Ora che, dopo anni di semiclandestinità al di fuori dei confini patrii, è finalmente reperibile in dvd con sottotitoli inglesi (per la tedesca Bildstörung, in una sontuosa edizione doppia che comprende anche un making of, il documentario Ivan Z e il corto Leo es Pardo), è possibile cercare di inquadrare meglio il secondo e ultimo lungometraggio di Iván Zulueta (1943-2009) all’interno del cinema fantastico, non solo iberico.
Si potrebbe definirlo, in breve, la cronaca di una sparizione, o meglio di due: quella del regista di horror José Sirgado (uno straordinario Eusebio Poncela) e del suo doppio, il cineamatore Pedro P. (Will More), rubati al mondo e imprigionati per sempre su una pellicola super8. Ma i livelli di lettura sono molteplici: e trascendono il film, per aggredire anche il nostro rapporto con il cinema e le strade che esso ha preso nel frattempo.

Arrebato è, innanzitutto, una reinvenzione del mito del vampiro che si libera in un sol colpo di canini appuntiti, pipistrelli e morsi alla giugulare: a succhiare la vita e l’energia è l’obiettivo di una cinepresa. È nel bene e nel male un figlio del suo tempo: il prodotto di una società spagnola libera dalle pastoie del franchismo e decisa a riprendersi quanto le era stato negato; il frutto più bizzarro di un movimento sociale e artistico, la movida madrileña, che ben presto si cristallizzerà attorno alla figura anch’essa vampiresca di Pedro Almodovar, il quale qui presta la voce a un personaggio (femminile) di contorno e a Zulueta ruberà attori (Poncela e l’esordiente Cecilia Roth) e intuizioni; e un’interessante ma spericolata commistione tra cinema di genere e sperimentale. È una disperata autoanalisi in forma di film, e l’opera-testamento di uno dei talenti più interessanti e autodistruttivi del cinema spagnolo, minato dalla tossicodipendenza al pari dei suoi personaggi. Ed è, infine, una meditazione sul potere del cinema e sulla complessa relazione tra immagini e realtà.

La tossicodipendenza di Sirgado rispecchia la sua dipendenza nei confronti del cinema: lo vediamo iniettarsi eroina, e poi divorare con gli occhi le immagini del rullino in super8 di Pedro, incapace di staccare lo sguardo dallo schermo. La sua addiction rispecchia quella del suo alter ego: Pedro P. è fin dal nome un Peter Pan che rifiuta di crescere, un dodicenne in un corpo da trentenne che passa le giornate a filmare il mondo circostante alla ricerca dei “ritmi occulti” delle cose: le riprese di Pedro realizzate con la tecnica del time lapse, via via più astratte e stupefacenti, mostrano un’altra realtà nascosta sotto la superficie delle cose, che solo il filtro della cinepresa riesce a svelare.
L’eroina e il cinema hanno la medesima qualità dicotomica. Da un lato donano la serenità che José e Pedro cercano disperatamente e aprono loro le porte di una percezione negata ai comuni mortali. Dall’altro, li alienano dal mondo reale, privandoli di ogni energia vitale e spingendoli a desiderarne sempre più. Per loro tramite, Zulueta fotografa la propria discesa nell’abisso. Gli ultimi giorni di Pedro sono una parafrasi della discesa agli inferi di un tossicodipendente terminale: perennemente sospeso in un dormiveglia nebuloso, senza più fame né sete, esce di casa solo per prendere la “dose” successiva, il rullino super8 che gli servirà per avvicinarsi a quell’estasi che sfiora per lo spazio di fotogrammi ma di cui, una volta sveglio, non ha più memoria. Una volta scoperto il suo destino, José ne seguirà le orme fino a identificarsi e diventare un tutt’uno con lui.

La “magnifica ossessione” di José e Pedro conduce a una sorprendente visione metafisica applicata al cinema. L’esperienza mistica che Pedro insegue, l’arrebato, il “rapimento” ascetico associato alla perdita della nozione del tempo e di sé di fronte al puro fluire delle immagini, si trasforma in un “rapimento” fisico analogo a quello dei cristiani nell’Apocalisse. Per Zulueta, l’immagine di un oggetto impresso su pellicola non condivide la medesima realtà ontologica dell’oggetto filmato: e filmare diventa un modo per dare trascendenza a oggetti finiti, elevandoli a un’altra dimensione e rendendoli eterni. Non sarà Dio a salvarci, ma il cinema.
«Non sono io che amo il cinema, è il cinema che ama me» dice Sirgado. Un amore che esige un tributo di sangue, perché Pedro e Sirgado possano soddisfare il loro desiderio: diventare parte della propria ossessione. Diventare immortali come le immagini impresse sul film: «Sine vita vivens, sine morte mortuus». Zulueta (come i suoi alter ego di celluloide) prende alla lettera la massima di Orson Welles: «Living for filming, rather than filming for living», e porta fino alle estreme conseguenze la celebre equazione di Cocteau sul cinema come «morte al lavoro». Alla fine del film Sirgado si lega una benda sugli occhi e si appoggia al muro di una nuda stanza, davanti all’obiettivo della cinepresa, come un condannato davanti al plotone di esecuzione. Sacrifica la propria vita per il cinema, perché solo il cinema è vita.

È un finale sorprendentemente simile all’incipit di Blue Movie di Cavallone, con l’idea della cinepresa come un mitra: il cineasta basco e quello milanese partono da esperienze opposte, ma entrambi si avvicinano a un tema analogo, il cinema come atto ed esperienza estremi e assoluti, dall’una e dall’altra parte della cinepresa. Un percorso che continua anche dopo che il film è finito. Dopo Arrebato, Zulueta – distrutto fisicamente e psicologicamente per l’abuso di eroina – si ritira dal cinema e finisce a fare il cartellonista per Almodóvar; Cavallone abbandona le ambizioni residue e si dà al porno con l’alias Baron Corvo. Un sovrappiù extradiegetico che solidifica l’aura mitica di cui Arrebato ha goduto nel corso degli anni: è un cinema che offre un’illusione romantica di sconfitta, e se ne bea; è autodistruttivo, senza compromessi e anzi con un compiacimento maudit non solo di facciata. É un cinema, insomma, per cui vale ancora la pena coltivare un culto, e che per lo stesso motivo a trent’anni di distanza ci sembra così distante, a denti stretti obsoleto, un come eravamo e non saremo mai più.

Oggigiorno non c’è spazio per un approccio così puro e devoto. L’idea di una mistica applicata alla settima arte è inapplicabile, dopo i fuochi d’artificio del postmoderno: un atto di annullamento e di martirio come quello di Sirgado (e di Zulueta) non è più concepibile, né per il pubblico nè per i cineasti, in parte perchè l’idea ludica del cinema ha preso il sopravvento su quella sacrale, in parte perchè il concetto di “limite” è andato perduto, nella corsa a creare esperienze sempre più estreme e totalizzanti. L’arrebato è ormai altrove, forse nel tempo infinito che intercorre tra un refresh e l’altro di una pagina web.

ARREBATO, regia di Iván Zulueta, Spagna 1979, 105′ (Bildstörung)