Davvero il surrealismo oggi, nel bel mezzo del secondo decennio del ventunesimo secolo? Davvero.

L'ipotesi, enunciata e argomentata nelle note che, nel catalogo dell'edizione 2015 dell'International Film Festival Rotterdam, introducono la rassegna “Really? Really.”, è sufficientemente cristallina da essere seducente. Da un bel po' si fa un gran parlare del fatto che (quantomeno) dal 2008 in poi il mondo si trova bloccato in un cupo replay degli anni che intercorsero tra le due guerre mondiali – in particolare gli anni '30, quelli che seguirono il crash del '29; che in un quadro del genere faccia ritorno il surrealismo è nelle cose, è fisiologico. Nessuno lo dice ma il surrealismo è ancora tra noi; bisogna imparare dunque a vederlo e a riconoscerlo, perché oltre ad essere con noi, è con noi qui, ed ora.

Cominciamo dall'“ora”. Cinque dei film presentati in “Really? Really.” (molto probabilmente la punta di diamante di un Festival interlocutorio e visibilmente indeciso sulla direzione da prendere, forse anche per via dell'imminente scadenza del mandato del direttore) vengono dritti da Venezia 2014, l'ultimo festival maggiore in ordine di tempo: En duva satt på en gren och funderade på tillvaron (Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza, Roy Andersson, 2014), Nobi (Fires on the Plain, Tsukamoto Shinya, 2014), Reality (Quentin Dupieux, 2014), Belluscone (Franco Maresco, 2014) e Ich seh, ich seh (Veronika Franz e Severin Fiala, 2014). Non si tratta affatto di pigrizia curatoriale (pigrizia che, purtroppo, ha vanificato più di una rassegna a Rotterdam 2015), è piuttosto il contrario. È una maniera deliberata di sottolineare quanto surrealismo sia rinvenibile nel presente più a portata di mano. Si tratta dunque di una sorta di ingresso ideale nel fitto labirinto di riferimenti attraverso cui il curatore Olaf Moeller, anziché limitarsi a rimpolpare un paradigma preesistente attraverso una serie di esempi illustrativi, letteralmente crea tale paradigma ex novo, e fornisce una risposta originale e convincente alla domanda “che cos'è e dove si trova il surrealismo oggi?” nel più semplice ed esplosivo modo possibile: facendo dialogare i film tra loro, con la sola forza degli affiancamenti. Forse non tutti i film proiettati, da soli, fanno pensare al surrealismo, ma grazie all'evidenza delle connessioni e all'intensità di come tout se tient diventa improvvisamente chiaro cosa e dove sia oggi il surrealismo.

Imboccando questo ideale ingresso situato nel nostro più immediato presente, la vicinanza del passato salta subito agli occhi. Senza bisogno di scomodare il surrealismo della prima generazione (nessuna opera del periodo interbellico è stata selezionata), è chiaro che la lucida noncuranza con cui Georges Franju passeggiava sull'abisso informa l'affilato, spietatamente conseguente gioco di specchi Ich seh, ich seh. Né mancano lavori che, con ironica consapevolezza teorica, articolano il rapporto tra l'originario surrealismo novecentesco e le sue propaggini contemporanee: Shtei nashim Ve'Gever (Two Women and a Men, 2005) è l'ennesimo “autoritratto per diffrazione” dell'artista israeliano Roee Rosen che si traveste da donna per impersonare Joanna Führer-Ha'sfari, studiosa immaginaria dell'altrettanto immaginaria surrealista ebrea belga di inizio secolo (e amante di Georges Bataille!) Justine Frank, che (come Rosen decenni dopo) mescola nei propri dipinti e romanzi motivi sessuali, religiosi e storici. Perché Rosen si travesta da donna lo spiegano non solo le promiscue genitalità dei dipinti di Frank, ma sopratutto Toyen (2006), nel quale Marie Cermínová (1902-1980), surrealista ceca emigrata a Parigi durante la Seconda guerra mondiale, viene omaggiata da Jan Němec con un vorticoso, incredibilmente suggestivo (memorabili le sovrimpressioni di immagini su pareti ruvide) montaggio di (fra le altre cose) found footage, ricostruzioni live di pezzi di vita e visualizzazioni delle opere di una artista in perenne fuga dalla Storia e sempre dalla Storia riacciuffata (ne recano traccia le opere stesse). Rosen si traveste, insomma, perché in “Really? Really.” l'articolazione del rapporto tra surrealismo originario e surrealismo contemporaneo è affare soprattutto femminile. E non può essere altrimenti: marginalizzato nella prima stagione surrealista, il femminile è tra i primissimi candidati a impersonare il rimosso che, adesso, non può che ritornare.

