C'era da aspettarselo: del Porno-Teo-Kolossal pasoliniano, a Ferrara interessa, ancor più del “porno”, il “teo”. E quindi, prevedibilmente, questa sua ripresa delle ultime ore del poeta friulano, intrecciate alla visualizzazione di brandelli dei suoi incompiuti Petrolio e, appunto, Porno-Teo-Kolossal, sono sotto il segno della redenzione cattolica. Tant'è che terminano sull'annuncio alla madre della morte del figlio, in una scena che non puó non ricordare quella del Vangelo secondo Matteo in cui è proprio Susanna Pasolini a interpretare Maria ai piedi della croce.

Non che quest'ultimo sia l'unico incrocio tra biografia e finzione; quello più ingegnoso, è Ninetto Davoli che, nella rievocazione di Porno-Teo-Kolossal, interpreta Epifanio, il vecchio re Magio, anziché il giovane angelo custode Nunzio come nel progetto originale. Uno dei pochi frammenti di Petrolio che Ferrara sceglie di mettere in immagini, peraltro, confermano che il punto sta proprio in questi scambi. Carlo, il protagonista, si sente raccontare in un salotto di un funzionario diretto in Sudafrica; ma l'aereo precipita nel deserto e lì questo personaggio della finzione di terzo grado incontra un uomo di colore il cui volto sfuma, tramite dissolvenza incrociata, in quello di Carlo, nel grado finzionale appena superiore. Balzano dunque in primo piano da un lato l'incompiuto (l'aereo che cade), e dall'altro la coesistenza della realtà e della finzione (o meglio: dei diversi gradi di realtà) su di una medesima superficie.

La scrittura, è proprio questo piano superficiale su cui si intrecciano la realtà e il suo corrispettivo finzionale. PPP, nella primissima scena del film di Ferrara, lo mette in chiaro subito: io sono innanzitutto uno scrittore. E rilancerà, pochi minuti dopo, sentenziando che la narrazione è cosa del passato, e che solo l'emergere dello stile gli interessa; poco più tardi, il narratore ascoltato da Carlo dentro Petrolio ripeterà pari pari queste sue parole. Ferrara capisce, insomma, che essere fedeli a Pasolini significa essere fedeli al primato della scrittura. Ma significa anche essere fedeli a quella domanda di redenzione che prorompeva non solo dalle sue opere, ma anche dal fatto stesso che fossero rimaste incompiute.

Di nuovo: il termine “redenzione”, qui, va letto in senso strettamente cattolico, e cioè nel senso di un oltrepassamento dell'orizzonte mitologico. Il mito cercava, mettiamola cosí, una “sintesi di compromesso” tra l'umano e il divino; con la crocifissione e la resurrezione, il rapporto tra umano e divino esce definitivamente dai cardini, e l'umano si rivela già/sempre divino solo nella misura in cui il divino si palesa un orizzonte costitutivamente alienato da esso. È il paradosso dell'incarnazione; un paradosso che nella sezione di Pasolini su Porno-Teo-Kolossal viene coerentemente anagrammato e riproposto. Guidati dalla cometa (cioè dal Mito) si arriva in paradiso, solo per scoprire che non esiste, ma che il mondo visto dalla prospettiva di un paradiso che non esiste è comunque diverso dal mondo percepito “cosí com'è”. E se tra umano e divino non è possibile sintesi se non similmente “disgiuntiva”, lo stesso vale tra la realtà e la finzione: la scrittura può solo fallire il tentativo di annodarli insieme. Una cosa, però, la può fare: evidenziare lo scarto tra la realtà da un lato, e dall'altro la realtà stessa una volta passata sotto le forche caudine della scrittura. Il sacrificio di Pasolini è, precisamente, l'emblema dell'impossibilità, da parte della scrittura, di annodare insieme due dimensioni (la realtà e la finzione) che già a priori si compenetrano infinitamente l'una nell'altra. Nella visione di Ferrara, il poeta sembra insomma pagare lo scotto prometeico di far convergere in una medesima indistinzione il pratone della Casilina di Petrolio (teatro degli incontri sessuali tra Carlo e i giovani borgatari – regolarmente visualizzati dal film), e i ragazzi che lui stesso incontrava. Ma proprio per questo, tuttavia, tale sacrificio indica, conferma e divarica lo scarto tra la realtà e la realtà stessa quale filtrata dalla scrittura, il medesimo tra l'umano e l'umano stesso “visitato” dal divino in guisa di sigillo della sua irredimibilità.

