Una quantità impressionante di cortometraggi concentrati in un cinema multisala di una cittadina tedesca piuttosto anonima, questo in poche parole è il Kurzfilmtage di Oberhausen: predomina un pubblico internazionale di distributori e curatori, provenienti dal mondo del cinema e, sempre più, da quello dell’arte contemporanea, ma anche la partecipazione locale è garantita da concorsi nazionali e regionali, nonché un’ottima e articolata sezione per bambini. Impossibile sintetizzare i titoli del concorso internazionale (i premiati, confesso, li ho puntualmente mancati), ma alcune tra le cose più interessanti si sono già viste altrove, come il poema alchemico che David Gatten ha dedicato al filosofo della natura Robert Boyle (By Pain and Rhyme and Arabesques of Foraging), l’inquietante tiaso iniziatico diretto da Athina Tsangari in The Capsule, le enigmatiche riflessioni di Jesse McLean in The Invisible World, che interroga il destino degli oggetti al di là della nostra esistenza, accostando le memorie di un’accumulatrice compulsiva a found footage da YouTube.

Uno dei fulcri della programmazione è la sezione tematica: l’anno scorso era dedicata a un ritorno alle origini del Nuovo Cinema Tedesco, per celebrare i celebrare i cinquant’anni del Manifesto qui proclamato nel 1962; quest’anno si tenta invece di mappare la scivolosa superficie dell’attualità, affrontando la questione del “cinema dopo internet”. La chiave interpretativa scelta dalla giovane curatrice Shamma Khanna è quella della Flatness, che sembra recuperare un’allusione alla “piattezza” della pittura modernista per applicarla all’economia simulacrale delle immagini in rete, ma chiama in causa anche (e un po’ a casaccio) l’estetica della sottrazione di Bresson: dunque un collasso della profondità rappresentativa su una superficie che rimanda solo a se stessa, un’immagine sempre più oggetto e sempre più senza oggetto, ma anche un’immagine “povera”, come quella difesa da Hito Steyerl in un articolo di qualche anno fa, che inneggiava all’invasione di un lumpenproletariat visuale, stigmatizzato da glitch e compressioni, anonimo, veloce, virale. Del resto, l’iper-circolazione di cui si alimenta la rete porta con sé la seduzione e il rischio di una possibilità di riferimento tanto illimitata quanto superficiale e questa rassegna sembra esserne un esempio sintomatico, finendo per soggiacere a ciò che vorrebbe descrivere e per accogliere un po’ di tutto: il feedback claustrofobico vissuto da Nancy Holt in Boomerang di Richard Serra (1974), i fotogrammi epilettici in Pièce Touché di Martin Arnold (1990), un poema elettronico di Stan Van der Beek e un caleidoscopio digitale di Murata Takeshi, la sensuale dissezione dello schermo in un video di Terayama Shuji (An Attempt to Describe the Measure of a Man, 1977) e i ritagli digitali che restano ‘incollati al movimento della videocamera di Jason Dungan in Flows (2013). E ancora i quadretti pubblicitari raggelati di Rachel Reupke (Wine and Spirits, 2013) e i fondali posticci di Lancelot du Lac di Eric Rohmer, la calcolata ironia con cui John Smith chiuso nella sua stanza d’albergo in Dirty Pictures (2007) trasforma il suo rimuginare in una riflessione sulla questione palestinese e l’impietosa analisi condotta da Harun Farocki, nel suo Ein neues Produkt (2013), sul linguaggio neocapitalista e sugli imperativi della flessibilità, che ingabbia i lavoratori in uno spazio-tempo amorfo. Insomma non mancano pezzi e riferimenti interessanti, ma ad ogni programma l’impressione è che l’idea di “flatness” diventi un passepartout sempre più comprensivo e sempre più lasso; impressione confermata dal senso di imbarazzo e disappunto che aleggia durante le introduzioni e i Q&A con gli artisti, che avrebbero potuto diventare il punto forte di una rassegna propositiva (e anche provocatoria) come questa vorrebbe essere, tanto più quando uno dei propositi dichiarati riguarda la trasposizione di un’esperienza ormai legata alla visione privata in rete nel contesto collettivo di una sala – del resto uno degli aspetti più stimolanti di Oberhausen è proprio questa fedeltà alla sala, dove lavori spesso pensati per altri spazi funzionano diversamente, a volte con risvolti interessanti. Ma appunto, come ricorda Thomas Elsaesser durante un talk intitolato “What was cinema”, forse bisognerebbe chiedersi non “cosa era” (e dunque cosa è oggi) il cinema, ma “quando” e “dove” è, quali sono e come variano le condizioni della sua esperienza. Questioni su cui questa sezione non sembra avere non dico delle risposte, ma nemmeno degli spunti originali e stimolanti.

