“Disappear!”: distrutto nel corpo e nella mente, vittima innocente e in fin dei conti inutile della bêtise umana, l’ormai anziano Erroll Douglas (Robert Englund) de Il ritorno di Cagliostro, prima di sprofondare nuovamente nel buio della follia, raccoglie le forze per lanciare al pubblico l’ultimo, patetico incantesimo.

Difficile non ripensare allo sfortunato ex divo americano, mentre scorrono le immagini dell’ultima fatica – in tutti i sensi – di Franco Maresco. Al pari di Cagliostro, Belluscone. Una storia siciliana è un film incompiuto e “maledetto”, foriero di conseguenze più o meno tragicomiche per tutti coloro che vi hanno avuto a che fare. E se in quel caso l’autore (anzi, gli autori: i fratelli La Marca, ovvero Ciprì e Maresco) finiva “murato vivo”, pietrificato, qui addirittura scompare nel nulla, lasciando ad altri, a un improbabile quanto perfetto Tatti Sanguineti, il compito di ricomporre il film. Come Douglas/Cagliostro, anche Maresco si lascia inghiottire dal “fondu al nero”, cedendo definitivamente al cupio dissolvi che in fondo è il cuore (di tenebra) del suo lavoro, già dai tempi in cui faceva  coppia con Daniele Ciprì.

Certo, si può rimanere perplessi davanti a Belluscone. Si può avere a volte l’impressione che Maresco non sappia bene dove condurre il film, che finisca per girare a vuoto, per mancare il bersaglio. Si può persino sospettare che il regista non possieda (più?) la radicalità, l’estro immaginifico al quale ci avevano abituati Cinico Tv e i capolavori degli anni Novanta. Ma a differenza del suo ex collega Ciprì, che con È stato il figlio ha cercato goffamente di riproporre una versione normalizzata della collaudata estetica “cinica”, per Maresco il mondo dei Tirone, dei Paviglianiti, dei Giordano è ormai scomparso per sempre. Sopravvive qua è là: nell’esilarante siparietto cantato fra Bernardo Greco/Veronica Lario e un sosia (?!) di Berlusconi, nelle “interviste impossibili” ai cantanti neomelodici, e soprattutto in Ciccio Mira, sorta di Enzo Castagna del sottobosco musical-criminale che porta con sé il bianco e nero ciprimareschiano sulle immagini a colori, come un nosferatu, un rêvenant assai più vivo della moltitudine di zombi che affolla le feste di una piazza ormai divenuta grande quanto l’Italia intera. Altro che “mancare il bersaglio”: individuare la continuità, “antropologica” prima ancora che ideologica (e pertanto irredimibile), fra mafia, folklore (“florcore”) nazionalpopolare e politica italiana, è il vero colpo di genio del film. Da Vittorio Ricciardi a Matteo Renzi: e il cerchio si chiude.

In questa impeccabile genealogia della coincidenza assoluta fra mafia e spettacolo, fenomeno sempre meno confinabile alla nostra penisola ma di cui l’Italia è stata un laboratorio “privilegiato”, non manca neppure una sorta di origine storica, di momento fondativo. Anni Settanta: il miracolo economico arretra, il boom edilizio si ferma, e la mafia cerca qualcos’altro su cui attecchire. La risposta è la stessa trovata dal capitalismo mondiale dopo essersi accorto di aver toccato il tetto della crescita possibile: lo Spettacolo. Scopertosi inconsistente alla fine della propria parabola, il capitalismo si smaterializza per sopravvivere. Nella parole di Guy Debord: “lo Spettacolo è il capitale giunto a un punto di accumulazione tale da diventare immagine”. Di conseguenza, la mafia “investe” in Berlusconi, lui stesso ben consapevole che l’edilizia non tira più, e che bisogna cominciare a fare televisione.

