Una bugia che si è cristallizzata nel tempo. C’è una definizione migliore per le foto della nostra giovinezza? Solo un cineasta come Ross McElwee poteva sfidare l’indicalità dell’immagine, penetrare tra la luminosità e il calore della pellicola, per uscirne con una nuova visione dei propri vent’anni, perché forse l’unico modo per comprendere l’altro è mettere in discussione se stessi.

Photographic Memory parte da un malessere, quello di un padre incapace di riconoscere il proprio figlio, che da bambino sorridente e complice delle continue riprese paterne si è trasformato in adolescente ombroso, distratto dal sovraccarico tecnologico dei nostri tempi. Il delicato passaggio dall’amore istintivo per un piccolo essere umano alla messa in discussione di un possibile dialogo e di un rapporto concreto, dettano l’inizio di un documentario in prima persona, collezione di memorie familiari e personali. La ricerca di se stesso ragazzo è la via prescelta per riavvicinarsi in un altro modo al figlio, così vicino (e forse per questo lontano) al padre nella sua ossessione per l’immagine. Ma rivedere se stessi nelle fotografie ingiallite dal tempo vuol dire percorrere in senso opposto la distanza che ci separa dall’effige sorridente di un ragazzo che suona il violino sul limitare di un campo. Vuol dire anche abbandonare bugie che si sono cristallizzate nella memoria, per addentrarsi nel terreno franoso di ciò che è stato e di come lo abbiamo vissuto (e visto?). La fotografia ha il potere di decontestualizzare, distruggendo ciò che resta al di fuori dei margini: per questo l’indagine in Bretagna di McElwee, sulle tracce del suo maestro Maurice e del suo primo amore Maud, è meticolosa come quella di Sherlock Holmes (ironicamente citato nel film), attenta al dettaglio topografico come alla traccia del tempo sulla pelle delle persone. Il punto esatto dove ho vissuto corrisponde anche al punto esatto dove scattai una fotografia e dove ora poggio il cavalletto della camera: una leggera deformazione, tra passato e presente, che intrappola regalando un attimo di malinconica sospensione. La realtà è davanti ai nostri occhi, ma non sappiamo scorgerla, irretiti da nuovi piani urbanistici e dalle superfici laccate delle reclame. La realtà è restituita dalle immagini che abbiamo collezionato: la bella Maud, amore perduto del regista, svela la sua essenza e il suo fascino solare nel bianco e nero dello scatto di Maurice, mentre le foto plastiche di McElwee ventenne la incorniciano in un mercato, relegandola ad un ingrato secondo piano. Ognuno ha commesso i suoi peccati di gioventù, si è inventato una versione della storia per riuscire a superare una delusione, prendendosi il tempo per crescere e trovare se stesso, per poi lasciarsi mettere in crisi dall’adolescenza di un figlio troppo simile a sé. E Adrian continua a resistere al padre, mettendo tra loro il filtro della finzione e rivendicando il suo finale all’interno dell’opera paterna.

La recherche di McElwee, sospesa e ondivaga come tutto il miglior cinema dell’autore, è uno schiaffo al cinema autoritario di registi come Michael Moore (citato in uno dei momenti umoristici del film), troppo sicuri di uno stile argomentativo che non ha più bisogno di confrontarsi con la complessità del reale.