C’è chi sceglie un posto in prima fila (perché le immagini arrivano per prime) e chi si apparta in ultima per avere il tempo di pensare e mettere un po’ di distanza tra la forza dell’immagine e la propria ricezione. Ed è proprio da qui, dall’ultima fila, che vale la pena vivere il Festival di Cannes, lasciando in sordina i mille commenti a caldo, i facili entusiasmi, gli eterni tormenti e le apparenti delusioni dei cinéphiles, ma anche – come sostiene il sempre prezioso Serge Daney – acquistando quel briciolo di distacco necessario per evitare paragoni istantanei e inserire in una prospettiva più vasta questa nuova ondata di cinema d’autore.

Se negli ultimi anni le sezioni laterali del Festival si erano dimostrate capaci di fornire le visioni più stimolanti a chi intende seguire le nuove frontiere del cinema, il flusso sembra ormai arrestato: la Quinzaine, dopo la dipartita di Olivier Pére verso Locarno, si è dimostrata sempre più legata a racconti di formazione dalla buona confezione europea (tanto che autori come Vimukthi Jayasundara e Philippe Ramos appaiono come scelte eccentriche, estranee al contesto), mentre la Semaine de la Critique ha offerto una serie di opere fresche, ma senza mai spingersi verso un cinema veramente indipendente. L’impressione è quella di una perdita (grave) di pluralità, che investe in maniera preoccupante il baraccone Cannes, da sempre sostenuto da divi e grandi produzioni ma in cui la ricerca di nuovi autori era rimasta vivace e precorritrice.
Anche all’interno delle sezioni principali si respira un’aria di restaurazione: forse perché il cinema documentario è ormai sparito, ridotto a qualche opera legata all’attualità o al maestro Rithy Pahn (che con Duch, le maitre des forges de l’enfer apre la forma ritratto al dialogo con la Storia in divenire e alla sua rappresentazione), il film-saggio e il cinema in prima persona sembra scomparso (se non fosse per il delirante Arirang di Kim Ki-duk, che spinge il cinema confessionale in meandri inquietanti e instabili) e il cinema sperimentale – che ha trovato un piccolissimo spazio alla Mostra veneziana – è totalmente estraneo alle morse produttive di Cannes.

IL VENTRE DELLA BALENA

Verrebbe da dire che, nell’edizione in cui si restringe la rosa delle forme cinematografiche espresse, un film sa riassumerle tutte con un solo lunghissimo movimento, conservando e rimpastando in un ampio ventre di balena le nuove tendenze del cinema. The Tree of Life di Terrence Malick, Palma d’Oro senza discussioni per la giuria (molte invece quelle sorte nella critica), si presenta con tutta la potenza di una super-produzione hollywoodiana: una pellaccia dura fatta di Brad Pitt e cartellonistica pubblicitaria, strabilianti effetti visivi e messa in scena tracotante, per arrivare a spalancare l’opera di finzione a una nuova forma, capace di conglobare l’essenzialità del cinema astratto e il documentario naturalistico di grande effetto, la precisione degli avvenimenti e la fugacità dell’immagine privata, caricata di senso nel momento in cui incontra la comunione d’esperienza. Il conflitto tra natura e grazia, che spinge un uomo di successo a ritornare sulla morte del fratello e a compiere un viaggio alle radici dell’esistenza sulla Terra e della propria infanzia, offre a Malick la possibilità di recuperare le figure archetipiche di padre e madre, tensioni opposte in cerca di una sintesi nella visione cosmogonica del figlio. Il punto di vista totalmente umano, vero cardine dell’odissea visiva (agli opposti di quella kubrickiana), produce un magma di monadi-ricordo in continuo e plurimo rimando tra loro, che possono stordire lo spettatore, irritandolo per la mancanza di complessità dell’universo malickiano, sostituita da una radicale profondità, che ha qui trovato una semplice ed estatica rappresentazione.

