Dopo l’anteprima mondiale alla 68ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, We Can’t Go Home Again, ultimo film di Nicholas Ray, viene riproposto in dvd da Bompiani in concomitanza con il centenario della nascita del regista (7 agosto 2011). Abbinato al film, il libro Mi hanno interrotto, che raccoglie le lezioni di cinema tenute dallo stesso Ray fra il 1971 e il 1972 presso l’Harpur College, dove le ristrettezze economiche e una sfortunata trasferta europea l’avevano condotto alla fine degli anni Sessanta.
Lo stesso We Can’t Go Home Again nasce inizialmente come film-laboratorio per gli studenti del corso di cinema dell’Harpur. Ben presto, tuttavia, nel lavoro in corso confluiscono altre suggestioni, altre immagini, progetti abortiti (un documentario sul processo seguito ai disordini della convention democratica del 1968) e i molteplici interessi di Ray, a cominciare dalla pittura. L’opera viene portata avanti a spizzichi e bocconi fra molte difficoltà, sia di carattere economico-tecnico, sia di tipo squisitamente “umano”, visto che durante le riprese Ray era già impegnato in una sistematica opera di autodistruzione a base di alcool, sigarette e droghe psicotrope. Finalmente, nel 1973, un primo montaggio vide la luce al festival di Cannes, suscitando in tutti una certa perplessità: addirittura pare che Sterling Hayden (che Ray aveva diretto in Johnny Guitar) si domandasse se il film fosse stato girato sotto l’effetto di allucinogeni (1). In realtà, come mostra Wim Wenders nel suo Nick’s Movie (1980), la post-produzione del film era tutt’altro che conclusa, e Ray, ormai condannato dal cancro, vi continuò a metter mano fino alla fine dei suoi giorni.

Come dicevamo all’inizio, il risultato di cotanto instancabile lavoro alla moviola (cui ha messo mano, dopo la scomparsa del regista, la vedova Susan) lo abbiamo potuto vedere, rapiti, a Venezia: un mastodontico, straripante abbozzo di film, uno zibaldone che racchiude in sé il documentario e la finzione, la memoria del Classico e l’inquietudine del Moderno, la tradizione e la sperimentazione.
Al timone dell’impresa, il vecchio Nick: volto precocemente scavato dalle rughe, benda sull’occhio, incredibili camice colorate. Un capitano Achab alla guida di un manipolo di giovani studenti, eredi di quei “ribelli senza causa” che egli stesso aveva tenuto cinematograficamente a battesimo oltre vent’anni prima.
Impossibile separare il “farsi” del film dalle vicende che caratterizzano gli Stati Uniti di quegli anni (1969-1972): il subitaneo riflusso seguito alle sollevazioni giovanili del Sessantotto; il trionfo di Nixon e della “maggioranza silenziosa”; gli ultimi fuochi della guerra in Vietnam. Illusioni e delusioni che il film documenta con grandissima efficacia e lucida malinconia, mostrando una ragazza che lamenta l’impossibilità di riacquistare la verginità (allusione fin troppo esplicita alla “perdita dell’innocenza” dell’America seguita agli omicidi dei due Kennedy e di Luther King), o il militante che, dopo aver assistito alla convention repubblicana a Miami, decide, fra i singhiozzi, di tagliarsi la lunga barba “contestatrice”- mentre accanto a lui, in uno split-screen, a bordo dell’auto presidenziale, Nixon saluta la folla osannante. E’ una generazione senza più punti di riferimento, che odia i Padri ma non riesce a farne a meno (“Mio padre è un poliziotto…non condivide le mie scelte morali e politiche…ma io lo amo”), o che si lancia in avventure sessuali ai limiti del suicidio, come la ragazza che racconta a uno stupito Ray di aver accettato l’offerta di un pappone, e, più avanti, di aver cercato di contrarre lo scolo da uno sconosciuto.

