Tre bambine ricevono la loro fetta di torta ai lamponi mentre guardano svagate un film d’animazione, il loro fratellino – ancora troppo piccolo per camminare – le osserva attonito e pieno di sonno dalle braccia della madre. Le bambine guardano fisse, ridono e si sorprendono, senza neppure accorgersi che la mamma le ha abbandonate, salendo al piano superiore con il piccolo, e proprio dall’alto le chiama. Una a una, in un rituale che simula una graduale messa a nanna, salgono verso quello che tragicamente si rivelerà un sonno eterno. Nel salotto non c’è più nessuno: solo la televisione emana ancora qualche segnale, pronta a raccogliere la storia per trasformarla in una nuova narrazione, in un eterno ciclo dettato ora dai fatti, ora dalle esistenze.

A Perdre la raison di Joachim Lafosse, presentato nella sezione Un Certain Regard, è un film coraggioso, non soltanto perché sceglie deliberatamente di occuparsi di figlicidio, una questione spesso rimossa (data in pasto ai media per elaborare il più velocemente possibile un giudizio sommario che ci lasci tranquilli), ma soprattutto perché lo mostra nella sua accezione mitica, lasciandone emergere il sostrato perturbante, in grado di scardinare una società ancora macchiata dal colonialismo e succube di una mercificazione ormai totalizzante.

Classico ma essenziale nelle scelte narrative, il regista vallone continua a portare avanti un cinema che trova nella dicotomia economica/affettiva della famiglia il suo campo di indagine: solo accennato nel primo film, il passionale e movimentato Folie privée (in cui era un padre a uccidere per gelosia il figlio), centro dialettico del rigoroso Proprietà privata (sulla mancata indipendenza di una coppia di fratelli) e di quest’ultimo A Perdre la raison, dove le interferenze di un padre putativo porteranno alla distruzione di una giovane coppia e della loro prole. Come in una fiaba antica, ricca di non detti (e fuoricampo), Murielle e Mounir sono le vittime, ma consapevoli e per questo senza speranza, di un patriarca-orco, che svela il suo lato più grottesco non soltanto nell’essere colonizzatore (nei confronti del marocchino Mounir che ha accolto a casa sua fin da bambino, senza averlo adottato) ma nell’indagare la psiche umana come mestiere.

Rappresentazioni ataviche, i personaggi del film sono pienamente ancorati a corpi, che con la loro naturale presenza ci fanno ripiombare sulla Terra, mettendo in secondo piano i topoi del mito per nasconderli nei loro sguardi vuoti, nelle pance rigonfie, nell’atleticità inerte, nell’impassibilità di una vecchiaia che non conosce tempo. Diretti da Lafosse, il “profeta” Tahar Rahim diventa lo smarrito e sradicato Mounir, Neils Arestrup il suo imperturbabile orco e Emilie Dequenne una Medea le cui trasformazioni sembrano essere covate nelle successive gravidanze e da lì partire per oscurarle il volto e rallentarne i movimenti, rendendola quella statua che il fato le richiede di essere.

Tra astrazione e fisicità si articola una tensione attoriale che pervade e costruisce il tessuto di un’opera, non sempre chiara nel suo punto di vista. Quasi spiati, questi corpi che lottano con i loro personaggi riducendoli al fango, al sangue e alle lacrime sembrano intimorire lo stesso sguardo del regista, ammaliato ma pronto a mantenere le distanze, in un gioco di fuoricampo a cui non riesce ad essere fino in fondo fedele. Indiscreto, come chi si insinua nel segreto di una famiglia che non è la sua, lo spettatore è intrappolato in una visione sempre più parziale di una vicenda di cui progressivamente gli sfuggono le ragioni. E se il simbolismo di alcune sequenze non aiuta il film (l’abito marocchino, comunemente segnale di arretratezza, qui diventa un’armatura contro un sistema solo in apparenza libertario ed equo, il coltello come ultimo acquisto di una spesa di prelibatezze per i bambini), a lavorare in profondità è la reiterazione di situazioni normali, pronte a mostrare nel loro ciclico ripetersi il lato ormai mostruoso e concentrazionario dell’esistenza.

Dopo la tragedia, solo la bella villetta bianca resta immutata, testimone di una voce strozzata ormai senza più un corpo, reame che ha divorato la propria regina senza più azione e senza più sguardo.