Scorre l’acqua dell’oceano dentro il ventre di balena e dai suoi flussi entrano ed escono film che diversamente hanno segnato il cinema del nuovo millennio e che il ritirato regista texano sembra aver assimilato e rielaborato, portandolo a un nuovo compimento. E potremmo vederli come due pescetti guizzanti, piccoli film unici, che hanno rappresentato la parte più libera e indipendente del Concorso. Da una parte Pater di Alain Cavalier, vero film politico del festival, che rappresenta – nella nuova via del diario filmato inaugurata dieci anni fa dall’ottuagenario regista – le complesse dinamiche tra il Presidente francese e il suo Primo Ministro, qui rappresentati dallo stesso Cavalier e da Vincent Lindon. In gioco c’è la vita in un film che cerca di decostruire i rapporti tra le persone, nascoste dietro al proprio ruolo, portandole su un nuovo terreno di scambio. Dall’altra parte sta Naomi Kawase, la più acuta regista giapponese, che con Hanezu firma un melodramma low-budget in cui riesce a fondere un’antica leggenda sull’amore fra tre montagne alla semplice storia terrena di una donna innamorata di due uomini. Senza mai cadere nel vuoto simbolismo, la regista intesse un’opera segnata dalla trattenuta malinconia, che emerge nelle immagini composte di una natura antica, rotte dall’urgenza di indagare i sentimenti dei tre personaggi, stando a fior di pelle con la delicatezza di chi ha già più volte posato la telecamera sul proprio corpo.

PER UN CINEMA ESEMPLARE

La critica ha favorito quest’anno le fiabe morali che punteggiavano la programmazione del festival: grande favorito era Aki Kaurasmaki che con il nuovo film prodotto in Francia, Le Havre, ha riconfermato la precisione della sua messa in scena per consegnarci un poemetto sull’accoglienza dell’altro. La storia del vecchio calzolaio che aiuta un giovane immigrato a raggiungere sua madre e viene ricompensato da un miracolo, incomprensibile alla scienza, è di una semplicità quasi elementare e di un rigore impeccabile: con toni leggeri (e lasciando fuoricampo il lato oscuro tipico dei racconti per bambini), Kaurismaki unisce temporalmente la sinistra vivace, forte e genuina della Resistenza agli sbarchi clandestini, dando vita a un Paese utopico in cui il delatore è l’unico uomo solo, incapace di interagire nel fraterno quartiere in cui abita.

Più complessa e meno lineare, ma anche più rilevante, è la fiaba raccontata in Il ragazzo con la bicicletta da Luc e Jean-Pierre Dardenne, che al contrario di Kaurismaki e Malick affrontano, con la solita asciuttezza, la complessità della condizione umana nella sua continua spinta tra ideale e contingente. Il piccolo Cyrill, alla ricerca di uno spazio sociale e affettivo nel mondo, affronta un percorso riassunto dai Dardenne in una parabola: il terreno politico cede il passo alla redenzione dettata dalla gratuità dell’amore in grado di renderci liberi. Celebrati con il premio della giuria, ex-aequo con un’altra storia morale (Once Upon a Time in Anatolia del turco Nuri Bilge Ceylan), i due registi belgi continuano a consegnare piccoli poemi di resistenza civile a una società imbarbarita e pronta a celebrare gli psicologismi borghesi di pessimi film come We Need to Talk About Kevin di Lynne Ramsay, selezionato solo per non far mancare al Concorso un film inglese, o di midcult svuotati di domande e infarciti di risposte come La Source des femmes di Radu Mihaileanu, nuovo imbonitore di telespettatori in cerca di facili capolavori.

È TUTTA UNA QUESTIONE D’AUTORE

Solo un fatto si può dare per scontato al Festival di Cannes: chi sale i gradini del Palais è un autore. Tagliando breve sulla validità odierna della politique des auteurs, è evidente che quest’anno Cannes ha commesso un errore – forse soltanto di valutazione, comunque sia sostanziale – che ha reso evidente tutta la fragilità della stampa e ha fatto discutere sul senso del progetto culturale sotteso al festival.
Più volte denunciata da Le Monde come kermesse pensata in funzione delle uscite in sala parigine, la manifestazione è stata attaccata piuttosto esplicitamente dalla testata francese. The Artist di Michel Hazanavicius è il film preso in questione: un divertissement sul cinema muto che è mero simulacro, fantasma di un linguaggio scomparso con il quale non si osa nemmeno più scherzare (a parte una breve sequenza onirica) per limitarsi a una scialba  riproduzione, dimenticando che il linguaggio è innanzitutto una questione culturale. Nonostante l’entusiasmo infondato di una certa critica di cui, va detto, ha partecipato anche gran parte della schiera di quotidianisti italiani, Le Monde è apparso puntuale e feroce: manca un progetto culturale, dichiara il giornale, e nel calderone di film che Cannes offre ogni anno si è ormai confuso il ruolo del fruitore: non più un gruppo di esperti, pronti a dirigere il grande pubblico verso le opere migliori, ma una platea da imbambolare con opere shock o commedie divertenti. Meno acredine ha suscitato Footnote dell’israeliano Joseph Cedar (premiato per la sceneggiatura), sulla rivalità tra un padre e un figlio entrambi eccentrici studiosi del Talmud: nella sua doleceamara prevedibilità e disinvoltura stilistica, trova il consenso di un pubblico e di una critica imborghesiti e desiderosi di rispecchiarsi in un dilemma culturale tutto di facciata. 