Anche col rischio di atteggiarsi a nostalgici della celluloide, non si può fare a meno di contrapporre all’evanescenza di questa rassegna un po’ anemica, la passione sfacciatamente fisica per la pellicola che caratterizza i due profili più emozionanti e consistenti di questa edizione, quelli di Luther Price e di Helga Fanderl, accomunati forse soltanto dalla loro devozione al fragile corpo del Super 8, pelle sensibile su cui possono materializzarsi gli incantevoli arabeschi di Fanderl o le dolorose abrasioni di Price. I film dell’artista americano portano le stigmate di una vita bruciante, che urla dalla paralisi di pose forzate e gesti ripetuti, di nastri gracchianti inceppati, interni domestici mummificati, filmini hard-core sminuzzati in una poltiglia di corpi, che si dibattono tra estasi e tormento nel sulfureo Sodom (del 1994 la versione a due proiettori qui proposta), opera maledetta che non ha giovato alla sua popolarità, nella comunità gay come altrove. Dopo una formazione divisa tra performance e scultura, alla fine degli anni Ottanta Price ha cominciato a utilizzare il film come uno strumento di autopsia, che scandaglia nel passato tentando disperatamente di salvarne un’immagine, come nel ritratto doloroso e trasfigurato della madre (Mother, 2002), ma registrandone anche i detriti, le cicatrici. Un mondo claustrofobico, pervaso da un senso di mortalità e corruzione che si trasmette alla materia stessa del film, sottoposta a ogni genere di procedimento e vessazione, anche sepolta a marcire nel giardino di casa (la serie After the Garden, 2007). Da qualche tempo i frammenti di pellicola screpolati, cosparsi di grumi sanguinolenti e insetti spiaccicati, sono montati anche su slide e proiettati nella loro crudezza, monumenti luminosi a un medium in decomposizione. Ma a volte è il corpo stesso di Price a esibirsi in un cerimoniale di autodenigrazione, come nel disturbante Clown (1991), in cui impersona una serie di pagliacci selvaggi e dementi. Difficile capire se ci si trovi di fronte a una seduta di autoterapia o a una séance demoniaca, ma è proprio in questa irriverente ambiguità che i suoi film lasciano il segno.

Ci si perde volentieri nella grana dei piccoli film di Helga Fanderl, che scorrono nella manciata di minuti concessa dal nastro del Super 8, rigorosamente montati in macchina: un flusso che sommerge per la bellezza e la quantità di pellicole che la filmmaker tedesca ha assemblato (come è solita fare, creando ordini sempre diversi tra i suoi materiali) per i due programmi a lei dedicati. Una tessitura tattile, fatta di aggiustamenti e vibrazioni carezzevoli, compone bozzetti di stupefacente immediatezza e precisione: spighe di grano ondeggianti, giochi di bambini in un parco, riflessi di un gasometro in uno specchio d’acqua, il manto di un leopardo, un orso bianco, fuochi artificiali, ghiacciai e cascate. La sua è una “camera-stylo” che non si limita a ritrarre, ma estrae ipnotici motivi visuali dalla trama di situazioni quotidiane, conservandone tutta la sostanza e il respiro, costruendo il proprio sguardo a piccoli tratti, delicatamente strappati all’epidermide del reale: più che a una “stylo”, viene quasi da pensare a un retino finissimo, capace di catturare, anziché farfalle, corpuscoli d’immagine vivi e svolazzanti, come gli eidola che, da Democrito a Balzac, riconducono la visione al momento di un impalpabile contatto tra i corpi.

Un altro profilo recupera una pagina trascurata del cinema jugoslavo, il gruppo croato dei cosiddetti “Hitchcockiani” (Petar Krelja, Krsto Papič, Zoran Tadič), meno noti e meno estremi dei colleghi serbi dell’Onda nera, ma notevoli soprattutto per l’approccio diretto di alcuni documentari, che offrono un’antropologia sottile e ironica dell’epoca titina. Tra i profili più contemporanei, oltre a quello dedicato a Laure Prouvost, giovane artista candidata al Turner Prize di quest’anno, che presenta una selezione dei suoi video simpaticamente disfunzionali, sgangherati e astutamente ammiccanti, da Singapore arriva una retrospettiva dei corti di Ho Tzu Nyen, costruttore di concretissime allucinazioni, in bilico tra ermetismo e ironia, come il crescendo apocalittico di visioni e suoni che pervade le stanze di un edificio assorbendo i loro corpulenti abitanti in The Cloud of Unknowing (2011). Pensati spesso per l’installazione, i lavori di Ho hanno un senso cristallino della struttura, a volte serrata, come nel loop rarefatto e abbacinante di NEWTON (2009) o del suo doppio TESLA (2013), entrambi centrati sul suo attore feticcio, un enorme albino; ma anche un lavoro dilatato come EARTH (2009), tableau vivant barocco e cadaverico, che scandaglia un ammasso di corpi sopravvissuti o travolti da un disastro sconosciuto, diventa un’esperienza interessante in una sala contagiata dalla sua atmosfera narcolettica. Curioso anche osservare come, nei primi lavori, Ho abusi di un’astrazione a base di chroma key, laddove i successivi sembrano sprofondare nel peso di corpi eccessivi, debordanti: Utama: Every Name in History is I è una schizoide storia della fondazione di Singapore, a cui si aggiunge una serie di quattro episodi dedicati alle figure più significative dell’arte contemporanea del Paese, che sembrano una specie di versione lisergica e criticamente acuminata di una trasmissione educational.

Da segnalare infine i programmi dedicati alle strategie di restauro e valorizzazione degli archivi delle cineteche: la Cinémathèque Française presenta i film di Albert Pierru, che negli anni Cinquanta, folgorato da Norman McLaren, cominciò dipingere a mano gioiose pellicole musicali. Purtroppo perdo la presentazione del progetto Radical Light che il Pacific Film Archive ha dedicato alla storia dell’avanguardia nell’area di San Francisco, ma non l’intelligente lavoro di restauro della Kinoteca Slovenska sui primi saggi in super8 di Karpo Godina, la cui grana è esaltata dal gonfiaggio a 35mm, mentre le ferite del tempo sul corpo della pellicola sono conservate come parte integrante della vita del film.