Se essere “Autori” a Hollywood significa, oggi come ottant’anni fa, aggirare le costrizioni dello Studio System per imporre la propria visione del mondo, allora il nome di Tod Browning rientra a pieno titolo nella categoria. Forse avrebbe potuto trovare, con un po’ di fortuna, un posto nel pantheon dei jeunes turcs degli anni ’50, proprio accanto a Hitchcock, Hawks, Lang e a tanti altri. Purtroppo Browning non divenne mai il vessillo di alcuna politique des auteurs, e nessun Truffaut o Bogdanovich scrisse mai un “Cinéma selòn Browning” o un “This is Tod Browning”.

Ciò che in genere si ricorda di lui sono il primo Dracula sonoro (1931) e il famigerato Freaks (1932), due opere che appartengono oltretutto alla fase tardiva della sua produzione. Ma il periodo creativamente più fecondo dell’Autore rimane sostanzialmente poco conosciuto. A colmare in parte questa lacuna provvede il cofanetto in uscita presso Dcult: Uomini nella notte (Outside the Law, noto in Italia anche con i titoli Così parlò Confucio e Il fuorilegge), Il trio infernale (The Unholy Three, conosciuto anche come I tre), Lo sconosciuto (The Unknown) e Freaks sono i titoli proposti. Una scelta forse disomogenea, ma che permette di ricostruire a grandi linee l’universo tematico di un cineasta cui l’etichetta di “maestro dell’horror” va sicuramente stretta.

Browning fu un artigiano eclettico, che iniziò la sua carriera cinematografica come attore comico (per la regia di Griffith) e che si confrontò con i generi più disparati, con risultati discontinui, ma sempre originali: è il caso appunto di Uomini nella notte (1921), un crime melodrama abbastanza convenzionale cui l’ambientazione (Chinatown) e le massime di Confucio aggiungono un tocco di eccentrico “esotismo” decisamente personale (1). Ma è nel più tardo Il trio infernale (1925) che il mondo di Browning comincia a prendere forma. Probabilmente è eccessivo sostenere che con questo film il regista inauguri quel discorso sulla marginalità e la diversità che Lo sconosciuto e soprattutto Freaks svilupperanno più compiutamente (2): qui la “diversità” dei tre fenomeni da baraccone (un nano, un ventriloquo e un uomo forzuto) è tutta criminale, dal momento che i tre, perduto il lavoro, decidono di sfruttare le proprie capacità artistiche per svaligiare appartamenti. Tuttavia, e in particolare nella prima parte del film, lo sguardo di Browning non nasconde una certa simpatia per i suoi antieroi, come dimostrano alcune scene dal tono marcatamente surreale, in cui i tre, che utilizzano come copertura un negozio di animali, inscenano una sorta di parodia satirica della famiglia americana, con l’uomo forzuto nel ruolo di capofamiglia, il nano nella parte del neonato e il ventriloquo (interpretato in modo efficace da Lon Chaney) della brava nonnina (3). Il film rientra poi nei binari più consueti del melò, con alcuni momenti efficaci (la suspence nella sequenza del processo, l’apparizione del gorilla, il finale dolcemente malinconico), ma nel complesso abbastanza sorvegliato.

Con Lo sconosciuto (1927) Browning ci dà invece uno dei suoi film migliori, nonché probabilmente la più delirante storia d’amore mai raccontata, in cui Lon Chaney, freak in un circo per necessità, finisce per diventare, per amore, un autentico uomo senza braccia. Lo schema narrativo, un classico triangolo amoroso, viene estremizzato dal regista attraverso l’iniezione di massicce dosi di feticismo, sessuofobia (neanche troppo) latente e impotenza virile: un groviglio pulsioni conflittuali che imprigiona i personaggi e impedisce loro qualsiasi azione. Più che interagire, i tre protagonisti (Chaney, il lanciatore di coltelli senza braccia, la sua assistente terrorizzata dalle mani dei maschi, interpretata da Joan Crawford, e l’uomo forzuto) si studiano, come in un’allucinante partita a scacchi sottolineata dall’immobilità della macchina da presa (4) e dagli ossessivi campi-controcampi, che isolano i personaggi  all’interno dell’inquadratura. La regia di Browning è di rara efficacia nella sua sobria classicità,  più attenta alla composizione (sempre elegante: si veda il numero circense nel sottofinale) che a sottolineare l’atmosfera torbida che si respira lungo tutto il film: lo sguardo del regista è sempre lucido, senza concessioni alla morbosità facile. Rimane invece l’antico gusto per la farsa (5), che colora di tonalità grottesche i  momenti più convenzionalmente melodrammatici (l’immagine di Chaney che si asciuga le lacrime stringendo un fazzoletto…fra le dita dei piedi). E se l’ambientazione spagnoleggiante è puro kitsch hollywoodiano, non si può dire altrettanto di quella circense, che si impone, con Lo sconosciuto, come luogo emblematico del cinema browninghiano:  lo spazio in cui il massimo della concretezza (lo sforzo fisico, l’abilità atletica) si confonde con il massimo della finzione, o, nel caso del falso freak protagonista, della mistificazione.