Tuttavia Belluscone, prima ancora che un “film-su-Berlusconi” e il suo ventennio, è un film su Franco Maresco. Un autoritratto persino più esplicito e più spietato di quello, programmatico fin dal titolo, del precedente Io sono Tony Scott, se non altro perché nella propria struttura involontariamente (ma fino a che punto?) lasca e sfrangiata manifesta l’altra tensione che costantemente ha animato – e anima – il suo fare cinema: quella tra la “spettacolarizzazione della propria frana” (per usare un’efficace espressione di Emiliano Morreale) e la volontà di risorgere dalle proprie macerie.

Narcisismo? No. Anzi, tutto il contrario. Narcisista, sarà semmai quel mondo che ci viene mostrato nelle immagini di Belluscone, una “società dello spettacolo” (o della mafia: è lo stesso) da intendersi proprio nel senso di Guy Debord, del suo pamphlet e del suo film omonimi. Ma se quello di Maresco non è narcisismo, che cos’è? Visto che abbiamo evocato Debord, torniamo a uno dei suoi numi tutelari: Kazimir Malevich. L’artista (dichiaratosi dall’inizio nemico numero uno del Progresso) lo ha detto più di una volta: l’incompiutezza è un’ineludibile questione metafisica, è l’uomo che spodesta Dio dal proprio trono di creatore, ma solo per scoprire che i sei giorni attivi sono già alle spalle, e non rimane altro che l’ozio del settimo. Nella fine dei Trenta Gloriosi, in quegli anni Settanta in cui il progresso economico, e quindi l’edilizia, conoscono una battuta d’arresto, dobbiamo ravvisare qualcosa di più di una mera contingenza storica. In questo fatale vicolo cieco in cui va a sbattere la possibilità stessa del costruire, la sua stessa idea, emerge una nuova forma di soggettività, fondata sulla coincidenza fra mafia e spettacolo, e definita a partire dal relazionarsi con l’incompiuto, assurto nel frattempo a ineludibile fatalità metafisica che informa ogni piega del nostro quotidiano. In tale “società dello spettacolo” (o della mafia: è lo stesso) è il trash a farla da padrone, in quanto mediatico-orgiastica celebrazione collettiva dell’incompiuto.

Per avversare questa coincidenza fra mafia e spettacolo, non basta dunque raccontarla, o denunciarla: bisogna spostarsi sul terreno delle forme della soggettività, e ripensare una soggettività che si appropri dell’incompiuto in maniera diversa, se non addirittura opposta. Per questo l’autoritratto Belluscone, come il precedente Io sono Tony Scott, non occulta il proprio carattere di opera in fieri, la fatica con cui i vari materiali sono stati montati fra loro, le asperità della lavorazione, le incredibili difficoltà produttive, al contrario lo espone apertamente, impudentemente. Ed è proprio su questo versante che si fa strada, quale nume tutelare di quest’impresa “eroica e mitomaniacale”, il grande spirito benevolo di Orson Welles, da più parti evocato, a cominciare dallo stesso Maresco – nonché, guarda caso, un altro dei numi tutelari di Debord.

Giova a questo proposito ricordare quello che Jonathan Rosenbaum ha scritto dell’approccio di Welles al proprio mestiere di regista (e non solo): “For him, all work was work-in-progress”. Ecco, forse, più che nella quête, un po’ Arkadin, un po’ Citizen Kane, intorno alla quale il film è costruito, più che dalla mescolanza di vero e falso, fiction e non-fiction, è qui che Maresco si rivela profondamente “wellesiano”. Nel concepire il proprio film come un precario assemblaggio di immagini filmiche sempre sul punto di disgregarsi, egli sembra avere in mente quei takes mai montati del Don Quixote di Welles (già utilizzate nel 2001 in Miles Gloriosus, per accompagnare la tromba del Miles Davis di Sketches from Spain), di fatto ormai impossibili da ricostruire in una forma chiusa e definitiva. Un cinema, insomma, che sa di decomposizione, di fine imminente: come il precedente Tony Scott, che si apriva sui cadaveri imbalsamati dei grandi jazzisti del passato, anche questa seconda opera solista di Maresco si chiude in un cimitero bagnato dalla pioggia.