Restano più o meno salvi gli autori, ovvero gli affezionati del festival: da Nanni Moretti, che ha portato l’ineguale Habemus Papam, a Pedro Almodovar, passato (o finalmente ritornato?) con La piel che habito a un cinema di genere che sintetizza in maniera inquietante ma divertita il tema dell’identità, passando per Lars Von Trier che, con Melancholia, riprende i dispositivi dei primi film “dogma” per fonderli in un delirio visivo esasperato e ridondante. Autori che tornano con il loro carico di ossessioni e vezzi, più o meno disturbanti ma pur sempre consapevoli.
Alla scia si uniscono nomi più giovani ma già in possesso di una cifra autoriale: Paolo Sorrentino, che con This Must Be the Place firma il suo primo film internazionale e si perde in troppi viaggi di andata e ritorno (tra Irlanda e nuovo mondo, tra società dello spettacolo e campo di concentramento, tra identità e memoria), e il sofisticato Bertrand Bonello di L’Apollonide, un’opera ricca di suggestioni, di potenti immagini che racchiudono – come in uno scrigno – un sesso vissuto quasi fuori dai corpi delle sue giovani e intense prostitute di fine secolo, senza purtroppo essere in grado di trovare un appropriato proseguimento alla prima parte rarefatta e misteriosa.

LA PRIMA VOLTA

Detto questo, Cannes resta pur sempre il festival più ricco, capace di rinnovare il suo parco autori e soprattutto di tenerli sott’occhio, trovando – grazie a una continuità impensabile per altri festival – la maniera adeguata per farli crescere nel suo alveo.
Due gli esordi ammessi quest’anno in Concorso, a cominciare dal deludente Sleeping Beauty di Julia Leigh, australiana prodotta da Jane Campion: un film mortifero e solo vagamente scandaloso, e ancor più vagamente rigoroso nella sua prospettiva rinascimentale che si è rivelata un mero vezzo formalizzante. Più interessante l’opera prima dell’austriaco Markus Schleinzer che con Michael indaga la vita quotidiana di un pedofilo e della sua piccola vittima reclusa nella cantina di casa: nonostante il tema –di ardua affrontabilità – il giovane regista, allievo di Haneke, rivela una certa tendenza alla linearità e alla precisione delle inquadrature definendo quadri che diventano prigioni pronte a manifestare l’ineluttabilità della sorte dei personaggi.

Oltre a Takashi Miike, per la prima volta in Concorso con Ichimei, storia di samurai insolitamente asciutta e calibrata, è stata ammessa e persino premiata (con il Premio della Giuria) la francese Maiwenn con Polisse, discreto film corale sui soprusi ai minori inficiato talvolta da un certo narcisismo, poco adatto al tema prescelto. Sorprende anche il primo film a budget internazionale di Nicolas Winding Refn, vezzeggiato dai festival italiani ma rapito in corsa da Cannes, che ha avuto il coraggio di presentarlo in competizione con la sua opera più compiuta. Il giovane autore danese firma con Drive un film d’azione in controtendenza e un sentito omaggio al post noir di Walter Hill (Driver l’imprendibile) e Michael Mann (Strade violente). Il suo corpo-cinema (incarnato da Ryan Gosling), silenzioso e persistente come l’ombra, è speculare a quello di The Artist, ma instaura con il genere un rapporto dialettico e, nel suo guardare indietro, trascende il presente e prefigura una nuova forma.