Non bisognerebbe mai entrare in sala con idee preventive su un film, ma Les Rencontres d'après minuit di Yann Gonzalez ha saputo suscitare l'attesa, vuoi perchè il regista è un autodidatta che si è fatto notare grazie a una decina di cortometraggi, vuoi perchè le poche immagini del suo primo lungometraggio lasciavano trasparire la creatività di chi non si sta facendo imbrigliare dal cinema medio d'autore europeo, che proprio in Francia ha i suoi maggiori artefici.

Per Yann Gonzalez, trentasei anni e una carriera di critico cinematografico alle spalle, il cinema è prima di tutto: “uno specchio deformante che ci restituisce immagini attraverso il prisma del fantasma, del sogno". Per questo ha scelto di girare in studio, affascinato dalla creazione di un mondo fantastico, in cui il reale è ricostruito in maniera irreale, incongrua. Fuori dal mondo stanno i personaggi del film di Gonzalez: chiusi nelle mura domestiche di uno strano appartamento, rigorosamente hi-tech e poco confortevole, dove una coppia di affascinanti ventenni, e il loro maggiordomo dallo spirito queer, accoglie diverse figure emblematiche che sotto la copertura di un nickname (l'Adolescente, la Star, lo Stallone, etc.) vogliono partecipare a una notte di sesso e baccanali. Ma le ore passano e l'obbiettivo sembra allontanarsi, lasciando spazio al vissuto di ognuno di loro, messo in scena attraverso i colori sgargianti del cinema di genere italiano, i simbolismi retrò dei film d'avanguardia, la magia e l'atmosfera di pellicole gotiche d'antan.

Un tuffo in una storia alternativa del cinema alla ricerca della libertà di sguardo, ma anche un affondo sulla percezione dei rapporti ai tempi 2.0: mediati, virtualizzati, stilizzati, impossibili, come un orgia (o un amour fou) che non troverà mai l'abbraccio in cui compiersi.

Il tuo esordio è stato subito segnalato da riviste importanti come i Cahiers du Cinéma, ma il tuo percorso è diverso da altri giovani protagonisti della scena francese. Come sei arrivato alla regia?

Ho iniziato un po' per caso a scrivere di cinema, non per delle riviste specializzate ma per giornali di larga diffusione come Max, Tetou e Vogue. Non ho mai preso troppo sul serio la mia attività di giornalista, mi divertivo. Tutto qui. Dal 2005 ho iniziato a fare dei cortometraggi, ma non ho frequentato una “scuola di cinema”, diciamo che provengo più da studi teorici: ero alla Sorbona-Paris 1, dove ho avuto una professoressa eccezionale, Nicole Brenez. Grazie a lei ho scoperto una storia del cinema sperimentale, d'avanguardia, da Ejenstein a Godard; ho seguito anche la sua attività curatoriale, ero affascinato dall'idea di collage: i suoi programmi avvicinano film diversi, spesso eterogenei, facendo scaturire delle nuove letture e nuove energie. Mi piaceva enormemente.

Nel film è presente questa idea di collage, di insieme di suggestioni e immaginari che vanno formando una nuova opera. Da dove sei partito nell'idearlo?

Non è facile dirlo: i miei corti sono nati da spunti diversi, talvolta un testo, altre da un'immagine, oppure una canzone. Questa volta sono partito dal sogno dei due ragazzi morti, poco a poco si sono delineati tutti i personaggi della storia, ma non mi era ancora chiara una partizione entro cui farli esistere… Ad un certo punto ho pensato che il modo più forte per riunirli potesse essere un'orgia: in quel periodo avevo da poco rivisto Il fascino discreto della borghesia di Louis Bunuel, che non è altro che una cena continuamente interrotta e differita. Ho pensato che sarebbe stato interessante farne una versione erotica, in cui compimento è continuamente procrastinato da qualcosa, in cui si fonde una dimensione fantasmatica e immaginifica.

Il film evoca il fantasma della giovinezza, quasi disincarnato dai corpi: da dove nasce questa tua idea che detta anche lo stile “astratto” del film?

Sicuramente da Bunuel e dal cinema che amo come spettatore, ma quando scrivo un film tendo ad allontanarmi dai miei riferimenti, a prenderne le distanze cercando una mia visione. Mi aiuta scrivere pensando ad attori che ho in testa (è il caso di Kate e Julie, in questo film), quando trovo una verità per i loro personaggi allora posso passare agli altri. Ciò che mi ha guidato è un'idea che mi ossessiona, quella della perdita della giovinezza o piuttosto dello sfumare dell'intensità dei sentimenti e degli ideali che si provano nell'adolescenza. Ho l'impressione di poter raggiungerli nuovamente soltanto attraverso il cinema: vorrei creare delle immagini e dei personaggi che possano ridonarmi sia come spettatore che come artista l'intensità perduta della giovinezza.

