Visione spiazzante e folgorante della 70esima Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Follia e amore ('Til Madness Do Us Part) di Wang Bing ci immerge nella vita quotidiana di alcuni degenti di una clinica psichiatrica dello Yunnan: uomini dallo sguardo spento, i corpi nervosi dentro abiti lacerati, voci lamentose che procedono per nenie e frasi interrotte. Gli internati trascorrono le loro giornate nelle brande sporche, avvolti in lenzuola che li trasformano in larve: ogni stanza affaccia su un ballatoio, spazio comune, luogo del potere e dell'azione impossibile. Lungo il corridoio, girone infernale che, non a caso, è sfruttato all'imbrunire e nelle lunghe notti, si svolge il rito giornaliero della somministrazione delle medicine, violento e assoluto, reiterato nella sua efficiente banalità contro cui il regista non può nulla se non lasciarci queste riprese testimoniali. D'altra parte, sul ballatoio inizia anche la speranza che qualcosa possa resistere, come la corsa folle di un paziente inseguito dalla telecamera nelle sue ronde scatenate attorno a quel cerchio che lo esclude dalla vita e dalla libertà. Proprio alla ricerca di questi lacerti di umanità si dirige lo sguardo di Wang Bing, che modula la denuncia verso uno stato di detenzione (pericolosamente simile ai campi di lavoro sotto Mao, raccontati nel suo film di finzione La fossa) con la sorprendente resistenza dell'umano, con i suoi desideri e il suo bisogno di ricevere e donare amore. In un film di quasi quattro ore, progressivamente fa capolino tra le mura della segregazione anche la società, una moglie vendicativa e un ragazzo timido, e poi arriva persino il mondo, nell'insperata uscita di uno dei pazienti, che tornando al paese si ritroverà in uno stato di alienzione, rilanciando la questione da una dimensione politica a una ontologica. Un uomo di perde all'orizzonte, senza che lo si possa accompagnare nell'oscurità che sta attraversando: la solitudine della condizione umana, dettata dalla diversità o da un piccolo atto di rivolta contro il sistema (come svela il cartello finale del film), si informa nella precaria immagine digitale, imperfetta e tremolante che è ormai la marca di questo anomalo cineasta. Preciso e lancinante nel restituirci un ritratto della Cina come universo concentrazionario, imperfetto e aperto nel saper accogliere la bellezza che si conserva nei più semplici gesti umani.

 

Quando ha scelto di girare un film sui manicomi in Cina? E come è riuscito ad ottenere i permessi per realizzarlo?

La prima volta che ho messo piede in un ospedale psichiatrico risale a dieci anni fa, gironzolavo per Pechino e mi sono imbattuto in una struttura simile. Ho subito pensato che mi sarebbe piaciuto girare un film, ma il rifiuto totale a farmi entrare con una telecamera mi ha fatto procrastinare il progetto fino ad oggi. Quello che avevo visto in quel lontano pomeriggio continuava a tornarmi in mente: era una storia che dovevo raccontare. Nove anni dopo, un mio amico dello Yunnan (a cui avevo raccontato questa idea), mi chiama per dirmi che ha trovato un modo di farmi entrare in una struttura simile. Infatti conosceva un medico che era stato trasferito da poco nella clinica: una fortuna perchè soltanto una persona del genere avrebbe potuto farci entrare con una telecamera. Una doppia fortuna perchè quel medico era una persona sensibile, capace di comprendere il mio progetto, era anche lui allibito della condizione in cui versavano i pazienti e ci ha incoraggiato nel portare a termine il documentario per dare visibilità a questa situazione. Nel nostro primo incontro è stato il medico a chiarirmi l'importanza del progetto, che avevo in mente da tanti anni.

Il film si apre subito a una dimensione simbolica potente, evocata fin dall'architettura del ricovero: richiama alla memoria un girone infernale. Ma è estremamente potente anche come immagine-mondo: un cortile su cui affacciano tante finestre, che nascondo e svelano quello che accade. La scelta del luogo dunque non è stata cercata?

Come ho detto sono arrivato lì per via del medico, ma devo dire che questa struttura architettonica è identica in tutta la Cina. Ci sono due tipi di posti in cui vengono tenuti i pazienti instabili mentalmente: i primi sono degli ospedali, poco interessanti come luoghi, i secondi sono queste cliniche, che grazie alla loro pianta diventano dei luoghi ideali per rappresentare uno stato di reclusione e sottomissione.

Follia e amore, il film segue questo binomio: avrebbe subito scommesso che anche in questa situazione in cui gli uomini sono ridotti a larve resista una grande umanità?

Il titolo, che ho scelto io nella versione cinese (mentre ho affidato ad altri la traduzione inglese), è la mia ipotesi di partenza: anche nella follia resiste l'amore, il nostro sentimento più alto. Non vorrei infatti che si interpretasse l'amore come nell'accezione comune, l'amore tra un uomo e una donna, e ci terrei a chiarire che quel sentimento che appare nel finale tra due uomini non è un rapporto omosessuale bensì l'amore nella sua accezione più essenziale, il contatto fisico con l'altro. Gli uomini che sono internati da anni in queste cliniche ricercano qualcuno da stringere, qualcuno con cui dormire: hanno bisogno di uscire dall'alienazione attraverso un rapporto umano.

