La tentazione umana di cercare un senso qualsiasi nei più fortuiti rovesci del caso ha quasi sempre prodotto – se non catastrofi – quanto meno considerevoli esempi di imbecillità. Con ciò è vero anche che alle tentazioni qualche volta si deve pur cedere, e che il confine tra l’imbecillità e la fulminazione, nelle cose della cultura, è spesso piuttosto arbitrario. È con una logica associativa piuttosto vaga, quindi, che vorrei iniziare con una coincidenza. Del resto gli interessati approverebbero  – o almeno così mi piace pensare. La recente scomparsa di Raúl Ruiz, spentosi questo agosto a Parigi, all’età di settant’anni, ha privato il movimento surrealista di uno dei suoi ultimi e più talentuosi interpreti. Dall’altra parte della Manica, il British Film Institute rilascia adesso una nuova edizione di Něco z Alenky, capolavoro del regista ceco Jan Švankmajer, cineasta da sempre legato al circolo surrealista di Praga, entrato ormai nel novero dei più grandi registi d’animazione viventi. Ce n’è abbastanza per provare a ritracciare le rotte di lettura del film in chiave di mediazione tra realtà e linguaggio.

“Qualcosa di Alice” – questa la traduzione letterale del titolo – si presenta come una libera interpretazione del classico carroliano. Alcuni episodi sono rievocati con fedeltà, di altri non resta che una vaga traccia, altri ancora sono completamente rivisitati. Nel complesso, dell’ipotesto letterario non rimane che una specie di partitura d’infanzia: Alice – quello vero – funge da breviario, o bestiario. Il Bianconiglio, la Regina di Cuori, il Cappellaio: la carovana delle figure carroliane sfila sullo schermo come in un carnevale, una processione di maschere iscritte nella memoria culturale dello spettatore. La fonte perde i suoi connotati più astratti, la sofisticatezza dei suoi paradossi logici e linguistici: a Švankmajer interessa l’ossatura inconscia, quella che egli stesso definisce la «morfologia mentale» offerta dalla storia. In altre parole, l’autore usa il testo per evocarne le dinamiche implicite, le suggestioni: il paradigma di una visione pre-sociale, pre-razionale, potenzialmente eversiva.

A questo sostrato di immagini e personaggi Švankmajer attinge come a un repertorio dell’inconscio, secondo una poetica che mescola suggestioni e matrici diverse. In primo luogo, la wunderkammer. l’accumulazione degli oggetti, dei mirabilia naturali e artificiali.  Dietro c’è la Praga di Rodolfo II e dell’Arcimboldo (1), ma c’è – anche – la prospettiva di un’intelligenza visiva programmaticamente vergine, uno sguardo capace di interrompere le relazioni tra le cose, riaprirle alla loro immanenza, costruire nuove connessioni. Di qui l’esigenza del catalogo, di qui l’istanza tassonomica, financo didascalica nei suoi risvolti metaforici: comprendere il reale significa violare la pagina scritta delle sue relazioni ordinate, fissate, consensuali. Nella reiterata collezione di ibridi e meraviglie che compone la superficie spettacolare del film, insomma, si esprime la reinvenzione soggettiva del mondo, o meglio la proiezione di una forma di realtà che nel soggetto e nella sua capacità di dare senso alle cose trova fondamento.
  
Di qui al secondo filone – il surrealismo – il passo è breve. Non è questa la sede per rintracciare le filiazioni dell’avanguardia nell’opera di Švankmajer, ma – senza entrare in dettagli – è evidente nel film la ricerca di una fitta rete di sovrapposizioni tra pulsioni animiste proprie dell’infanzia, logica onirica e fantasmi di morte. Diversi commentatori hanno messo in relazione la messinscena di questo film e del successivo Lekce Faust (1994) con l’idea freudiana del perturbante. Tramite una serie di formule stilistiche e narrative – la ripetizione, lo smembramento, la defamiliarizzazione, il raddoppiamento – questo cinema metterebbe cioè in scacco la normale capacità dello spettatore di riconoscere il reale in quanto sistema di associazioni distinto e coerente. Questo sfaldamento della percezione aprirebbe le porte a ogni genere di proiezioni inconsce: come se, fallito il registro della ragione, la tentazione del senso cui si accennava in apertura fosse costretta a ricorrere agli strati più oscuri del sé per rendersi conto, per ricostruire il racconto di ciò che accade. Un cinema che spinge lo spettatore ad attingere alle logiche del rimosso per  (ri)dare senso a ciò che vede è – intrinsecamente – un cinema rivoluzionario. Non è un caso del resto che tra Švankmajer e i funzionari culturali del Comitato Centrale boemo non corresse troppo buon sangue.
   