Ingente, pertanto, la presenza (del) femminile all'interno della rassegna. Ma attenzione: anche qui, siamo agli antipodi delle “quote rosa” con cui troppi festival e troppi programmer credono di cavarsela. Il femminile non è uno slot vuoto da riempire d'ufficio ma un rimosso da affrontare e qualificare. Rischiando. Non ci si può più accontentare de L'origine du monde, cosce aperte e sesso femminile chiuso su tela: per questo, Deborah de Robertis (nel suo Miroir de l'origine, 2014), si piazza davanti al capolavoro di Courbet, al Louvre, e spalanca gambe e labbra (prima di essere allontanata da guardie poco accondiscendenti). Affiancando il suo cortometraggio a quelli di Elodie Pong, Hana Jušic, Evamaria Schaller, Teemu Mäki e Doris Kuhn, viene proposta una costellazione di (fra le altre cose) cibo, origine, natura, carne, animalità e corporeità; il femminile è da qualche parte dentro a questa costellazione senza che mai possa confondersi con i termini che la compongono[i].

Quanto alla sessualità, potrà anche non essere più un oggetto traumatico che deraglia e perturba, ma vale comunque la pena cercare la giusta distanza dalla quale approcciarlo. È ciò che fa Lene Berg in Kopfkino (2013): 8 professioniste del BDSM che conversano delle loro più o meno scabrose e devianti esperienze, del loro mestiere e delle loro tecniche, disposte in orizzontale e contemplate olimpicamente da carrelli laterali che letteralmente e placidamente oscillano tra un estremo e l'altro. Come il giovane, grande Jan Soldat (qui rappresentato da due cortometraggi tratti dallo stesso materiale – nuovamente di area BDSM – da cui ha attinto un suo film più lungo presentato poco dopo alla Berlinale), Kopfkino dispiega una serena lucidità, benevolmente distaccata, tutt'altro che indegna non tanto dell'aggettivo “surrealista”, quanto di quello, forse ancora più appropriato, di illuminista. Mettiamola così: non basta guardarre negli occhi la testa di Medusa che paralizza, compiacendosi di non rimanere paralizzati, bisogna mettersi lì e farci due chiacchiere.

E il “qui”? Il “qui” è, soprattutto, lo spazio domestico, teatro di molto, redivivo surrealismo del ventunesimo secolo. Lo straordinario è qui accanto: non è più vicino a casa, ma è dentro casa – e non di rado dentro lo schermo di casa, come mostra 2 Everything 2 Terrible 2 Tokyo Drift del collettivo “Everything Is Terrible!”: 55 insostenibili minuti di trash a stelle e strisce rinvenuto in VHS di varia provenienza; 55 insostenibili minuti di frammenti “alla Blob” montati insieme velocissimi in una spossante mitragliata percettiva di ributtante inconscio collettivo (che, come ogni inconscio, non è affatto privo di nessi interni, qui squadernati senza pietà).

