1. Il conto della serva: un preambolo polemico

Da poche settimane “documentario” pare essere la parola d'ordine attorno alla quale va coagulandosi un dibattito critico che, complici i postumi veneziani, tenta di indicare vie di superamento all'apparentemente irreversibile stagnazione del cinema nazionale. Verrebbe da dire niente di nuovo sotto il sole, se a far da controcanto non ci fosse chi ritenga seriamente che selezionare due documentari in un concorso internazionale d'arte cinematografica possa dirsi una scelta coraggiosa e sperimentale. Eppure ogni spettatore attento ha potuto imbattersi nell'evidenza di una produzione che, persino nel contesto italiano, nell'ultimo quindicennio ha conosciuto una fioritura straordinaria.

Pure da una prospettiva accademica, il documentario italiano è felice vittima delle inquisizioni febbrili di un nutrito gruppo di studiosi che tra il Mediterraneo e l'Atlantico ne questiona la storia, le pratiche e gli influssi. Per la prima volta, fatti salvi alcuni lavori pionieristici della fine degli anni Ottanta, mentre negli Stati Uniti si è in pieno rethinking documentary (per citare il bel libro di Austin e de Jong), in Italia il documentario lo si inizia a pensare tanto intensamente che, come per il battelliere de L'Atalante, ci appare davanti gli occhi come una figura candida, disinvolta e gioiosa.

Tuttavia, all'appello manca qualcuno: la teoria. Il documentario sembrerebbe nascere dalla testa di Zeus, oppure dalle cineprese bramose di realtà di registi che osteggiano il cinema narrativo (sebbene segretamente vi aspirino), oppure, infine, dal sistema di premi ed incentivi che in tempi meno cupi ne promuovevano la produzione. D'altronde, a voler generalizzare in tono polemico, la teoria italiana vive nella chambre de bonne apparendo di tanto in tanto, sfuggente e sospetta, per lucidare gli ingranaggi della macchina-cinema. Con questo "From the Vault", allora, gettiamo le premesse per una sfida ambiziosa: stanare la serva dove è più introvabile e, al tempo stesso, dove sono più evidenti le tracce del suo passaggio, ossia nel documentario degli anni Trenta. Lo facciamo attraverso una selezione di quattro testi (di Vittorio Cardinali, Filippo Sacchi, Domenico Purificato e Jacopo Comin) non riconducibili né a dei teorici puri (trattasi rispettivamente di un cineamatore, un critico quotidianista, un pittore e un animatore culturale) né strictu sensu alla teoria vera e propria (gli stralci non provengono dai blasonati saggi di estetica impregnati di idealismo che collateralmente sfiorano il cinema ma da riviste tecniche, giovanili, letterarie e di critica cinematografica). Per gioco si potrebbe dire teoria involontaria. Ma, dopotutto, è l'oggetto stesso che impone questo gioco.

2. Del perché di tanta fatica

Il primo e più specifico carattere della teoria italiana del documentario degli anni Trenta è il celibato, il quale la distingue dalle coeve esperienze europee e nordamericane che fioriscono per iniziativa pubblica se non addirittura all'interno delle istituzioni. Il legame con prassi particolarmente vitali, come si vedrà oltre, si ferma a un livello superficiale, con la conseguenza che la teoria non si riproduce: non genera scuole, sul modello degli inglesi che si uniscono alla corte di John Grierson; non genera un discorso critico riconosciuto, come gli americani da Paul Rotha in giù; non genera un gioco di specchi con delle poetiche, arte di cui i sovietici erano maestri. La ragione, cosa che la nostra selezione potrebbe erroneamente lasciar intendere, non è il disinteresse degli intellettuali organici più in vista: al contrario, alcune delle pagine più rinomate dei vari Francesco Pasinetti, Luigi Chiarini ed Umberto Barbaro sono dedicate proprio all'estetica del documentario, spesso con una vis polemica e una verve degne del pamphlet. La ragione, ancora, non è nemmeno la scarsa incidenza del dibattito sulla cultura del tempo: in un paese che in quegli anni sta cercando una via nazionale (e nazionalista) alla cultura cinematografica, anzi, il documentario dialoga proficuamente con tutta una serie di pratiche artistiche e culturali che, nelle parole dei loro patrocinatori, dovrebbero condurre alla tanto millantata “estetica fascista”, il felicissimo punto di congiunzione tra le tensioni dell'avanguardia e quelle del realismo sotto l'egida della categoria del politico.