Alla luce di quanto si è detto finora, l’approdo di Browning a un film come Freaks (1932) risulta quasi naturale. Tratto da un racconto di Tod Robbins (già autore del romanzo da cui il regista aveva ricavato Il trio infernale), si ricollega in qualche modo ai film precedenti, ma con ben altra incisività. Ritorna il circo, luogo ideale per mettere in scena una serie di amori altrove improbabili; ritorna la menomazione fisica come impotenza sessuale, rappresentata dal nano (Harry Earles) costretto a guardare la moglie trapezista (Olga Baclanova) dal basso in alto (ma anche il “normale” clown Phroso/Wallace Ford ha qualche problema di virilità: “avresti dovuto vedermi prima dell’operazione” dice alla fidanzata, l’addestratrice di foche); e ritornano anche i “diversi”, ma questa volta non si tratta di una finzione (come ne Lo sconosciuto), ma di autentici freaks, scherzi di natura provenienti direttamente dai circhi e dalle fiere.

Un uomo senza gambe, un tronco umano, una ragazza senza braccia, una coppia di gemelle siamesi, una famiglia di nani, una donna barbuta, un uomo scheletro, microcefali d’ambo i sessi: nelle intenzioni del produttore Irving Thalberg dovevano essere gli ingredienti con cui la MGM avrebbe rintuzzato la concorrenza dei “mostri” Universal (il Dracula dello stesso Browning e il Frankestein di James Whale), realizzando un film “veramente orripilante”. Ma il regista doveva essere di un altro avviso, dal momento che ogni possibile spettacolarizzazione delle difformità dei suoi primattori viene sistematicamente frustrata: del circo (e implicitamente dell’esibizione dello “scherzo di natura”), in Freaks, vediamo solo il dietro le quinte – un mondo che lo stesso Browning conosceva bene, visto che aveva passato la giovinezza sotto il tendone, e che guarda con complicità e affetto.

Buona parte del film non ha nulla di “orripilante”,  al contrario ricorre spesso ai modi della commedia (il sub-plot del clown balbuziente che sposa una delle due gemelle siamesi, ma non va d’accordo con l’altra è quasi una trovata da vaudeville), e addirittura si permette qualche audacia erotica (il nano che massaggia la spalla nuda della trapezista). Il disagio che coglie lo spettatore è duplice: da un lato si ritrova a essere involontario voyeur della vita quotidiana di un gruppo di artisti circensi; dall’altro scopre che la vita di questi individui eccezionali non è lontana dalla sua.  Solo nella seconda parte del film assistiamo a qualcosa di simile all’horror, ma questo accade nel momento in cui nella quotidianità della vita dei freaks irrompono il disprezzo, l’avidità e il delitto, e proprio ad opera dei “normali”.  E solo allora la macchina da presa di Browning, che fino a quel momento ha pedinato i personaggi con discrezione naturalista, li inquadra mentre fanno capolino dalle finestre, si muovono nella penombra, sbucano ai margini del quadro: i freaks diventano creature del sogno, proiezioni in carne ed ossa dell’”io segreto” (6), come si vede dalla soggettiva dell’uomo forzuto (Henry Victor) che, ferito a morte, li vede avanzare verso di sé con fare minaccioso nella notte squarciata dai lampi.