D’altronde, se Welles aveva dalla sua, per citare ancora Rosenbaum, “the love for the making process”, e l’estro del mago che ancora una volta dà l’assalto all’establishment cultural-cinematografico, Maresco – constata amaramente Tatti Sanguineti in chiusura di film – non ha altro che la memoria del proprio mondo di freaks, di una umanità irrimediabilmente estinta. E la consapevolezza che la sfida con il cinema (con il mondo) è persa in partenza.

belluscone

Ma attenzione: il cupio dissolvi donchisciottesco non esclude la lucidità. Maresco non rinuncia a tracciare una linea ben nitida: di qua io, di là quello che resta del mondo mutatosi in spettacolo di se stesso. Di là c’è la forma di soggettività della coincidenza assoluta tra mafia e Spettacolo, un’orgia in cui l’esibizione della propria immagine e l’identificazione collettiva con un’immagine di tutti e di nessuno sfumano l’una nell’altra. L’incompiuto è una voragine scomoda, imbarazzante, perciò la si copre con una foglia di fico: l’indistinto dello Spettacolo (è un’orgia a cui tutti, senza distinzioni, possono e debbono partecipare), e dunque il trash. Ciò che sta fuori dal radar di questa orgiastica visibilità totale è precisamente ciò che la rende possibile: il potere, sostanzialmente invisibile, celato da un’impenetrabile coltre omertosa. Di qua dalla linea, ci dice Maresco, ci sono io. Recupero la distinzione strappandola all’indistinto, smarcandomi così dal trash. In che modo? Assumendo in prima persona l’incompiuto, ammettendo la mia impotenza e dunque sottraendomi alla tenaglia che vuole da un lato il potere invisibile e dall’altro l’esibizione di sé sotto i riflettori. Sotto i riflettori, anzi, non ci vado proprio: non esibisco altro che il mio stesso nascondermi.

Debord, con le opere successive a La società dello spettacolo, non ha fatto altro che questo. Ne In girum imus nocte et consumimur igni ha posto quale unica alternativa allo Spettacolo se stesso, il proprio esilio, la scomparsa totale dai riflettori – ovvero: il Soggetto che arretra (anziché farsi immagine di sé) fino a diventare un punto assolutamente vuoto, di pura negatività. In Guy Debord: son art et son temps ha compiuto il passo logicamente successivo. Dopo essersi autoritratto ritraendosi, letteralmente, nell’invisibilità di un rigoroso e pluridecennale silenzio mediatico, si è lasciato ritrarre da altri (l’emittente satellitare Canal +) e ha firmato il risultato. Maresco lo ha fatto fare a un amico: Tatti Sanguineti.

“Amici”, “amici”, sempre gli “amici” ci sono di mezzo… Ciccio Mira, che in questa rete di “amici” ci sguazza(va), lo sa bene. Lo sanno ancora meglio Erik e Vittorio Ricciardi, neomelodici che la carriera allontana l’uno dall’altro, ma che si riappacificano grazie a Ficarra e Picone – ovvero grazie allo Spettacolo, che è in primo luogo (come e più del Capitale) reificazione delle relazioni tra i soggetti. Tra Sanguineti e Maresco non c’è traccia di questa mediazione data dallo Spettacolo, ma c’è anzi qualcosa di molto vicino al suo contrario: un ammasso di materiale audiovisivo che, per ammissione di entrambi, non sta in piedi. Lo Spettacolo sarà anche invincibile, ma non è dappertutto. Perciò, come nella scena del brindisi georgiano di Mr. Arkadin, di cui peraltro si riappropria Debord per chiudere e suggellare il suo La società dello spettacolo, brindiamo all’amicizia.