Quel che manca, in fin dei conti, è un collettore, qualcosa di simile a quello che la rivista “Cinema” sarà nel decennio successivo per il neorealismo. Per questa ragione, anzitutto, poco sopra ci riferiamo alle tracce della teoria, quasi come nella più classica detection story in cui con paradigma e metodo indiziario bisogna collazionare, ordinare e interpellare gli indizi per cavarne fuori un assassino – nel nostro caso una rimozione, nemmeno eccessivamente dolorosa. In termini operativi ciò significa far riferimento più che a una teoria, alle spore di un pensiero critico depositate tra riviste più o meno oscure nella forma di un dibattito, questo sì riconoscibilissimo e vitale. D'altra parte, la teoria che ci interessa non è una faccenda di arché o di specifico estetico, ma una prassi radicata, e per quanto possibile radicale, che permetta al cinema di ripensarsi diversamente. Anche per questo motivo, la storia che stiamo raccontando è tutta rivolta al presente.

3. Frontiere in fiamme, o dove nasce e fiorisce la competenza

Se il presente è il celibato, il passato è la pangenesi. La convergenza delle arti durante gli anni Trenta, infatti, consente di sistemare la teoria italiana del documentario all'interno di quel fittissimo e vivacissimo network che è stato il mondo delle avanguardie nazionali tra le due guerre, per giunta in una collocazione tutt'altro che defilata. Cosa comporta tutto ciò? Innanzitutto, prendere atto che una cultura d'avanguardia c'è ancora, agisce capillarmente, è “diffusa”: una diffusione che si misura nei termini di una penetrazione nella provincia. In secondo luogo, superare finalmente i passi falsi della generica “cultura fascista” per puntare verso la complessa e ricchissima articolazione della cultura italiana – tra spinte moderniste, avanguardiste e reazionarie, nazionali e transnazionali – negli anni tra le due guerre. Infine, alla luce di queste premesse, riconsiderarne la legittimazione politica nell'epoca del consenso al regime.

È il decennio in cui il futurismo si reinventa pragmatico, passando dalla teoria della “ricostruzione futurista dell’universo” a una progressiva materializzazione di “concreta e immediata praticabilità” quotidiana: nella sartoria e nella moda, nel cinema (il secondo manifesto cinematografico), nell'architettura, nelle scenografie e negli allestimenti, nella pubblicità. Gravitare intorno a questi campi significa, necessariamente, scontrarsi con altre “scuole” (surrealisti, astrattisti milanesi e comaschi, novecentisti in odor di neo-naturalismo, razionalisti, classicisti “novecenteschi” ecc.) in un panorama dagli schieramenti talmente fitti che appare inevitabile schierarsi più o meno dichiaratamente, più o meno coerentemente. Ma ciò che ci lega al dibattito sul documentario, non è tanto e soltanto l’appartenenza dei suoi protagonisti a questi schieramenti, quanto piuttosto l’evento fondamentale per la trasformazione dei discorsi sull’arte: il “ritorno del Reale” (così Ugo Ojetti dalle colonne del “Corriere della Sera” nel 1930) o come sintetizzarono i futuristi “la realtà sopravvenuta” (una realtà irrimediabilmente cambiata dopo lo shock della Prima guerra mondiale e il materializzarsi delle mutazioni della modernità). Si è avvinghiati in un intrico che va ben al di là del semplicistico “realismo di stato”: cultura d'avanguardia ed istituzioni si spendono in un confronto che fino alla fine non produrrà un vincitore – ci piace ricordare Marinetti, che in nome dell'avanguardia si scaglia a fine decennio contro la scongiurata operazione “arte degenerata” all'italiana – ma al limite una sintesi ibrida e multiforme. Per rileggere le tensioni sotterranee al dibattito sul documentario non si può partire da altro principio.