La terza matrice da prendere in esame è quella mediale. In un intervento tenuto ad Atlanta due anni fa, al convegno annuale della Society for Animation Studies, Meg Richard ha posto a confronto i rapporti tra animazione e cinema dal vero in Faust e Alenky con quelli di produzioni mainstream come Chi ha incastrato Roger Rabbit? di Zemeckis e Monkeybone di Sellick (2). Secondo la studiosa, l’audacia del cinema di Švankmajer troverebbe riscontro nella mancanza di appigli diegetici a tenere distinti i due apparati visivi. Detto altrimenti: anche laddove animazione e cinema dal vero si incontrano, i titoli hollywoodiani offrirebbero sempre allo spettatore gli elementi necessari a orientarsi, a spiegarsi cioè l’ibridazione visiva attraverso l’alterità di un condizione psicologica (il coma in Monkeybone) o attraverso analogie di derivazione urbanistica (si veda, in Zemeckis, la rappresentazione di Toontown come l’ennesimo quartiere losangelino: una Chinatown a due dimensioni la cui diversità è tanto irriducibile quanto innocua).
   
In Alenky, invece, il margine tra i due registri mediali sarebbe continuamente e irrimediabilmente sfaldato, sfumato, reso irriconoscibile dalla reiterazione delle soglie e dai continui salti da una materia all’altra. In effetti, l’Alice-bambola e l’Alice-essere umano coesistono sullo stesso piano di rappresentazione. La logica delle loro transizioni, che pure esiste, è slegata da una precisa intenzione narrativa, e risponde piuttosto alla matrice di maturazione sessuale che sottende il film. La Richards ha quindi ragione nel sottolineare la continuità straniante con cui il montaggio e l’animazione collegano spazi impossibili, interni ed esterni, oggetti animati e creature in carne e ossa. La scrittura cinematografica di Švankmajer usa le risorse del medium per scardinare la causalità, la consequenzialità del movimento: i principi fondativi del montaggio trasparente si rovesciano in una continua impressione, un discorso distopico che azzera i modi consueti del linguaggio. In parallelo, tuttavia, la commistione dei due piani mediali acuisce l’immanenza fisica degli oggetti. Fibre, tessuti, ossa: la dimensione materiale delle cose – complice anche il continuo rilievo dei dati sonori – si staglia vividissima nella coscienza dello spettatore. Nel complesso, perciò, la controscrittura, il potenziale perturbante di questo cinema si rivolge non tanto a svelare la realtà nella sua inconsistenza concreta – in una prospettiva banalmente schopenhaueriana – quanto i predicati di comprensibilità che tale realtà solitamente accompagnano. Posta di fronte all’immanenza delle cose e alla necessità linguistica del senso, l’animazione si legge come un nuovo libro del mondo, nel quale le relazioni mezzi-fine sono sostituite da nessi estetici, subconsci, pulsionali.
   
Se questo è vero, mi sembra che il piano del confronto vada piuttosto spostato altrove. A doverci interessare, cioè, non sono tanto quei film in cui animazione e cinema dal vero sono esplicitamente accostati a livello diegetico, quanto quelli in cui la distinzione stessa regredisce al grado zero della tecnica. La corrente bipartizione del blockbuster hollywoodiano tra macrogenere fantastico e animazione commerciale per famiglie la dice lunga sullo stato delle cose. Prodotti come Avatar da un lato e il nutrito filone di lungometraggi digitali à la Pixar dall’altro, lavorano a rafforzare nel grande pubblico l’idea di una sostanziale equivalenza linguistica tra i due registri, secondo una prospettiva che asservisce il potenziale eversivo dell’animazione alle logiche spettacolari dell’intrattenimento, o a quelle conciliatorie del racconto di formazione. Una prospettiva programmaticamente innocua, insomma, capace di disinnescare all’origine ogni possibile riscrittura del reale e, allo stesso tempo, nascondere l’ideologia dietro le sirene della tecnica. Sirene dal cui fascino – va aggiunto purtroppo – molti si sono lasciati accecare.
   
Ora a me sembra che nel rapporto tra animazione – sempre più computer-generated – cinema del vero e realtà si giochi in sostanza una delle partite chiave dell’industria culturale contemporanea. Una partita in cui l’animazione europea, con una certa sorpresa, dimostra di possedere una voce originale e interessante. Circolando anche al di fuori del circuito dei festival, titoli come Appuntameno a Belleville, Valzer con Bashir, Persepolis, The Secret of Kells si sono dimostrati in grado di scavare nel rapporto tra il linguaggio e la memoria del reale, con un potenziale perturbante certamente meno marcato rispetto a quello di  Švankmajer, ma con risvolti – penso soprattutto a Folman – altrettanto critici. Soprattutto, ognuno di questi film – un novero a cui va comunque aggiunto la foresta invisibile di cortometraggi e progetti indipendenti che affolla i festival e le manifestazioni di settore – ha saputo trovare un proprio rapporto tra il medium e la materia, inventando di volta in volta un diverso specifico animato. Siamo ancora lontanissimi da un’effettiva riscoperta della ricchezza e dalla varietà delle risorse a disposizione del medium, e i pupazzi antichi di Svankmajer sono lì a ricordarlo, ma è una strada che lascia ben sperare. Dopo tutto, perché mai un corvo dovrebbe essere come uno scrittoio?


NOTE

(1) Kitson, C., “Alice”, in British Animation: The Channel 4 Factor. London: Parliament Hill Publishing, 2008.
(2) Richard, M. “Uncanny breaches, flimsy borders. Jan Švankmajer’s conscious and unconscious worlds”. Animation Studies, 2010, 5:26-40.


ALICE
(Něco z Alenky), regia di Jan Švankmajer, Rep. Ceca 1988, 91′ (BFI)