Anche Vernon Chatman ha capito che lo straordinario è dentro casa: è in anonimi tinelli che ha infatti ambientato il suo capolavoro di teologia pura, Final Flesh (2009). Ben sapendo che l'unica teologia seria rimastaci oggi è il porno (lo diceva Carmelo Bene, il quale avrebbe senza dubbio adorato Final Flesh), Chatman si è rivolto a ditte specializzate che forniscono film pornografici “su misura”, realizzati secondo una sceneggiatura elaborata dal cliente, e ha dato in mano agli attori in esse “impiegati” un “cadavere squisito cinematografico” (la definizione è del regista), sostanzialmente privo di sesso, fitto di dialoghi e di situazioni al limite dell'assurdo (un barattolo di carne che viene scosso fino a diventare latte, un adulto vestito da neonato che prova a rientrare nell'utero dal verso della testa). Suddiviso in quattro segmenti, ognuno dei quali fornito da una “ditta” differente e mostrante un nucleo famigliare (padre, madre, figlia) che si risveglia nella propria cucina da chissà quale sonno o sogno, Final Flesh, con il suo video a ridicola definizione a inquadrare alla meno peggio attori che non hanno la minima idea di cosa stiano facendo, è un gloriosamente ripetitivo, continuo anagramma di elementi (carne, cibo, sesso, vita, morte, linguaggio, apocalisse, tempo…) che non cessano di proliferare, di scomporsi e ricomporsi tra loro (in pieno ossequio alla surrealista scrittura automatica), in un'infinita condensazione/spostamento onirica sullo sfondo dell'incontro perennemente mancato, impossibile anzi, tra Corpo e Spirito (sì, con le maiuscole).

Lontano dalla flagranza pornografica di questi video ruspantemente artigianali, ci sono i tentativi “leccati” dell'arte contemporanea. Il fatto che un Lynch o molti altri prima e dopo di lui ci abbiano mostrato l'abisso che si spalanca appena sotto una porosa e malferma quotidianità non vuol dire che non ci sia ancora molto da mostrare riguardo alla porosità del quotidiano, sul dove sono i pori che ci portano all'altro mondo, quanto sono profondi, verso che direzione si aprono, cosa c'è oltre e così via. È precisamente questo che si propone (vincendo in pieno la scommessa) l'artista estone Jaan Toomik con il sorprendente Maastik mitme kuuga (Landscape with Many Moons, 2014), nel quale fa prendere al trito andirivieni del grigio protagonista tra moglie e amante livide tangenti d'inquietudine quando meno ce lo si aspetta, e in forme altrettanto inattese, al limite ultimo della bizzarria soprannaturale (oltre che dello splendore visuale). La vita quotidiana si adombra continuamente, vede addensarsi sopra di sé nuvole sempre più pesanti, ma il temporale non scoppia mai, e tutto torna sempre “normale”.

Altro artista contemporaneo (attivo soprattutto nella performance), il polacco Oskar Dawicki recita nel ruolo di se stesso in Performer di Maciej Sobieszczański e Lukasz Ronduda. Con l'arte si può andare molto avanti, non c'è dubbio, nel gioco di autorappresentarsi e di mettersi in scena. Resta però il sospetto che rimanga scoperto un “lato B”, una dimensione che l'arte e la rappresentazione in generale non riesce ad agguantare. È forse questa dimensione, tutt'altro che estranea al quotidiano e alla sua amorfia, che il cinema può invece provare a fare propria, in senso complementare agli sforzi dell'arte contemporanea. Ma questa è solo una delle molteplici, vertiginose implicazioni di Performer, film che vede Dawicki dibattersi tra arte (come limite dell'orizzonte rappresentativo) e cinema (come rovescio dell'arte), come un prestidigitatore incatenato, immerso in una vasca piena d'acqua, si dibatte per liberarsi e riaffiorare in superficie.

