Siamo sicuri che la differenza tra tv e cinema vada per forza presa dal lato del linguaggio? Davvero si tratterebbe innanzitutto di due linguaggi diversi?

Potrebbe convenire, a questo proposito, rifarsi alla definizione più semplice ed esatta di “immagine”: tempo compresso. Prima di essere materia linguistica, l’immagine è tempo compresso – o, per meglio dire, spazializzato – in forme automaticamente più intense di qualsiasi narrazione, ovvero di qualsiasi modellizzazione del tempo. E se la televisione rivela l’assenza di fondo di questa compressione, facendola colare in una potenzialmente illimitata emorragia temporale, il cinema rimane attaccato ai limiti attraverso cui la compressione trova una definizione e una consistenza.

Lo si è ripetuto fino alla nausea: davanti a quello shock emotivo, politico, cognitivo e quant’altro che fu l’11 settembre, l’America ha avuto bisogno di un’elaborazione simbolica che nessuno poteva fornire meglio delle serie TV. Perché? Perché C.S.I., Lost, Heroes, 24 e quant’altro potevano non solo adempiere all’elaborazione simbolica che erano chiamati a svolgere, ma anche dribblare l’esigenza di totalizzazione che normalmente è connaturata a un’elaborazione di questo tipo, ma che avrebbe contraddetto l’anima liquida e postmoderna che all’America è a lungo piaciuto cucirsi addosso. Rimossa dal terreno simbolico, alla totalizzazione non rimaneva che ritornare, variamente, nelle poco praticabili (perché sostanzialmente ipotetiche) forme del complotto e della cospirazione. Esorcizzare la totalizzazione, era possibile giocoforza solo alla televisione, la quale forza la compressione temporale che è l’immagine nel protrarsi infinito del tempo e, in seconda battuta, della narrazione che gli corre dietro senza potersi chiudere.

Poiché, nel decennio scorso, il “pallino” ce l’aveva in mano la serialità televisiva, il cinema è stato costretto a seguire. Un film come Zodiac di David Fincher (2007), con ogni evidenza mima il ramificarsi a ruota libera (o quasi) della narrazione televisiva, e la chiusura narrativa insieme c’è e non c’è: l’assassino non viene trovato, eppure noi “sappiamo” chi è. Non ne vediamo mai le fattezze, eppure lo vediamo quale sagoma nera. Pur aderendo da presso alla non-totalizzazione seriale e facendone tesoro, Zodiac lascia intravedere l’ombra della totalizzazione: il cinema comincia a rispolverare la propria identità pur ammettendo la preponderanza dell’orizzonte televisivo in virtù delle circostanze.

In un primo momento, Zero Dark Thirty (Kathryn Bigelow, 2012) era stato pensato come un film sul fallimento della caccia a Bin Laden. All’epoca, in effetti, non era ancora stato trovato. È facile, col senno di poi, immaginare un film del genere nei termini di uno Zodiac. Poi peró il progetto è costretto a mutare radicalmente, perché il capo di Al Qaeda viene effettivamente abbattuto. E allora non si avrà più, sullo schermo, una sagoma nera che si vede e non si vede. Si avrà invece il cadavere di Osama, sfuocato, indistinto, appena visibile – e un’immagine d lui molto più chiara e definita, invece, sul telefonino che lo fotografa. Perché? Perché il cinema non è più il luogo di elaborazione mitico-simbolica della realtà. Questo ruolo ormai è appannaggio del tentacolare sistema mediatico in cui siamo immersi. Il cinema, semmai, registra un’elaborazione simbolica compiuta ormai altrove, e ne evidenza i limiti strutturali. Anziché rinsaldare il circolo vizioso tra la realtà e il suo sdoppiamento mediatico, se ne distanzia per attestarne il girare a vuoto. Sono i media a creare l’esigenza narrativo-ideologica del responsabile da punire, la casella vuota da riempire col capro espiatorio, e una volta che il corpo di quest’ultimo arriva a riempirla effettivamente, solo a questo punto arriva il cinema a gettare sabbia nell’ingranaggio autoreferenziale e quindi perfetto. Un ingranaggio che, paradossalmente, si dà come invincibile e totalizzante proprio nel momento in cui rifiuta la totalizzazione – ma che il cinema puó ancora smascherare come organo totalizzante discreto e dotato di limiti che fa di tutto per celare. Zero Dark Thirty, infatti, non solo inizia in un modo (le scene di tortura) che inequivocabilmente segnala allo spettatore che si trova dalle parti di 24 e della marea di implicazioni che esso si porta dietro, non solo mutua con ogni evidenza strategie narrative (false piste, tensione sospensiva, stratificazione romanzesca e quant’altro) che vengono dritte dalla Golden Age del piccolo schermo del decennio scorso, ma vi innesta, per pure qualità di messa in scena (ovvero, grazie al saper padroneggiare quella compressione del tempo che è l’immagine dal verso del proprio limite costitutivo), un inconfondibile senso di perenne frustrazione. Una stagnazione che è solo l’altra, meno narrativa faccia del dilagare emorragico del tempo (perennemente riconfigurato in narrazione) su cui prosperano le serie TV.

