Il processo creativo di Jean-Pierre e Luc Dardenne parte sempre da un’immagine forte: in L’Enfant era un padre giovane che trascinava in giro una carrozzina, nell’ultimo film c’è un ragazzino che attraversa le vie del Seraing con la sua bicicletta rossa. Nel cinema solo apparentemente realista dei due fratelli belgi, gli oggetti assumono una connotazione altra, volta a ostacolare o a esaltare la traiettoria dei loro personaggi, diventandone il correlativo oggettivo.

Il ragazzo con la bicicletta è Cyrill, figlio non desiderato, che non riesce ad accettare l’abbandono paterno, il suo esasperato movimento è indirizzato alla ricerca del padre, di una casa, di uno spazio sociale e affettivo. Non si arrenderà neppure di fronte all’accoglienza generosa ma severa di una nuova mamma (la parrucchiera Samantha), fermo nella sua idea e nel suo sincero amore filiare verso un padre assente. Come in ogni fiaba, Cyrill dovrà attraversare un bosco oscuro, popolato da chi ha già compiuto la sua stessa strada ma è stato trascinato verso la sopraffazione, incontrerà il Male e ne sarà travolto, ma comprenderà anche il senso del perdono e gli sarà concessa una resurrezione in un nuovo spazio, dove la primordiale legge della sopravvivenza è sostituita dalla libertà di un gesto d’amore.

Assumendo evidentemente la struttura della fiaba (c’è chi ha voluto parlare di un nuovo Pinocchio), i Dardenne proseguono un percorso già intrapreso ne Il matrimonio di Lorna: se i loro primi film noti al grande pubblico sono incentrati sulla singolarità dell’individuo e sulla scelta dell’aprirsi all’altro, ora il campo si allarga e lascia spazio a un’arena sociale sigillata da continui duetti tra il bambino e Samantha, il bambino e il padre, il bambino e lo spacciatore, etc… Quadri a due in cui lo sguardo dei Dardenne si muove avvolgente, costruendo elaborati piani sequenza che non peccano mai di virtuosismo, ma scandiscono una storia esemplare restituendoci l’emozione di ogni momento della ricerca di Cyrill: dal convulso inizio a camera a mano che termina con il bambino che trascina Samantha a terra (e nell’inquadratura), al quadro fermo che racchiude per qualche minuto padre e figlio insieme dietro al bancone di una cucina, alla carrellata veloce che insegue con la dolcezza della brezza estiva Cyrill e Samantha lungo le rive della Meuse.

Di fronte a un cinema che porta all’esasperazione la cifra stilistica, i Dardenne continuano un percorso di seria ricerca formale, talmente adesa alla tensione etica che sorregge ogni loro film da non sembrare mai esibita, anche quando sceglie forme elaborate (il continuo cambio di fuoco sulla scena di Cyrill che gira con la bicicletta attorno all’auto di Samantha) o quando decide di rompere la sua unità (i campi/contro campi del finale che segnano un deciso confine tra chi ha perdonato e chi non ha saputo farlo).
Onniscente, come nelle fiabe, il narratore di questa storia ci consegna un’operetta morale, che ha le sue radici nel cinema didattico di Rossellini, più che nelle corse melanconiche di Antoine Doinel o le cocciutaggini de Il ragazzo selvaggio. Una fiaba politica immersa nel sole (promettente) dell’estate, moderna e ancestrale, rigorosa e appassionata.

Il ragazzo con la bicicletta (Le Gamin au vélo), regia di Luc e Jean-Pierre Dardenne, Belgio/Francia/Italia 2011, 87’