Una schiera purtroppo sempre crescente di ingenui è convinta (o vuole convincersi) che il cinema di Malick faccia affidamento su qualche non meglio precisato “afflato cosmico”. Molti di essi lo ritenevano ancora accettabile ai tempi de La sottile linea rossa, abbozzavano un distratto consenso davanti a The New World – Il nuovo mondo, e lamentavano in The Tree of Life un guazzabuglio metafisico. Li si lasci stare: stanno bene dove sono, prigionieri del chiacchiericcio mediatico che scambiano per il loro Cielo senza nemmeno rendersene conto (anzi, spesso convinti di starne fuori). 

La verità, semplice, è che dove c'è divaricazione violenta tra il linguaggio e la sensazione non può sussistere alcuna ricomposizione totalizzante. E tutto il Malick riemerso dopo il suo ventennale silenzio lavora, ogni volta in modo differente, su questa frattura che ne fa un cinema profondamente ed evidentemente a-cosmico. Se The Tree of Life compiva il lungo viaggio fino alle origini della vita e ritorno, non era per dipingere un Tutto a cui tutto apparterrebbe, ma per ricordarci che l'Origine è inattingibile perché se da un lato è sempre qui (è quanto chiamiamo “presente”), dall'altro è un “qui” che non cessa di spostarsi e di spiazzarci.
 
A maggior ragione, a-cosmico è To the Wonder, in cui il linguaggio stesso, con quelle (almeno) cinque lingue parlate dalle voci over, non è mai “il linguaggio”, ma il segno della caduta babelica. Nulla è al riparo dalla Caduta, centro assoluto del film – nemmeno il linguaggio. Alla gioia amorosa segue sempre, a corto raggio, l'ombra della disillusione, della lontananza, dell'estraneità. Anzi: anche nei passaggi più ebbri, Malick infila quasi sempre brevi inserti in cui i personaggi si guardano dubbiosi, si allontanano, si evitano. L'arco tracciato dal film è infatti quello in cui al positivo (l'idillio parigino tra Neil e l'ucraina Marina, dopo il quale lei si trasferisce dall'uomo nel Midwest) segue prima il negativo (il visto di Marina scade e questa deve tornare in Europa, mentre Neil trova un'altra), e poi un tentativo fallito di ripositivizzare il negativo (Marina torna in America, sposa Neil ma finisce per tradirlo e per tornare nuovamente in Europa). Non c'è verso di redimere e raddrizzare la caduta: il parroco in crisi di vocazione, Dio, non lo troverà mai, se non nelle fattezze di luoghi e persone che da Dio sono stati visibilmente abbandonati. Allo stesso modo, più di una volta Malick monta in una medesima, travolgente continuità le acque limpide del lago e quelle marce, inquinate degli scarichi tossici. 
 
 
Ogni istante del film segue, di fatto, questo arco. Lontano dalle acrobazie e dalle ellissi sperticate di The Tree Life, che gettavano il nostro sguardo da un punto a uno completamente diverso, da un momento all'altro, dentro a uno spazio davvero a 360°, l'assetto visivo di To the Wonder sembra continuamente rispondere alla domanda “dove siamo quando siamo qui?” posta dalla voce over di Marina. Al solito sbilanciata sulla flagranza sensoriale del qui-ed-ora, la cinepresa tende ora molto più a “centrarsi” sulla figura umana, confinando gli “svolazzi” più spericolati a rari momenti di estasi che subito ricadono sulla terra. Lo spaesamento continuo provocato dal montaggio tende insomma a convergere verso un centro di gravità, la figura umana, che fa un po' da perno al muoversi “antropomorfo” dell'obiettivo. Intorno ad esso si organizzano stacchi in avvicinamento e in allontanamento che danno corpo alla sensazione di discontinuità che scuote dall'interno lo “stare qui”, dentro al tempo e in movimento, su cui il cinema di Malick si appoggia a corpo morto. In questo sistema di stacchi, degnissimo di una sintassi musicale, si mescolano molto spesso piani in movimento (della macchina da presa o degli attori) e piani statici. Il risultato è, appunto, quello di una mancata sintesi tra stasi e movimento, mancata perché alla fine vince sempre il movimento, grazie alla travolgente tessitura imbastita da Malick. Ci si illude di stare “qui”, ma in realtà si sta già cadendo. 
 
Sull'onnipotenza del tempo (e dunque della distruzione), To the Wonder si sofferma già nei primissimi minuti, marcando stretto i rivoli d'acqua della marea montante intorno al Mont St. Michel. Eppure, l'ultima immagine è una quieta inquadratura, da lontano, del monte ormai compiutamente circondato dalle acque (immagine inversa di quella evocata immediatamente dopo i titoli di testa dalla voce over di Marina: la scintilla che subito cade nel fuoco da cui proviene). Non poteva, questo film fulgidamente cattolico, che chiudersi con la resurrezione: per nulla sovrannaturale, essa consiste invece nel residuo assolutamente terreno che rimane in superficie al netto dell'onnipotenza del tempo. Questo residuo si chiama apparenza. Se è vero che non c'è redenzione al di là della caduta, non per questo non c'è redenzione tout court. La redenzione è lì, è la caduta stessa, nella forma della propria immagine. Il tempo/movimento, che tutto danna e corrode, si redime in forma di danza. Il sole, così assiduamente presente all'interno delle inquadrature, sembra essere il medesimo, tanto quando scende quanto quando sale. Il movimento vorticoso che Malick insegue e ricrea rende letteralmente indifferente che ci si stia innalzando oppure si stia sprofondando. La salvezza è nulla più che la contemplazione della dannazione in atto. “Lo vedi quella linea nel cielo?”, dice Neil alla figlia di Marina, “è l'ombra della Terra sull'atmosfera”. Non c'è alcun Cielo: solo la Terra diversamente vista.
 
Tornando al Cielo mediatico accennato all'inizio: è probabile, invero, che quel Cielo ci ipnotizzi tutti. E a ben guardare, oggi, quel Cielo ci sta dicendo sempre e solo la medesima cosa: “stiamo cadendo, stiamo cadendo, stiamo cadendo…”. Ma c'è caduta e caduta, e soprattutto c'è modo e modo di guardare la caduta: facendosene ipnotizzare e paralizzare, o trasfigurandola in danza.
 
 
To the Wonder, regia di Terrence Malick, USA 2012, 112'.