Freaks, inutile dirlo, risultò troppo estremo per essere un semplice horror. Se già durante la lavorazione la MGM aveva tentato di disinnescarne il potenziale sovversivo attraverso comunicati stampa che ne facevano un gigantesco “Freak Show” (7), dopo gli esiti fallimentari delle anteprime, il film venne accorciato di oltre trenta minuti, nel disperato tentativo di ridurlo alle dimensioni di un convenzionale film dell’orrore (e infatti furono soprattutto le scene da commedia a essere tagliate) (8). Ma il responso della critica e del pubblico fu durissimo: se già Lo sconosciuto aveva infastidito qualche recensore (Richard Watts Jr. scrisse addirittura che, rispetto a Browning, persino Stroheim pareva un “apostolo della dolcezza e della luce”), la condanna per Freaks fu unanime, anche da parte di alcuni degli artisti e tecnici che vi lavorarono (9). Il film, abbandonato al suo destino, riemerse in Europa trent’anni dopo, diventando un simbolo della controcultura. Ma a quel punto Browning, che travolto dall’insuccesso aveva concluso la propria carriera nel 1939 con l’anonimo Miracles for Sale, era già scomparso nel 1962. “Mi accontento di girare dei film normali”, affermava, con una certa modestia, in un’intervista (10) del 1928. Per sua fortuna, si sbagliava.

NOTE

(1) Si tratta inoltre del primo ruolo da protagonista che Lon Chaney recita per Browning: diventerà il suo attore-feticcio.

(2) Cfr. Leonardo Gandini, Tod Browning, Il Castoro, Milano, 1996, p. 58-59.

(3) Il travestimento da vecchia signora ritornerà oltre dieci anni dopo con La bambola del diavolo (The Devil Doll, 1936), interpretato da Lionel Barrymore.

(4) Secondo il celebre direttore della fotografia James Wong Howe, Browning “non sapeva granchè della macchina da presa. Faceva recitare gli attori “verso” la macchina da presa invece di girarla intorno, così il film era estremamente statico, e usava il montaggio per superare questo limite” (cit. In David J. Skal, The Monster Show. Storia e cultura dell’horror, Baldini&Castoldi, Milano 1998, p. 164). La staticità delle inquadrature de Lo sconosciuto è, al contrario, una scelta consapevole del cineasta, che in Freaks dimostra infatti di saper padroneggiare benissimo i movimenti di macchina, anche in un film sonoro.

(5) Sui rapporti fra il cinema di Browning e il cinema comico coevo, si veda Marco Giusti, “Billy Gilbert nella fabbrica dei mostri” (Filmcritica n. 276, 1975), in parte ripreso in Stan Laurel & Oliver Hardy, Il Castoro, Milano, 1997, pp.34-35. Val la pena di ricordare come Mae Busch, che recitò da protagonista ne Il trio infernale, sarebbe diventata una delle più celebri “spalle” femminili della coppia Laurel & Hardy.

(6) “Miti e immagini dell’io segreto” è il sottotitolo del saggio di Leslie Fiedler “Freaks” (Il Saggiatore, Milano 2009). Fiedler dedica a Browning e al film le pagine 301-12.

(7) Si vedano le dichiarazioni attribuite allo stesso Browning in Skal, op. cit, p.130-131.

(8) Cfr. Gandini, op.cit., p.109.

(9) La donna barbuta del film definì Freaks “un insulto”; Budd Schulberg (futuro sceneggiatore di Fronte del porto), che aveva assistito alla lavorazione, osservava “una certa gioia maligna nel modo in cui Tod Browning conduceva le riprese”; il montatore del film, Basil Wrangell, parlava della fatica di dover lavorare sulle immagini del film per diciotto ore al giorno: “si finiva per sbattere la testa contro i muri”. (v. Skal, op. cit. pp. 129-133).

(10) Cit. In Gandini, op.cit, p.5.

TOD BROWNING COLLECTION (D-Cult)
UOMINI NELLA NOTTE (Outside the Law), regia di Tod Browning, Usa 1921, 91′
IL TRIO INFERNALE (The Unholy Three), regia di Tod Browning, Usa 1925, 83′
LO SCONOSCIUTO (The Unknown), regia di Tod Browning, Usa 1927, 60′
FREAKS (Freaks), regia di Tod Browning, Usa 1932, 62′