È all’inizio del ventesimo secolo che al suo esordio nel lungometraggio Felipe Gálvez torna per raccontare, anzitutto, una terra. La prima ora di Los colonos, nella quale il capitano britannico MacLennan, il meticcio cileno Segundo e il cowboy statunitense Bill attraversano la Terra del Fuoco per delimitare e proteggere i territori dell’imprenditore José Menéndez dalla popolazione autoctona dei Selk’nam, si nutre dell’immaginario proprio della wilderness e della frontiera del western classico. Tra il Cile e l’Argentina, i cui confini sono tracciati dall’esploratore Francisco Moreno (che immortala il suo lavoro di delineazione dei confini con l’immagine fotografica, ed è interpretato significativamente da Mariano Llinás…), i tre si troveranno di fronte a una wasteland da conquistare, da battere a cavallo, e sulla loro strada incontreranno un’umanità varia, più o meno antagonista. E, ovviamente, l’unica legge è quella dell’uomo «civilizzato» che lotta contro il «selvaggio».
Ma è attraverso uno sguardo irrisolto, forse acerbo, che Gálvez da una parte sublima il genere cinematografico di riferimento, perlomeno nei motivi visuali e mitologici dominanti, e dall’altra finisce per degradarlo, parodiando le sue figure (quelle bianche, cioè il capitano e il cowboy) al vilipendio dello spettatore contemporaneo. Non ne ridiscute totalmente i simboli, come faceva il western «revisionista» degli anni Settanta o anche, in epoca più recente, The Sisters Brothers di Jacques Audiard, in cui la sconfessione della mascolinità era vagliata dall’ipotesi di una società diversa, utopica (e anche Los colonos si apre con una citazione di Thomas Moore); eppure, allo stesso tempo, Gálvez vuole ridicolizzare i suoi personaggi, mettere alla berlina la loro autorità ed esporla all’inutilità delle loro azioni, in una funzione anti-spettacolarizzante, che sembra però funzionare solo in parte.
Se a fungere da sostrato simbolico del film di Gálvez nella prima ora è questo impacciato scontro uomo/natura – dove la natura sono tanto i territori da difendere, quanto i selvaggi da sterminare – arriva poi un’ellissi a mutarne l’immaginario, a rovesciare i suoi opposti visuali e di senso in ulteriori (ma non meno distanti) opposizioni irrisolvibili. In una dissolvenza incrociata, dall’esterno all’interno, dal campo lunghissimo al primo piano, il film accende una seconda spia relazionale: quella uomo/politica. Dalla lotta contro la wilderness (gli esterni) si passa alla dialettica della parola (gli interni), nelle sale da piano o da tè o negli uffici dove decidere – a tavolino – l’immagine di quello scontro, ormai passato; dove misurare, o mercanteggiare, la responsabilità dei fatti dell’uomo «civilizzato»; dove stimolare artificialmente una (im)possibile memoria condivisa. Nel western c’è la nazionalizzazione dei confini, nel cinema della revisione storica c’è la nazionalizzazione delle coscienze: in entrambi i casi, è chiaro come in ballo ci sia la nascita di una nazione. E la politica è una questione «estetica» (ancor più che etica), come accenna il diplomatico venuto sin dalla capitale per visitare l’«indomable lugar» di proprietà dell’imprenditore Mendez. Così, l’unica testimonianza affidabile su quello che è successo in quelle terre – la testimonianza dei Selk’nam – deve essere omologata dall’immagine in movimento, dalla ripresa di un set preparato, dalla messa in scena di codici cinematografici – del cinema occidentale di inizio secolo, s’intende. Per riprendere le parole di Flavio De Bernardinis su Killers of the Flower Moon – con cui Los colonos ha non poco da spartire, non ultima la scoperta del suo nucleo teorico solo tramite la sequenza finale –, non è quindi solo l’America a concepire la Storia esclusivamente in termini di Spettacolo, ma possiamo pensare lo sia la civiltà occidentale tout court; «e ciò che non fa Spettacolo […] diventa ciò che non è mai accaduto». La Storia si fa profilmico, perché il profilmico è l’unica rappresentazione possibile della Storia.
Ed ecco quindi che nel passaggio traumatico tra il selvaggio e la civilizzazione, tra la wilderness e la politica, Los colonos è la tragedia (umanissima) del linguaggio, del linguaggio minato sin dalle sue fondamenta dalla violenza di cui si fa latore. La tragedia di una lacerazione comunicativa, di un rapporto a tre – noi, il mondo «altro» e come lo vediamo mediante i nostri dispositivi culturali e rappresentazionali – squarciato dal tentativo di sottomettere quel mondo «altro» proprio per mezzo di quei dispositivi: ovvero, per mezzo del linguaggio; ai fucili con cui sterminare il selvaggio si sostituisce la cinepresa, attraverso la quale inscrivere quello stesso selvaggio in una memoria sottomessa. In Los colonos, quando il politico vuole tramutare in immagine occidentale l’indigeno, lo riduce ad attore come un regista sul set del proprio film. E qui sta l’illusione finale di Gálvez: nella mancanza di una reazione – di un movimento – di quell’attore a suo malgrado, nel perimetro performativo del linguaggio che viene imposto, è con il rifiuto di un gesto e di una performance che Los colonos ci fa credere alla possibilità di una rivoluzione muta di chi è stato vinto e oppresso sotto il peso, tecnologico e ideologico, di una falsa pacificazione.