“Quello che limita l’uomo, crea la sua piccola fortuna”. A pronunciarlo è Faust, ma potrebbe essere il cineasta Alexader Sokurov che si spinge ai limiti della visione seguendo le orme del personaggio letterario di Goethe al centro del suo ultimo film, sacrificando la pulizia formale propria del suo cinema e incrinando il tempo dell’arte verso il fermento del caos.
Faust completa la tetralogia sul potere (Taurus su Lenin, Moloch su Hitler, Il Sole su Hiroito), un progressivo avvicinamento verso la terra del Potere Assoluto, il luogo di estrema solitudine e perdizione dove una distesa di rocce e neve riflette i barlumi di un desiderio ormai lontano. È lì che si consumano i commiati dei tre dittatori che, chiusi nelle proprie dimore, si preparano alla morte e alla destituzione. Faust, invece, arriva dalla Terra, sollevandosi nel corso del viaggio dalle inquietudini esistenziali (raggiungere l’attimo di grazia o il sapere assoluto) per aprirsi alla volta della folle ricerca in un orizzonte in cui è negata ogni speranza.

Il cinema di Sokurov è esperienziale, le scelte stilistiche – che riguardino il finto piano sequenza de L’arca russa o l’essenzialità del teatro kabuki in Hubert Robert. Una vita felice – chiamano lo spettatore a scoprire una dimensione propria in cui si radica e prende vita il film stesso. Non è un caso che la prima parte di Faust sia composta da piani fissi agitati da un confusionale movimento interno, dove i personaggi si perdono e riemergono assorbiti dal buio e dalla folla. I margini del quadro sembrano tenere a freno un movimento compulsivo che rompe la compostezza delle epifanie dei dipinti Vermeer per lasciare spazio alle linee centripete di Bosch. Esclusivamente nella solitudine il quadro è compiuto (non a caso persino il demonio acquisterà la sua posizione, come l’astronomo di Vermeer), con lo sguardo in placida osservazione di un punctum, al sicuro dallo smarrimento visivo che domina il film. Incorniciati dall’inquadratura, i personaggi del Faust sono in realtà prigionieri nelle strette morse di un’immagine cinematografica che si fa gabbia. Così, se il mondo rivela la sua essenza di trappola, di prigione, in cui sentirsi costretti, la realtà per essere intuita nei suoi aspetti più profondi e radicali deve riflettersi in uno specchio scuro che ne deforma l’apparenza, mettendone in luce l’inquietante superficie pittorica. Faust, cercando di risolvere il mistero dell’esistenza, è irretito da una nuova prigione, imbastita da un Mefistofele in panciotto e simbolicamente veicolata da visioni sbilenche e stirate, in cui l’atmosfera seppiata del film mette in luce le sue sfumature verdacee: sguardi dagli inferi, che sembrano premonire il cammino di Faust, e la sua progressiva perdita di lucidità.

Le visioni, quasi allucinazioni, nel film di Sokurov appartengono alla trappola intessuta dal Demonio, attento a offrire un attimo di grazia in cambio della dannazione eterna. Margherita, rappresentazione suprema dell’amata, è qui incarnata da un angelo uscito dalla pittura fiamminga. Sebbene all’inizio sia presentata, nelle sue parti più carnali, attraverso una superficie distorcente, è lei a dettare il secondo registro del film, unica figura ad interrogare – fin dall’inizio – il fuoricampo, l’altro da sé, trasformando gradatamente il tono dell’opera. Spaventata dal corpo deforme di Mefistofele e dagli inseguimenti di Faust, lusingata dalle sue attenzioni, salvata (o meglio dannata) dal suo desiderio, rivolge all’uomo i più intensi primi piani del film, veicolando la duplicità di Male e Bene in almeno tre momenti che segneranno la storia del cinema. Il primo: il delirante funerale del fratello, in cui Faust le sfiora la mano, provocando nei lineamenti del suo volto aggraziato una contrazione diabolica, già segno della futura perdizione. Il secondo: l’incontro privato tra Faust e Margherita, corsa da lui per conoscere la verità sulla morte del fratello. In un’atmosfera irreale, un fascio di luce illumina il volto della fanciulla sciogliendo i lineamenti dolci nella luminosità dell’oro e avvicinando lo spettatore alla sensazione del tocco di grazia, come forse soltanto le tele di Beato Angelico sanno raggiungere. Il terzo: il compimento del desiderio, risolto in uno sguardo fugace del volto di Margherita che abbandona la disperazione per lasciarsi andare ad un abbraccio nel cuore delle acque scure di un lago di montagna.

Solo il desiderio apre il campo visivo del Faust di Sokurov, tanto che, superata la notte in cui ci si può ricongiungere alla fonte della vita (in un dettaglio corporale mai così unico e potente), non si potrà più vedere chiaramente, avendo spalancato le porte del regno dei morti. I pupazzi dei morti viventi, dall’estetica inquietante e artigianale che rimanda al cinema dei fratelli Quay, sono liberi di avanzare dettando la loro visione distorta e ipnotica del mondo. La stanza dell’amata è ingombra dalle banalità della vita quotidiana, che sembrano aver perso la propria funzione rivelando la propria inutilità. La realtà torna con prepotenza alla sua essenza di prigione, raddoppiata dal peso di un’armatura che rende ancora più intrappolati delle pareti rocciose e delle mani di chi non ha ancora riconosciuto la propria sorte.
Nella totale chiusura della sequenza finale persino il demonio sarà cancellato, sepolto dai sassi scuri e porosi dell’Islanda, abbandonando l’uomo alle immagini siderali, accecate dal bianco, aldilà di ogni possibile interlocuzione.