D'altronde, non si può nemmeno ignorare un corollario basilare: la politica culturale del regime durante gli anni che ci interessano passa da una politica di posizione a una politica di istituzioni dove il consenso si misura più pragmaticamente che ideologicamente. Ecco allora che i confini della teoria diventano opachi, le barriere porose. E se questo vale per il piano estetico, per quello produttivo tutto si gioca sull’importanza strategica e politica di una competenza tecnica maturata su un terreno di sperimentazione ideale come quello del documentario. Altrimenti detto, la competenza diventa il fattore decisivo per una legittimazione che si misura più sul piano della committenza (nei settori dell'industria, dell'istruzione, dell'urbanistica) che non su quello di un’adesione ideologica a dettami estetici più o meno chiaramente definiti. Il documentario è allora il terreno di sperimentazione tecnica privilegiata. Vogliamo aprirne le frontiere: l’esperienza del LUCE, la breve parentesi dei “Documentari CINES” e in coda di decennio l’avvio della INCOM non rappresentano che gli astri più brillanti di una galassia, istituzionale e non, che comprende il cinedilettantismo e le pratiche sperimentali di Cineguf (la sezione cinematografica dei Gruppi Universitari Fascisti), Cinegil (la sezione della Gioventù Italiana del Littorio, più “piccoli” dei guffini) e Opere Dopolavoristiche, le produzioni indipendenti nei campi del cinema industriale, della cinematografia scientifica, del cinema militare, del cinema turistico e del cinema etnografico e di molti altri settori foraggiati dalla competenza documentaria. Da questo punto di vista, la mappa stellare è ancora ad uno stadio primitivo: la vaghezza e l'incompletezza delle filmografie e il mancato reperimento delle pellicole reclamano un'operazione cartografica che vada oltre gli archivi istituzionali (parzialmente condotta in ambito di storia locale, per altro spesso con risultati notevolissimi).

A fronte di questo infinito, la politicizzazione si misura allora nella capacità di estensione (della fruizione e della sperimentazione pratica tra i giovani) e di centralizzazione (delle competenze all’interno di strutture che catalizzano le possibilità, le abilità, le conoscenze); per ciò che concerne i suoi esiti, l’investimento di tale competenza nella società civile è la soluzione più importante. E questo particolare ingresso in società è anche l’orizzonte verso cui tende la sperimentazione della competenza, ma non si tratta semplicemente dell’approdo al professionismo (cui molti per altro preferirono carriere lontane dal cinema).

L’esperienza del documentario diventa per i giovani lo spazio fisico e filosofico dell’incontro con la modernità (e con la maturità), nella costruzione complessa di uno sguardo sul reale, nel confronto con la tecnologia, nell’individuazione e nell’espressione della propria insoddisfazione per un cinema atrofizzato, per una cultura da rinnovare e per un fascismo non più così “rivoluzionario”.

4. Giovani – Realismo & Avanguardia

Insistiamo sulla cultura giovanile perché è proprio là che prolifica la teoria del documentario. Per effetto dell'intervento governativo, l’inizio del decennio segna la fioritura di una pletora di riviste giovanili indipendenti mentre quelle degli universitari guffini propagano ulteriormente il dibattito, riprendendo, approfondendo e riformulando questioni che gli stessi protagonisti portano sulle riviste adulte. Su queste pagine ci si sfida in punta di fioretto sulla natura del cinema “politico” e sul suo rapporto con il realismo, faccende curiosamente in sintonia perfetta col progetto politico del regime di una maggiore penetrazione nella provincia e nei territori più periferici: il “locale” diventa così lo spazio di elezione per la sperimentazione documentaria. Il racconto di ciò che si conosce da vicino pone le premesse per una cartografia dell’italianità che oltrepassi il pittoresco e si emancipi dal semplice reportage, trovando nelle cinematografie straniere modelli e riferimenti: il King Vidor di Our Daily Bread e The Crowd o il Flaherty di The Man of Aran garantiscono il giusto equilibrio verso una messa in scena del reale capace di esaltare la dimensione eroica del quotidiano. Tuttavia, ci è chiaro che ad ostinarci a cercare un’estetica precipuamente fascista nel documentario perderemmo di vista la varietà del fenomeno e, soprattutto, il campo dove si gioca la vera partita teorica: la dialettica tra realismo e avanguardia. Dialettica che vuol dire osmosi, non contrapposizione diretta. Ed è grazie a questa che la teoria non si sviluppa né per vie derivative né per contaminazioni eterodosse. Anzi, si embrica con forza nello scenario culturale nazionale: ne coglie gli snodi cruciali, porta a nuovi sviluppi la particolare declinazione del modernismo fascista, testimonia risolutamente l’integrazione della modernità in quella generazione che di lì a poco porterà il cinema italiano a forzare le traiettorie del cinema mondiale.