Ma We Can’t Go Home Again è anche un film sul cinema – o meglio sul cinema come scelta di vita, per cui vivere significa scrivere, filmare, recitare, montare. Così, alle immagini di “fiction” si mescolano senza soluzione di continuità le riprese del lavoro sul set, con Ray  e i suoi allievi alla moviola, o impegnati nello sviluppo della pellicola. E pian piano, ciò che sta davanti alla macchina da presa si confonde con quel che sta dietro: mentre i ragazzi si innamorano, ridono, piangono, si spogliano, lo stesso Ray si mette in scena senza pudori, fino a coincidere con il proprio personaggio, alternando il ruolo di insegnante a quello di ragazzaccio che lancia freccette contro le foto di poliziotti (e le allieve). A un certo punto mette perfino in scena (e per ben due volte!) la propria morte. La prima volta, vestito da Babbo Natale (ma con l’inconfondibile benda sull’occhio) viene investito da un’auto, lasciando al suolo solo un berretto rosso, numerosi pezzi di pellicola e un giornalino a fumetti. Una morte da cartoon, ben diversa dalla successiva, in cui Ray si lega un cappio al collo (lottando con la fune: “Ho diretto dieci western e non ho ancora imparato come si fa un nodo!”) e si lascia penzolare dal tetto di un fienile: “Mi hanno interrotto…” sono le sue ultime parole, quasi a suggellare un film che sembrava destinato a non finire mai – o meglio, a finire con il suo Autore. In fondo, non siamo troppo lontani da Orson Welles, un altro “straniero a Hollywood” che in quegli stessi anni andava costruendo il “suo” film-mondo, quel The Other Side of the Wind, altrettanto radicale nelle scelte visive (e sonore) e altrettanto impossibile da concludere.

Con questo film (ma a questo punto il termine appare perlomeno inadeguato) Ray rimette totalmente in discussione non solo se stesso e il proprio cinema (“Sei tu il regista di Gioventù bruciata? Sei tu il regista de La donna del bandito?” gli domandano gli studenti, increduli), ma il cinema tout-court (2), a cominciare dal “dogma” della singolarità del quadro. We Can’t Go Home Again si presenta sul grande schermo come un’opera a metà fra il polittico medievale e l’album di ritagli. Ray sfrutta fino in fondo le possibilità offerte dallo split screen: narrazioni multiple o sovrapposte, scomposizione “cubista” dello spazio filmico, accostamenti di inquadrature non indegni di Ejzenštejn (la già menzionata rasatura del contestatore). Un risultato frutto del dialogo che Ray intratteneva con il cinema americano coevo, e in particolare con quello d’avanguardia (è noto l’interesse del regista per il lavoro sull’inquadratura di Nam June Paik). Per tacere della qualità materica di queste immagini, sgranate, martoriate, stracciate, ridotte a frammenti quasi invisibili: quello di Ray è un cinema dalla consistenza “fisica”, che non fa nulla per occultare lo sforzo immane che lo ha generato, anzi esibisce le proprie cicatrici senza timore.

Un film-summa, dunque, compendio di una una poetica coerentemente ribelle, tra le poche in grado di unire una travolgente sperimentazione linguistica con la testimonianza appassionata sulla fine della Controcultura e sul disagio di una generazione. 
Nicholas Ray: al di là del cinema, più grande del cinema.


NOTE

(1) Informazione ricavata dal documentario di Susan Ray Don’t Expect Too Much, rievocazione un po’ anodina della lavorazione del film, anch’esso presentato a Venezia.

(2) Del resto, non era quello che auspicava, nel lontano 1956, Jean-Luc Godard? “Se il cinema non esistesse più, Nicholas Ray, solo lui, dà l’impressione di poterlo reinventare e, quel che più conta, di volerlo”. Due anni dopo proclamerà: “Il cinema è Nicholas Ray” (Jean-Luc Godard, Il Cinema è il Cinema, a cura di Adriano Aprà, Milano, Garzanti, 1981)


WE CAN’T GO HOME AGAIN
(Bompiani, all’interno del libro/cofanetto Mi hanno interrotto)
Regia di Nicholas Ray, Usa 1972-76, 93′