Prevedibilmente a Cannes.

BESTIARI, ERBARI, LAPIDARI di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti

Dopo gli exploit di Spira Mirabilis (in concorso al Festival di Venezia nel 2016) e Guerra e pace (Venezia Orizzonti 2021) arriva il nuovo film-compendio firmato dal duo di lucidi e rigorosi documentaristi, in una forma tripartita che congiunge istanze, luoghi e forme: il Bestiario è un found-footage intorno alla rappresentazione cinematografica del mondo animale; l’Erbario un documentario d’osservazione dentro l’Orto Botanico di Padova; il Lapidario un film industriale ed emotivo sulla trasformazione della pietra in memoria collettiva. Un’opera saggistica che tocca registri stilistici e codici narrativi diversi, dunque, non semplicemente alla ricerca del reale ma di ciò che in esso si annida. “Il film è sempre stato unico, già a partire dal soggetto,” –  dicono D’Anolfi e Parenti – “ma con l’idea che, a differenza di Spira Mirabilis, fosse una sorta di enciclopedia in tre volumi, o meglio tre movimenti, raccontando un percorso di ammissione di responsabilità da parte degli esseri umani verso la natura, quindi le procedure di manutenzione e cura della natura stessa e infine un processo di riscoperta e di trasmissione di valori comuni fondamentali. Durante la lavorazione le riprese si sono intrecciate ma le fasi di montaggio sono distinte, rifiniture a parte. Arrivando in dirittura d’arrivo ci siamo resi conto che i tre capitoli si reggono anche da soli e in tv, eventualmente, potranno essere anche episodi autonomi, ma la vita cinematografica del film è concepita come unica”.

ALL WE IMAGINE AS LIGHT di Payal Kapadia

Concludiamo con una delle scoperte più interessanti degli ultimi anni: la regista indiana vincitrice a Cannes nel 2021 per il miglior documentario con A Night of Knowing Nothing sta ultimando il montaggio del suo All We Imagine As Light. Il film ha per protagoniste due infermiere di età diverse e con poco ad accomunarle oltre l’essere coinquiline, finché un viaggio in macchina verso il mare apre a entrambe la possibilità di sperimentare una vita che non hanno mai avuto. “Quando si parla di amore in India, è impossibile non parlare di religione, poiché le due dimensioni sono fonte di conflitto” – ha detto la regista, precisando che “l’induismo è profondamente legato al sistema delle caste, una segregazione sistematica che deriva da un razzismo profondamente radicato nel Paese. Purtroppo, il mantenimento dei privilegi di casta dipende direttamente dal controllo delle donne: se una donna si sposa al di sotto della sua casta (o di un’altra religione) lei e la sua famiglia vengono immediatamente ostracizzate. I genitori insistono sui matrimoni ‘combinati’ in modo da mantenere l’ordine di casta e se i giovani osano sfidarli anche loro vengono ostracizzati fino ad andare, in situazioni estreme, a conseguenze fatali con i ‘delitti d’onore’. Inoltre, nell’attuale situazione politica dell’India, il partito al potere è un partito nazionalista indù iper-mascolinizzato. I loro sostenitori sono propagatori di questi valori patriarcali che infantilizzano ulteriormente le donne. Quindi, per me, l’atto di queste due donne emarginate, alla ricerca della loro sessualità, diventa un atto personale di sfida politica”.