Un caso esemplare: Il Covo, cortometraggio del 1941 prodotto per celebrare la sede della Scuola di Mistica Fascista, ossia quel che si potrebbe considerare la cellula ideologica del regime. Intanto, la casa di produzione, la Dolomiti Film, è già di per sé uno dei casi più interessanti di investimento professionale di competenze di matrice Cineguf: gli universitari milanesi Luciano Emmer ed Enrico Gras ne sono tra i fondatori e principali animatori. L’occasione della committenza è il rinnovamento dell'edificio della scuola, già sede del “Popolo d'Italia” ai tempi della direzione Mussolini; per i giovani cineguffini si tratta di un obiettivo esplicitamente utilitaristico e promozionale: un inno al fascismo educatore. Dunque, dal punto di vista formale gli obiettivi della committenza si traducono in un realismo necessario perfettamente funzionale, nel rispetto di un'indessicalità con intenti illustrativi e persuasivi (la presentazione degli uffici rinnovati della scuola, la “geo-localizzazione” nel punto esatto di via Paolo da Cannobbio tramite un establishing shot perfettamente inserito nel sistema sintattico, il realismo delle immagini di guerra). Il tutto è però costruito con una sapienza editoriale che colpisce: viene privilegiata un struttura di frammenti e vertigini temporali in cui passato, presente e futuro si alternano seguendo un incedere ebbro contrappuntato da una stretta alternanza di figure spaziali (interno/esterno, alto/basso, orizzontale/verticale) che concorrono ad una forma sinfonica. La selezione musicale (che alterna movimenti sinfonici a rumori registrati accentuando la frammentazione) gioca al rialzo, sfruttando i pezzi in funzione persuasiva e al tempo stesso metaforica, e supporta un climax finale che porta inequivocabilmente i segni di quell'avanguardia francese e sovietica con cui i cineguffini si erano nutriti.

Dai grandi quotidiani agli organi dei gruppi universitari fascisti, fino ai periodici specializzati si leva un coro di inni che salutano il piccolo film come la tanto bramata sintesi del perfetto film fascista, un nuovo modello di documentario politico che possa rimpiazzare l'asfittico modello del LUCE. Con Il Covo troviamo un caso concreto della dialettica tra avanguardia e realismo, dell'espressione piena della competenza documentaria e dell’atto politico che la legittima. È il 1941 e finalmente si vedono i frutti maturi delle tensioni sotterranee che hanno percorso il decennio precedente.