Ma se questa metafora viene passata, è forte la tentazione di prolungarla: ciò che Dawicki “vedrebbe” ai lati della vasca, senza più catene, sono i più anziani “colleghi” Bruno Sukrow e Giulio Questi. Loro sono riusciti ad appropriarsi del digitale fino a farne un naturale prolungamento di se stessi, senza nemmeno bisogno di uscire di casa per mettersi in scena. Il primo, ottuagenario pensionato di Aquisgrana, usa da anni Second Life per realizzare ore e ore di libere, stralunate, criptiche rielaborazioni onirico-narrative di elementi in buona parte presi dalla sua stessa esistenza (come Anna, 2014). Quanto all'altro, solitario avventuriero del cinema italiano da poco scomparso, negli ultimi anni si è dato a cortometraggi radicalmente personali – tra cui Lola (2009), esplorazione dichiaratamente borgesiana nei meandri del tempo, dell'Io e della memoria, condotta da Questi dietro la videocamera ma anche davanti, nel ruolo di se stesso e… del doppio di se stesso.

Tuttavia, in “Really? Really.” il “qui” si lascia anche localizzare in modo diverso. Il “qui” dell’odierno surrealismo sarebbe da qualche parte tra la Rio de Janeiro di Ivan Cardoso e la Sinj di Bore Lee. Da una parte i disinvolti innesti (più in senso agronomico che in senso postmoderno) tra svariati generi cinematografici (horror, soprattutto) arricchiti da sfacciate venature erotiche, calati in una realtà fisica in gioiosa decomposizione, di O bacanal do diabo e outras fitas proibidas de Ivan Cardoso (Orgy of the Devil and Other Forbidden Tapes of Ivan Cardoso, 2013), compendio giustamente autocelebrativo di brandelli della propria pluridecennale filmografia: un cumulo di trailer, di promesse avulse dal proprio mantenimento, così' come le tracce narrative e di genere dei suoi film sono promesse di sviluppo subito dissolte nel brulicare sensoriale di quel mondo (ed è dunque giusto terminare, sui titoli di coda, con un gioco di scie luminose fuori fuoco che si rincorrono nel buio). Dall’altra, le irresistibilmente improbabili appropriazioni amatoriali del cinema di arti marziali alla Bruce Lee che si ostina a mettere in scena da più di vent’anni nei dintorni di casa sua davanti a un’incerta videocamera il santo croato (qui con Velike stijene, Big Rocks, 2010). Santo, sì, perché sufficientemente posseduto dal demone della ripetizione affinché le varie scorie spurie intercettate in corso d’opera (le inflessioni parodiche, le inverosimiglianze plateali e così via) vengano assorbite e neutralizzate dal vortice della pura ripetizione che le trascina. E gli eventuali santommasi, se proprio vogliono accertarsene mettendoci mano, non hanno che da prendere atto del suo senso dello spazio, neogriffithiano come può esserlo, poniamo, quello di un Tonino De Bernardi. Cardoso e Lee sono impeccabili esempi di ciò che con semplice e felice espressione Julio Bressane definiva “Cinema inocente” – e che viene dritto dall’amore dei primi surrealisti per l’inconscio delle classi subalterne a briglia sciolta, per le manifestazioni meno borghesemente sorvegliate, e più sanguigne e ingenue, della cultura popolare.

Anche Jesus – der Film, progetto avanguardistico collettivo coordinato da Michael Brynntrup, che a metà degli anni Ottanta (1986) raccolse svariati artisti delle due Germanie facendo girare a ognuno un episodio della vita di Cristo, può a modo proprio essere visto come “Cinema inocente”. Non c’è forse un ché del fervore che siamo abituati ad associare ai primi cristiani, nella spensieratezza giocosa con cui si rimette in scena la moltiplicazione dei pani e dei pesci usando un tostapane e un meliesiano arresto-sostituzione, o nella fiducia (anzi: fede) incondizionata verso lo splendore dell’apparenza, che poi qui sarebbe la gloriosa grana del super8? E cosa c’è di più surrealista, ancor più dello scandalo sacrilego, del ribaltarsi dello scandalo sacrilego in una sorta di sacralità di ritorno (Buñuel docet)?