L'astrazione del film rimanda anche alla virtualità che caratterizza i rapporti contemporanei tra le persone. I tuoi personaggi si ritrovano con un fine estremamente corporale ma la loro essenza è quella dei fantasmi, la loro caratterizzazione ricorda i profili dei socialnetwork…

È una lettura interessante: in effetti quando scrivo, quando creo un film, penso sempre a una sorta di comunità immaginaria, come da bambino mettevo insieme le figurine di un album… Ovviamente le idee cambiano, si modellano su ciò che accade, sulle persone che incontro e decidono di sostenere il progetto, ma per me è fondamentale che durante le riprese del film nasca una nuova, piccola ma compatta comunità.

Quando ho iniziato a scrivere questo film, che è il mio primo lungometraggio, ho vissuto dei momenti difficili, forse come tutti sono arrivato a un punto della mia vita in cui mi sono accorto del marasma in cui siamo immersi. Ne sono uscito con la convinzione che per resistere sia necessario (o almeno auspicabile) dare vita a delle comunità: una sorta di arca di Noè, in cui personaggi che sono stati maltrattati dalla vita o che non riescono ad affrontarla possano trovare uno spazio in cui incontrarsi e amarsi, e così forse far fronte al caos e alla violenza della contemporaneità. Per me è la sola salvezza e perciò il finale del film emana dolcezza. Del resto è la violenza a dominare i nostri giorni, come un terribile fuori campo, e noi dobbiamo trovare una maniera per resistere. Forse il mio pensiero è utopia, ma ritengo che il cinema per me sia una magnifica utopia.

Il sogno romantico che segna la parte finale del film non può non far pensare al cinema di Garrell, ma come ti poni di fronte a un mondo che ha ormai perso la sfera politica?

Oggi abbiamo perso la frontalità della politica, Garrell poteva ancora mettere in scena questa dimensione, oggi trovo che il gesto di filmare, di scegliere di realizzare con mille avversità un film come questo, sia un atto politico. L'unico forse che mi è dato di compiere. Poi ovviamente non nascondo di essere stato estremamente influenzato dal cinema di Garrell: quando ero adolescente non riuscivo a vedere i suoi film (abitavo a Antibes, non certo un posto dove c'erano i cinema d'essai), ne ero venuto a conoscenza leggendo le riviste e anche solo i titoli dei film (La cicatrice intériore, Le Lit de la vierge) e qualche immagine mi facevano desiderare di poterli vedere… tutto traspirava amore nei suoi film… Quando mi capitò di andare a Parigi acquistai la colonna sonora di Le Berceau de cristal, affidata a Ash Ra Tempel, e al mio ritorno a casa ascoltandola immaginai come dovesse essere il film, si può dire che lo sognai… Insomma mi piace molto se mi si accosta a Garrell, anche se Garrell è molto etero, forse potrei essere un Garrell queer! (ride). Scherzi a parte, quello che più mi ha influenzato della sua pratica è la libertà di filmmare i volti delle attrici, volti come paesaggi, mi affascina estremamente. Anche se non ho mai pensato ai suoi film durante la fase di scrittura o di riprese, l'attenzione ai volti delle attrici deriva sicuramente dal suo cinema. E sì, anche per me sono le donne, i loro volti così misteriosi e al contempo così fotogenici a catturare la mia attenzione.

Non è molto queer…

Ora che ci rifletto in effetti no. (Un attimo di silenzio). Posso ipotizzare derivi dalla mia educazione al cinema, che è passata attraverso una serie di registi che sublimano l'immagine della donna: da De Palma a Argento…

Questo accenno a Argento ci permette di ritornare al tuo film, in cui ogni personaggio è descritto attraverso una sorta di sogno, rappresentato con diversi stili del cinema. Gli scenari evocano soprattutto autori che solitamente sono relegati alla “serie B”: da Bava a Rollin.