5. Il fosco dilemma “narrazione o documento” finalmente risolto

Da una prospettiva squisitamente estetica, il documentario è un oggetto tignoso per la generazione di teorici di stretta osservanza crociana: nelle posizioni più avanzate, un drappello nutrito stava cercando di allargare le maglie del sistema elaborato dal filosofo napoletano per incastrarvi il cinema, a patto però di rinunciare alle componenti più legate alla natura indessicale dell'immagine. Per restituire alla faccenda tutto il suo fumo si potrebbe dire che il trastullo consista nel capovolgere l'idea che il cinema “riproduca” il reale per esaltare invece il momento in cui esso si dà come prodotto spirituale di una “intuizione lirica”. Sì, ma come? Giovanni Gentile, che pure parrebbe il più titolato per dare una risposta assennata, sostiene “il superamento o l'annullamento della tecnica” a favore dello “spettacolo”, buttando via il bambino con l'acqua sporca. Altri privilegiano di volta in volta il montaggio, l'autonomia dell'autore, l'arte della composizione, l'antinaturalismo e tutta una infinità di ragioni che suonano oggi, nella migliore delle ipotesi, come bizzarri passatempi da sfaccendati. Quel che ci riguarda è che chi riflette sul documentario non può non adeguarsi ai dogmi della vulgata crociana: ne consegue che la riflessione procede nella forma di una contraddanza pensosa tra le istanze del reale e quelle dell'estetica, come splendidamente dimostra l'articolo di Jacopo Comin che presentiamo. Se depurata da un linguaggio ampolloso e fatuo, la posizione dell'autore ci pare illuminante: il documentario, “fatto di cose concrete e solide”, è l'azione della realtà nella forma più semplice e normale, ma è pure la traduzione visiva di un significato che il regista scorge al di sotto della superficie delle cose. In sostanza, lascia intendere Comin, il documentario è uno sguardo e un'attitudine verso la realtà, e non di certo quel documento fotografico a cui gli idealisti guardano con orrore.

L'equivoco, d'altronde, non si regge su solide motivazioni estetiche, quanto piuttosto su un luogo comune ampiamente alimentato da una bizzarra ed imperitura concezione positivista. Persino uno spettatore tutt'altro che ingenuo come Filippo Sacchi, la prima penna del “Corriere della Sera” per tre decenni, nell'articolo che riportiamo lascia intendere che il potere di questi film risieda nella capacità di portare sotto gli occhi degli spettatori “gli aspetti e fenomeni più lontani”. Insomma, pare ovvio che il documentario sia in qualche misura sempre scientifico poiché si fonda su una concezione del reale come oggettività conoscibile e trasmissibile. Qui ciò che conta è esattamente la natura indessicale dell'immagine: la riproducibilità meccanica assicura che se qualcosa è avvenuto di fronte alla macchina da presa, questo sarà fedelmente riportato sullo schermo. Realismo ingenuo, forse – più probabilmente una fiducia incrollabile nell'immagine, un po' meno nel cinema. In compenso, l'aspetto affascinante che Sacchi mette in rilievo è la concezione del documentario come tecnologia di sapere, ovvero l'utilizzazione ottimale di una serie di tecniche (cinematografiche, retoriche, pedagogiche) che consentono di pensare il documentario per un verso come finestra sul mondo e per un altro come enciclopedia illustrata. Entrambe le sfumature non sono affatto innovative – basti pensare, per esempio, al progetto completamente dissennato de L'Archive de la Planète con cui ad inizio secolo Albert Kahn si proponeva di documentare la superficie del globo abitata e modificata dagli uomini – eppure qualche aspetto degno di nota lo si potrebbe sottolineare anche nella loro riproposizione tardiva. Innanzitutto, pensare il documentario in questi termini significa ancorarlo saldamente ai fenomeni contemporanei legati alla formazione della cultura di massa e dell'industria culturale, al centro quindi dei processi di modernizzazione a cui sopra si è accennato.

Nella congiunzione tra, parafrasando Bazin, teorici che credono nell'immagine e teorici che credono nella realtà si dispiegano alcuni delle riflessioni più incisive in rapporto al cinema di narrazione. In particolare, il rinnovato interesse per la geografia – sia come scoperta e riscoperta dell'Italia, sia come esplorazione geografica rinfocolata dagli impeti e dai fremiti del colonialismo – si traduce ben presto in un dibattito molto articolato sulla funzione del paesaggio nel film, alimentando attraverso temi e funzioni di chiara derivazione documentaristica quella crociata che va sotto il nome di “scoperta della realtà”. Sebbene patrocinata dal regime con intenti chiaramente nazionalistici ed auto-celebratori, il processo prende le mosse da un'operazione produttiva (la serie di documentari CINES) che, pur fallendo, ingenera un dibattito prima critico e poi teorico che trova nel paesaggio, ossia nella rivalutazione dell'Italia meno nota, una delle vie più fruttuose per uscire dall'impasse di un cinema irrigidito, posticcio e scolorito. Il celeberrimo numero speciale de “L'Italiano” del 1933, interamente dedicato al cinema, rappresenta per questo discorso un punto di non ritorno: Leo Longanesi, direttore della rivista ed intellettuale irrequietissimo, dopo aver pubblicato il più radicale atto di accusa immaginabile durante il fascismo – “la cinematografia italiana è un cadavere nella stiva di una nave in cammino” –, indica la via ai futuri cineasti nel ritorno per le strade, per le contrade, per il paese, con occhi continuamente nuovi. “Non si tratterebbe di semplici documentari, ma di trasportare sullo schermo certi aspetti della realtà bianca che sfugge al passante, e domina in ogni ora la vita degli uomini e delle cose”. Questa realtà bianca, per almeno un decennio, trova soltanto nella teoria del documentario, parzialmente nella pratica, il suo indispensabile sviluppo. Poi, a compimento di un percorso già profondamente tracciato e per più di un verso esaurito, arriva il neorealismo, un fenomeno che, dalla nostra prospettiva, ci appare tanto più necessario quanto equivocamente innovativo.