Entrare in una clinica con una telecamera, implica trovare un rapporto con la realtà difficile che si ha di fronte. Come è stata questa ricerca della propria posizione?

Lo spazio all'interno della clinica era estremamente ristretto e all'inizio mi sono trovato a disagio: non sapevo che distanza tenere, quasi fosse il luogo a dettarmi delle inquadrature e non io a sceglierle. L'ambiente era affollato, tra degenti e infermieri, noi ci trovavamo sempre persone da tutte le parti, la confusione non mi aiutava a trovare un'idea di cinema e ho avuto paura. Soltanto dopo dieci giorni ho iniziato ad ambientarmi, a trovare il giusto modo per stare il quel posto, la maniera per interagire con le persone. Da quel momento ho iniziato a scegliere i miei personaggi.

Come documentarista ho chiaro che è la mia presenza a costruire il film, paradossalmente trovo che il segno dell'autore sia più marcato nel cinema del reale che non nella finzione. Al contempo, quando giro i miei film, cerco di non disturbare la realtà, non mi piace intralciarla, provocarla o interromperla: alcune reazioni delle persone che riprendo possono essere causate dalla mia presenza, ma cerco di andare sempre aldilà. Per questo uso delle inquadrature lunghe, in cui poco a poco chi mi è davanti dimentica la mia presenza ed è spinto a superare il suo essere un personaggio. Quando ho iniziato a girare Follia e amore pensavo potesse durare 150 minuti, poi mi sono reso conto che questa storia aveva bisogno di un tempo più ampio per far entrare gli spettatori nella particolare dimensione di queste cliniche e, in effetti, al montaggio sono arrivato a 210 minuti.

Quale rapporto si è istaurato con i pazienti?

Ho scelto quelli che erano più incuriositi dalla mia presenza nella clinica, con alcuni di loro si è istaurato un rapporto umano molto forte. Perlopiù mi vedevano come uno sconosciuto, venuto da Pechino. All'inizio alcuni avevano un po' di timore nei nostri confronti, altri sembravano poco interessati a quello che stavamo facendo: solo un paziente ci ha attaccato in maniera aggressiva mentre lo riprendevamo, il mio operatore è rimasto ferito ma l'uomo si è subito pentito del suo gesto ed è venuto a chiederci scusa (l'episodio non è inserito nel film, n.d.r.). Poi siamo diventati una presenza discreta, che si teneva alla giusta distanza per diventare invisibile.

Ha più volte parlato di “storia” da raccontare e in effetti l'uscita improvvisa di un paziente nella seconda parte del film offre una svolta drammatica potente.

Ho sperato fin dall'inizio che almeno un paziente venisse dimesso, c'erano delle buone possibilità che in tre mesi di nostra permanenza questa eventualità si verificasse. Ed, in effetti, così è stato. Per me l'uscita dalla clinica rappresentava una liberazione, andare incontro alla società, ritornare alla vita e agli affetti. Ma ho scoperto che la mia posizione era idealista. Quando il paziente è uscito, e noi lo abbiamo seguito, abbiamo dovuto costatare che la sua vita nel paese d'origine era totalmente priva di convivialità, la sua famiglia non lo aspettava e non ha avuto alcuna reazione quando lo ha visto arrivare. Lui trascorreva le sue giornate da solo, dormiva, leggeva, andava in giro. Era isolato nel mondo così come nella clinica. Mi sono sentito impotente: pensavo di poter trovare una facile via d'uscita alla storia che stavo raccontando e invece ho capito che dovevo tornare dentro quelle stanze sporche e cercare lì il mio finale.

Nel film è particolarmente sottolineata la figura umana colta in situazioni plastiche, che aprono un collegamento tra l'estetica filmica e la scultura, piuttosto che ad altre arti.

Per me il cinema è il materiale video che agisce su corpi e paesaggi, li informa cercando di renderne manifesta la loro bellezza. Questa mia convinzione è stata confermata nel mio soggiorno in manicomio: gli uomini, seppur ridotti a uno stato primordiale, resistono e sperano. I corpi sono spesso celati dai lenzuoli e dalle coperte, da vestiti sporchi e informi, eppure non perdono la propria umanità. Un momento magico nel film è quando uno dei degenti si mette a inseguire una mosca, si accorge che lo sto filmando e quindi continua in questa sua lotta contro l'insetto. Ma la mosca ormai è sparita, resta soltanto il suo gesto reiterato, così bello da sembrare una danza. Ho pensato che quell'uomo, distrutto nel fisico e nello spirito, stesse iscenando per me una recita, elegante e magnifica quanto il teatro kabuki. La magia del movimento, l'essenza della vita.

Difficile immaginare una diffusione in Cina di questo film, come arriverà al pubblico cinese?

Come tutti i miei film, Follia e amore sarà diffuso grazie a dvd pirata. È una maniera efficace per raggiungere un pubblico metropolitano, di tutte le età. In molti sostengono il mio lavoro e mi scrivono dopo aver visto i miei film. Questo mi spinge ad andare avanti: faccio film prima di tutto per la mia società, anche se è stato decisivo l'appoggio europeo per la diffusione del mio cinema.