A William Friedkin, che nel 1976 lo andò a trovare durante la preparazione di Sorcerers, lo sfortunato remake di Vite vendute, Henri-Georges Clouzot disse chiaro e tondo che il segreto del suo film era nei dettagli. Quelli che alla visione del film rimangono impressi a fuoco e non abbandonano più: le ruote posteriori del camion di Yves Montand che slittano su un parapetto fangoso affacciato su uno strapiombo; la nitroglicerina che scende goccia a goccia dalla foglia di palma usata per farla colare in un buco scavato in una roccia; Folco Lulli che, commosso, si toglie il cappello in segno di rispetto davanti a Peter Van Eyck che sta rischiando la vita per i compagni. Una propensione alla minuzia visiva, alla notazione paesaggistica e psicologica, che inietta il realismo all’interno di una dimensione di genere, manipolata e stravolta dall’autore secondo le proprie esigenze.

Si potrebbe scrivere un libro sulla genesi di Vite vendute. Clouzot – reduce da un viaggio d’amore e di febbre creativa in Brasile, tra iniziazioni, riti magici e il progetto di un film con (e per) la moglie Vera, che restò sulla carta – ricrea in Camargue l’innominato paese del Centro America dove si svolge la vicenda, in mezzo a costoni di roccia e pianori paludosi sbiancati dal sole: un mondo ricostruito da un’immagine mentale, come notava André Bazin. La lavorazione è infernale, tra piogge torrenziali che allagano il set, funestata da infortuni, bloccata dai finanziamenti insufficienti: sette mesi di stop imprevisti che allungano di oltre un anno la lavorazione. Eppure sarà un trionfo, contro tutto e tutti, alla faccia di chi era a dir poco perplesso per l’ingaggio di Yves Montand, ancora scottato dal cinema dopo il disastro di Mentre Parigi dorme di Carné, del “vecchio” Charles Vanel (scelto dopo il gran rifiuto di Jean Gabin, disgustato dall’idea di dover interpretare un vecchio delinquente smidollato), o di una non-attrice come la stessa Vera Clouzot. Incassi cospicui, Gran Premio del Festival a Cannes, una fama indelebile.

Eppure Vite vendute è un film tutt’altro che facile. Il suo meccanismo implacabile ha una sgradevolezza che ne fa un manifesto di cinema della crudeltà. Verso gli attori, i personaggi e lo spettatore. «Tu guidi, io muoio di paura. Credimi: hai tu il posto migliore» dice Jo (Vanel) a Mario (Montand). Il salario della paura del titolo originale – quello che i quattro mercenari accettano per trasportare lungo quattrocento chilometri di strade dissestate un letale carico di nitroglicerina, fino ai pozzi di petrolio in fiamme di una grande compagnia petrolifera – è anche il biglietto che lo spettatore paga per sedersi al fianco dei camionisti di Clouzot. Sicuri che sia il posto migliore?
Fedele al proprio credo («il contrasto è alla base della mia idea di cinema» spiega a Georges Sadoul), il regista di I diabolici elabora la suspense rallentando i tempi fino allo snervamento. Il suo è un film d’azione come non se ne sono mai visti. Altro che i frenetici conti alla rovescia del thriller, il tempo che fugge via, le lancette dell’orologio che corrono impazzite. I camion carichi di nitroglicerina devono andare pianissimo, altrimenti salta tutto. Per affrontare un tornante in montagna occorrono decine di minuti, e quando il cammino è ostruito da una frana bisogna scavare la roccia, laboriosamente, e introdurvi l’esplosivo una goccia alla volta per farla brillare. I camionisti di Clouzot, come il condannato a morte di Bresson, vivono ogni secondo della propria condanna, e lo spettatore con loro.