6. Echi, strabismi e altre complicanze di parallasse

Eppure non è nei rapporti col neorealismo che ci interessa affondare i denti, cosa che merita una premura e uno studio di altra caratura. Lo dichiaravamo come principio: la nostra storia è tutta rivolta al presente. Altrimenti detto, la selezione di interventi che proponiamo – e in generale la teoria che abbiamo tentato di abbozzare – in questa sede trova il proprio interesse nella possibilità di essere riarticolata alla luce delle questioni che il documentario ci pone oggi. In fin dei conti, si tratta di un esercizio di lettura strabica, poco o nulla giustificato metodologicamente, che punta a rintracciare nelle spire dei testi una molteplicità di suggestioni in dialogo tanto con le pratiche attuali quanto con gli scogli teorici del nostro panorama culturale. Bisogna però premettere che due fattori non autorizzano del tutto questa operazione: il carattere pienamente transnazionale del documentario contemporaneo – che, nonostante il provincialismo di fondo, è ormai una realtà niente affatto nazionale, ma che anzi vive e si rinvigorisce nel confronto con tecniche, metodi e prassi di esportazione – e lo scollamento totale tra teoria e pratica, la prima quasi completamente ammorbata dal solipsismo accademico e la seconda operante nel pieno disinteresse del mercato innanzitutto, del pubblico di conseguenza e delle istituzioni cinematografiche (critica in primis, sia chiaro). Cionondimeno questa operazione è legittima e, in un certo senso, imperativa.

Proprio per via dell'esoterismo della teoria hardcore (il dibattito scientifico sull'indessicalità è, per gli addetti, quanto di più avvincente i film studies propongono oggi), ci troviamo a malincuore costretti a dovervi rinunciare, preferendo invece mettere a fuoco altri fattori di strabismo tra anni Trenta e anni Zero.

Nell'idolatria che circonda i discorsi sulla presunta rivoluzione digitale si è messo da parte il fatto che l'intera storia del cinema può essere letta nei medesimi termini che furoreggiano oggi. L'idea di una produzione trasversale, non industriale, accessibile e pervasiva infuoca il secolo del cinema: che siano rimaste da ammirare soltanto le reliquie del cinema istituzionale è un'ovvia conseguenza di un approccio storiografico basato sul canone, sulla retorica del capolavoro e dell'autore romantico, che involontariamente replica le regole dell'industria persino dove le contesta. Lo sviluppo delle tecnologie leggere durante gli anni Trenta (macchine da presa “portatili”, pellicola invertibile e a formato ridotto, sistemi di sonorizzazione meno complessi, ecc.) consente una penetrazione delle pratiche cinematografiche anche tra i non professionisti, con il risultato di creare la figura del cineamatore che è, per competenze tecniche e linguistiche, molto più di un dilettante.