A Jesus – der Film prese parte anche il mitico Jörg Buttgereit – e anche lui, come il surrealismo più in generale, è di ritorno (dopo 22 anni di assenza), con un cortometraggio che dimostra che, contrariamente a quanto si pensi, la visualizzazione dell’eccesso su uno schermo cinematografico ha ancora senso, fa ancora effetto e non è stato anestetizzato dalla sovraesposizione mediatica: basta saperla mettere in scena, basta saper dosare le attese, sapere mettere le cose nel giusto contesto, sapere usare la tecnica (qui: un notevole uso del fuori fuoco) per il verso giusto. Il suo Final Girl è uno degli episodi di German Angst (2015), omnibus in tre parti contenente altresì, e soprattutto, Make a Wish di Michal Kosakowski, crudele e perfetto apologo sul rapporto vittima-carnefice che è anche un prezioso caveat su come essere e non essere spettatori – in questo, parente stretto del purtroppo dimenticato (ma appena restaurato) L’occhio selvaggio di Paolo Cavara (1967), meta-Mondo-movie che svela non solo l’abiezione deliberata dell’esotismo scandalistico (di uno Jacopetti, per intenderci – oltre che dei suoi eredi), ma anche quella, più ingenua e dunque ancora più abietta e pericolosa, di chi ci casca, e lo fa con un rigore didattico che sconfina nell’astrazione. Abbiamo ancora bisogno di questa pedagogia spettatoriale, del metterci davanti agli occhi il come e il perché il nostro sguardo viene assorbito nelle immagini che ci si parano davanti? Sì, perché facendone tesoro ci si spalanca il paradiso del “Cinema inocente”; trascurandola, cadiamo nell’inferno di Belluscone, della malsana celebrazione orgiastica della propria immagine allo specchio spalmata dappertutto.

Le associazioni e gli affiancamenti resi possibili da questo ricchissimo programma potrebbero continuare ancora a lungo. Ciò che conta sottolineare, in chiusura, è che oggi, come tra le due guerre del secolo scorso, c’è un colossale rimosso che preme per ritornare, e che minaccia di esplodere sotto i colpi di una Storia dolorosamente fuori fase. Questo rimosso non è lontano, tutt’altro: è proprio qui, e occorre imparare a riconoscerlo, a guardarlo in faccia. Anche perché oggi sembra manifestarsi, per così dire, di lato anziché da sotto: non sembra più una massa vulcanica pronta a eruttare, ma piuttosto qualcosa che, pur essendo sempre e costantemente presente e pressante, si rende visibile solo se sappiamo mettere insieme i pezzi, affiancarli l’un l’altro, attivarne le connessioni. Non abbiamo bisogno di uno stetoscopio per auscultare ciò che pulsa sotto le superficie, ma di nastro adesivo per collegare un pezzo di superficie con l’altro, e vedere cosa salta fuori. Proprio a causa di questa lateralità, forse solo oggi avrebbe senso girare il classico surrealista perduto (e forse mai realizzato) Elsa, Baroness von Freytag-Loringhoven, Shaving Her Pubic Hair (Man Ray e Marcel Duchamp, 1921). È ciò che ha fatto Lene Berg in Shaving the Baroness (2010), nel quale la magnifica Dunja Eckert-Jacobi (una delle otto professioniste di Kopfkino) viene ripresa in piedi, immobile, nuda, mentre un maggiordomo le rasa diligentemente i peli pubici.


[i] [i] Una menzione speciale va forse al film di Jušic, Da je kuća dobra i vuk bi je imao, No Wolf Has a House, cronaca di ordinaria nevrosi domestica retta da una mise en scène di impressionante precisione – per la sua geometria sbilenca, per come orchestra attese e tensioni e per la dimestichezza con cui bilancia luci e ombre.