Chi oserebbe cimentarsi con un film come Vite vendute? Ci ha provato Friedkin, rimediando un’onorevole ma cocente sconfitta. Il regista di Vivere e morire a Los Angeles passa la prima ora a raccontare i trascorsi dei protagonisti; Clouzot mette subito in chiaro che i suoi sono uomini senza passato, «personaggi immobili, prigionieri di  un mondo statico che non abbandoneranno che da morti» (Pascal Mérigeau). Un mondo al maschile in cui le donne sono un sovrappiù, presenze di cui si può saltuariamente beneficiare, ma tagliate fuori da una complicità che è più profonda e ambigua dell’amicizia virile celebrata da Hollywood. L’indifferenza di Mario e Jo mentre dietro di loro una statuaria nera fa la doccia fa il paio con la battuta di Vera Clouzot che chiede a Vanel di cedergli Mario solo per un poco. Folco Lulli fa da massaia a Montand, gli prepara gli spaghetti e gli rammenda le camicie, e Peter Van Eyck confessa candidamente che a lui le donne non piacciono proprio. Uomini alla deriva, morti che camminano in una terra invivibile, dove i bambini tormentano gli insetti per passatempo, in un incipit che anticipa di tre lustri quello di Il mucchio selvaggio, e gli adulti coltivano un gusto infantile della crudeltà, della provocazione reciproca, della derisione. Condannati all’inazione, in un girone infernale fatto di fango e sudore, una babele di lingue che si intrecciano e si sovrappongono, in cui capita di iniziare una frase in inglese e concluderla in francese. Sospesi in un non-tempo che si ripete sempre uguale, tra una gassosa al bar, un acquazzone che lascia dietro di sé solo altra umidità, e il sogno di un miracolo che li porti via da quell’inferno.

Quando Yves Montand conduce il nuovo arrivato Charles Vanel in un giro turistico tra le “bellezze” di Las Piedras, come un novello Virgilio senza corona d’alloro ma in canottiera e con un fazzoletto lercio al collo, la qualità metafisica di Vite vendute striscia fuori come una serpe da sotto un sasso. Clouzot è troppo scaltro per sfoderare metafore e analogie sotto il naso del pubblico: ma il romanzo d’avventura di Georges Arnaud è per lui solo un palinsesto di comodo, allo stesso modo in cui le tessiture poliziesche e horror di Il corvo, Legittima difesa, I diabolici e Le spie forniscono lo spunto per uno sguardo più ampio sulla condizione umana.

Spesso si è parlato di Clouzot come di un cineasta sadico, che ostenta suprema indifferenza nei confronti dei personaggi e del pubblico, e privilegia l’effetto su ogni altra cosa. Si pensi alla sequenza che vede Charles Vanel urlante, irriconoscibile, semisommerso in una polla di petrolio grezzo (petrolio vero: i dettagli, s’era detto…) mentre il compagno gli passa sopra con il camion, maciullandogli la gamba. Persino oggi, in tempi di torture porn e affini, è un momento di un’intensità insostenibile persino per lo spettatore più smaliziato («Un formidabile e ripugnante pezzo di bravura» scrisse Filippo Sacchi). Sadismo, dunque? Forse. Di sicuro, una profonda e disincantata conoscenza della natura umana. La medesima che lo ha accompagnato dai primi film. «È terribile dirlo, ma il male è necessario» diceva Pierre Fresnay in Il corvo, ed è una frase che svela un’intera carriera. Clouzot posa da entomologo, ma nel profondo è un filosofo, e le pagine più belle del suo cinema sono massime di stoica saggezza in forma di folgorante analogia audiovisiva. Come la morte di Folco Lulli e Peter Van Eyck, evocata dallo spostamento d’aria dell’esplosione che fa volar via il tabacco da una cartina di sigaretta arrotolata a miglia di distanza. O quel lieve valzer di Strauss che accompagna il goffo, euforico balletto conclusivo su quattro ruote, e conduce a una morte tanto orribile quanto beffarda, in un finale che nella sua perentoria arbitrarietà svela la terribile leggerezza e precarietà di quella ridicola tragedia che chiamiamo vita.


VITE VENDUTE
(Le salaire de la peur), regia di Henri-Georges Clouzot, Francia/Italia 1953, 156′ (Sinister Film)