Ad esso si affianca, fenomeno ancora più interessante, quella figura del meticciato professionale oggi nota come pro-am, di cui Cineguf e simili esperienze associative sono la fucina per eccellenza. Il pro-am, oggi come allora, corrisponde a un profilo tutto sommato piuttosto rigido: un giovane cinefilo che persegue l'accesso al professionalismo percorrendo una via alternativa rispetto alla classica gavetta (scuole di cinema, piccole avventure di set, assistentato, ecc.) che comprende, da subito, una posizione autoriale ben netta. Ma non è certamente una mera faccenda di tecnologie, di competenze e di ruoli. Ad essere “leggero” prima d'ogni altra cosa è lo sguardo, ed è per questa ragione che il documentario diventa il campo elettivo per il pro-am, ricco com'è di possibilità che travalicano le sclerosi della finzione, la tirannia della grammatica, l'asfissia degli schemi drammaturgici tradizionali. La leggerezza del pro-am, in ogni caso, è la libertà della sperimentazione.

Ma è lo scenario mediale che traballa sotto il peso di innovazioni e contaminazioni che hanno ripercussioni radicali tanto sulla pratica quanto, ovviamente, sulla riflessione estetica e critica. Oggi si dice cultura digitale, allora era il fulgore di una modernità tecnologica che continuava ad abbagliare un pubblico relativamente innocente e credulo. Epoche d’incontrollabile fermento, in ogni caso. Basti pensare alla propagazione di canali alternativi di distribuzione, alla tensione imperitura a uscire fuori dalla sala, all'insegna di un'esperienza di cinema alternativa, meno vincolata alla forma ereditata dallo spettacolo borghese perbene. Ancora una volta, è il documentario a fare da traino – assieme, com'è intuibile, a quello che si dice cinema sperimentale, ma ormai si è capito che tendiamo ad affratellarli –, a mettere in discussione la forma canonica. Anche in termini di produzione: gruppi, collettivi, piattaforme e reti non pensano in termini di rapporti verticali ma orizzontali (nella forma del lavoro collettivo), diagonali (nelle pratiche di produzione non industriali), addirittura rizomatici (nella creolizzazione delle esperienze distributive).

Nel cinema “maggiore”, sul piano estetico e formale il peso dell’esperienza documentaria si fa prepotentemente evidente. Guardiamo a quelle tensioni di ricerca che prendono forma nei territori dei generi: il film storico e di costume (Albert Serra su tutti); il western (Meek’s Cutoff), il thriller (sia rarefatto e metafisico alla Gerry, metropolitano alla The Girlfriend Experience, monumentale alla INLAND EMPIRE o minimale alla Road to Nowhere). Persino la deriva reality del direct-horror può fornirci argomenti per speculazioni su un “Contemporary Realism” che riprenda dichiaratamente il solco dei padri neorealisti e moderni (pensiamo all’insistenza di Serra su Rossellini, Pasolini e Bresson) e nello stesso tempo persegua schizofrenicamente intuizioni baudrillardiane sugli esiti più radicali (ed escatologici) della postmodernità, sulla percezione e cognizione del reale, sulla sua sopravvivenza. Ma la riflessione sul documentario sembra tuttavia portarci oltre, superando stantie e funeree profezie di annichilimento del reale. Gli esiti di una tale sensibilità restano ancora da tracciare.

Nel 1943, Massimo Mida, allora giovane critico della rivista “Cinema”, auspicava un “nuovo avanguardismo” giovanile, che proprio nel documentario potesse trovare la fonte per un definitivo rinnovamento. Se questa intuizione fosse un semplice auspicio o il lapsus sintomatico di una tensione già matura alla fine di un decennio vivacissimo sul piano dei dibattiti critici, è una questione che per conto nostro ci piace provocare. Ribaltata strabicamente nel contesto contemporaneo, l’idea di un avanguardismo, dopo la fine inesorabile di qualsiasi pensabile forma d’avanguardia, sembra però poter tradurre la bizzarra possibilità di emersioni verso nuove possibilità di racconto del reale. All’interno del nostro universo mediatico sformato, l'avvenire è da sterrare nella storia.

 

[La struttura e i contenuti di questa introduzione sono stati lungamente discussi dai due autori. Nella fase di redazione Andrea Mariani si è occupato delle parti 3, 4 e 6, Giuseppe Fidotta delle parti 1, 2, 5 e 6 e dell'uniformazione retorico-stilistica]