La lezione di Zero Dark Thirty quale film che chiude idealmente il decennio d’oro della serialità televisiva americana, è insomma la seguente. È fuorviante contrapporre il cinema alla televisione nel senso che quest’ultima rifuggirebbe la totalizzazione mentre il primo vi rimane attaccato. Il punto sarebbe invece che, da un lato, la televisione conserva implicitamente la possibilità di una totalizzazione nel momento stesso in cui le proprie forme ne fanno a meno a livello esplicito; dall’altro, il cinema è ancora capace di mostrare che anche quando la totalizzazione va a segno, in realtà fallisce. Grande film femminista, perché molto precisamente isterico, Zero Dark Thirty mostra il non-tutto (in termini lacaniani) della donna che cerca di essere redento attraverso la significazione, ma proprio nel momento di effettivo compimento di quest’ultima (ovvero quando il fallo/significante Bin Laden viene rinvenuto), esplode l’insoddisfazione e la consapevolezza dell’impossibilità di una chiusura soddisfacente. Messa a confronto nella prima scena con la brutalità intransitiva della violenza, Maya cerca di linearizzarne le ragioni, di trovare un senso al traumatico carattere oscuramente disparato, sparso, eterogeneo dei fenomeni. Ma anche nel momento in cui si riesce effettivamente a dare un senso a tutto questo (venendo a capo dell’origine della spirale, Bin Laden), il malessere rimane.

In un dibattito su Zero Dark Thirty all’interno di un corso uiversitario, all’inizio del 2014, una studentessa ha affiancato il film della Bigelow a un porno. Alla luce di quanto si è detto, non si puó che darle ragione: il porno si caratterizza proprio per questa “cerniera” tra la soddisfazione e l’insoddisfazione. Su questa scia, un’altra studentessa si è fatta avanti con un’osservazione ancora più appropriata: l’ultima inquadratura, quella in cui Maya è inquadrata frontalmente, spalle al muro, da vicino, mentre piange, è uno shower-shot: ritrae la donna dopo il coito piangere pensando a quanto sforzo ci è voluto per un momento di estasi che poi, bene o male, finisce lí. Se Zero Dark Thirty puó ben essere considerato l’emblema della residua specificità del cinema rispetto al dilagare quantitativo e qualitativo della serialità televisiva e annessi e connessi, è per questa ragione, e non per presunte specificità linguistiche. Volenti o nolenti, possiamo e dobbiamo tutti partecipare all’orgia quotidiana della reversibilità infinita tra realtà e immaginario mediatico. Ma il momento della doccia post-coitale, il momento della cruciale distanziazione isterica (non necessariamente “critica”), possiamo trovarlo solo grazie al cinema.