Si capisce meglio, alla luce di tutto questo, in cosa consista la sfida ferrariana. Si tratta di redimere Pasolini, di redimere ciò che questa interruzione, al contempo logica e irrazionalmente fatale, ha lasciato incompiuto, senza per questo compierlo, ma conservando invece il suo carattere di irredimibilità. Lagnarsi delle innegabili imperfezioni, in questo caso, significa mancare il punto: Pasolini è un film gloriosamente incompiuto. Riprende là dove Pasolini ha lasciato, ma anziché portarlo a termine, esaspera e trasferisce su un diverso piano quella stessa incompiutezza. Ferrara cuce insieme realtà e finzione in un tessuto poroso e vistosamente sfrangiato: un Frankenstein, una palla di stracci, un ammasso di brandelli di carne in decomposizione che non vuole saperne di chiamarsi “corpo”. Il cineasta newyorkese, del resto, non è interessato al corpo, ma all'immagine, ovvero al corpo redento, al corpo quale immediatamente morto e risorto nello spazio del presente. Se il corpo ha una sua volumetria, l'immagine è questione di superficie: una superficie “zombesca”, fatta di frammenti tenuti insieme alla meno peggio. Laura Betti che balla in sala da pranzo, travelling infiniti sulle strade di Roma, Sodoma e Gomorra finzionali, Pasolini che gioca a calcio, la bocca e la pelle di Pino Pelosi, le schegge da Petrolio… per materializzare questa infinita superficie dove tutto sta insieme con tutto, realtà e finzione, autentica reincarnazione post-mortem della scrittura nel senso della co-implicazione sognata da Pasolini, Ferrara indovina un affascinantissimo misto di continuità e discontinuità: crea un flusso neutrale, quasi anodino, di immagini, tendenzialmente indifferenti, tenendole insieme con i mezzi più maldestri e meno trasparenti possibili. Le amate sovrimpressioni e dissolvenze incrociate (ancora quelle di Blackout) sono solo il prolungamento di un montaggio che accatasta presenze più che metterle in ordine. Le inquadrature (e ancor più gli incerti, fragilissimi movimenti di macchina) si rifiutano di inquadrare, cioè di bloccare un continuum dinamico in un oggetto fisso da guardare; è stato questo medesimo peccato originale che è la funzionalizzazione, infatti, ad avere ucciso la lingua italiana (è giusto allora che Defoe non parli italiano, ma inglese). La luce, pure lei, si rifiuta di selezionare, individuare e sbalzare una qualche figura dallo sfondo, ma bagna tutto in una medesima indistinzione. Una tale immagine della realtà insiste soprattutto sulla sua inconsistenza – ma è proprio questo che caratterizza e differenzia la realtà vista dal paradiso-che-non-c'è della scrittura: la messa in evidenza del suo carattere irredimibile.

Non sarà stato vano, il sacrificio del poeta, se impareremo a osservare la realtà con occhi diversi, e cioè come qualcosa che la scrittura, ad essa fisicamente compresente, fa continuamente morire e risorgere. A ben guardare, ce lo suggeriscono già le splendide sequenze iniziali, nell'appartamento di Pasolini e della madre, dove non succede quasi nulla (il protagonista che si alza svegliato dalla madre, si veste, apre il giornale e quant'altro), ma che vengono scandite da un tempo clamorosamente irregolare, sbilanciato, privo di picchi e di appigli drammaturgici, ma pieno di voragini che sembrano spalancarsi a ogni istante, per banale e quotidiano esso sia. Vista dalla luna, la Terra probabilmente appare così.

PASOLINI, regia di Abel Ferrara, Italia/Belgio/Francia 2014, 86'.