Non mi piacciono le distinzioni, soprattutto perchè essendo figlio della programmazione televisiva ho incontrato il cinema senza troppi filtri, seguendo le opere che colpivano la mia immaginazione e la mia sensibilità. Mi piace il gusto del grottesco. Molti di questi film partono da trame simili ed estremamente banali, ma sono proprio questi schematismi a rendere possibile la sperimentazione, molto più ingessata in film dal budget e dalle ambizioni più alte. Amo la libertà quando la vedo nei film: sono cresciuto con La5 di Berlusconi, in cui spesso trasmettevano i telefilm di Lamberto Bava (la serie Brivido giallo), forse rivisti oggi non sono molto interessanti ma allora mi creavano una sorta di dipendenza. Ero un “figlio dell'orrore” e trovo che alcuni film di Jean Rollin e di Lucio Fulci, ad esempio, contengano delle sequenze malate ma anche delle vere e proprie epifanie cinematografiche. Ad esempio l'inizio de Una lucertola con la pelle di donna, in cui Florinda Bolkan si muove sinuosa al rallenti con le musiche debordanti e estremamente sensuali di Ennio Morricone.

In altre parole, il tuo film ripercorre attraverso i sogni dei personaggi una sorta di storia alternativa del cinema: da Maya Deren a Garrell.

Devo dire che quando ho scritto le sequenze oniriche non avevo in mente dei precisi riferimenti cinematografici, ma quando sono arrivato sul set e ho dovuto dare dei colori alle mie parole, allora sono arrivati i film. E in effetti per la sequenza della morte ho portato Meshes of the Afternoon di Maya Deren, per il colore blu che domina la seconda parte Zoo Zéro di Alain Fleischer. É come se a un certo punto avessi sentito il bisogno di nutrire la parte artistica del set, soprattutto il direttore della fotografia, con le mie visioni, che arrivano certamente da un cinema alternativo, ma non soltanto. Ad esempio ho mostrato sia i film di Alain Robbe-Grillet che una pellicola che amo moltissimo: Gli occhi del parco (1980) con Bette Davis.

Ora abbiamo puntato l'attenzione sul cinema, ma più in genereale ogni tuo personaggio emerge più che nell'interazione con gli altri, nel suo gusto o nel suo stile: basti pensare alla trovata del jube-boxe che leggendo la mano ad ogni invitato elebora una compilation per la scena di presentazione.

É il mio modo di trasfigurare gli affetti, ogni musica, ogni canzone è l'espressione dei sentimenti dei personaggi. Volevo che il loro vissuto fosse portato da un tema musicale, su questo ho lavorato con mio padre che ha elaborato la colonna sonora del film. La musica è sempre stata così importante nei miei precedenti cortometraggi, che l'idea della macchina è arrivata fin dall'inizio: era così bello pensare a uno strumento che tramutasse i sentimenti più profondi del proprio vissuto in canzoni. E poi devo dire che anche se abbiamo parlato a lungo di cinema, molto spesso è dalla musica che ho tratto l'idea portante dei miei film: lavoro attorno all'emozione che mi arriva attraverso una canzone e associo immagini, personaggi e storie fino a formare una sorta di puzzle improbabile.

Nella scena finale sulla spiaggia c'è un montaggio alternato che lega interno e esterno, sogno e realtà. Un espediente dal forte impatto che ci costringe a fare i conti con l'altrove, ma che restituisce anche un senso tragico, di eroi che non riesco ad agire.

Non ci ho pensato mentre scrivevo il film… In effetti siamo in una situazione tragica, ma per me agire nel sogno o nella realtà è la stessa cosa. Può essere che il film contenga questa idea, anche perchè sono sempre stato convinto di appartenere a una generazione impotente, non siamo molto attivi dal punto di vista politico: sia le persone più grandi di me, ma anche i giovanissimi, sono più forti e rivendicativi, e anche più impegnati politicamente, noi siamo impotenti. Il film traduce questo: l'azione arriva nel sogno, è uno scacco nei confronti della realtà del mondo.

Ci sarebbero ancora molti punti da approfondire, dall'uso fantasmatico del giovane figlio di Delon alla presenza massiccia di una star più popolare come Cantona.

Cantona mi piace, come personaggio pubblico che si mette alla prova, che osa… quando l'ho incontrato mi ha subito colpito la tristezza del suo sguardo ed ho pensato che la sfida fosse riuscire a restituire questa melanconia. Mentre per quanto riguarda il figlio di Delon, sicuramente mi interessava questa sua somiglianza con il padre. Spero comunque che il mio film non sia unicamente un'opera per cinefili, anche se quello che mi appassiona è esplorare la mitologia del cinema. Ma del resto tutto ormai è stato filtrato dal cinema e sarebbe stupido non farci i conti.