È questione di pochi mesi. L'edizione integrale degli scritti di André Bazin, annunciata già nell'editoriale del numero di Febbraio 2014 dei Cahiers du Cinéma, è finalmente in cantiere. Ancora non è possibile contare su una data di uscita ufficiale; si tratta, come si può immaginare, di un progetto complesso, dalla lavorazione travagliata. Non è facile, infatti, mettere insieme i quasi 2600 articoli che il critico francese nato nel 1918 pubblicò, perlopiù su quotidiani e periodici di varia natura, frequenza e tiratura, nell'arco del suo breve periodo di attività, dal 1941 al 1958, quando la leucemia lo stroncò poco più che quarantenne.

Già da qualche anno era disponibile in rete un provvidenziale database messo a punto dall'Università di Yale, contenente i riferimenti bibliografici di tutti gli scritti di Bazin. Recentemente, una sua versione perfezionata (www.baz-in.com) è stata messa a punto in Francia – e del resto è proprio alla partnership New Haven-Parigi che si deve il contemporaneo ritorno di interesse per una figura critica e teorica che i più frettolosi ritenevano antiquata e passibile di venire silenziosamente liquidata. Nel 2008, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Bazin, Dudley Andrew (Università di Yale) e Hervé Joubert-Laurencin (all'epoca a Parigi VII-Diderot, oggi a Parigi X-Nanterre) organizzarono un convegno “bicefalo”, su due sedi (New Haven e Parigi), a poche settimane di distanza l'uno dall'altro. L'intento era quello di “aprire Bazin” (Ouvrir Bazin/Opening Bazin era il titolo dell'evento), vale a dire di accantonare i troppi luoghi comuni accumulatisi nel corso dei decenni a proposito del co-fondatore dei Cahiers, di riscoprire questa enorme massa di testi e tuffarcisi per poterne trarre una più corretta considerazione. Dal convegno uscì (2011) un omonimo volume di atti (sempre a cura di Andrew e Joubert-Laurencin) in lingua inglese, poi tradotto per l'edizione francese da Joubert-Laurencin, il quale nel medesimo anno (2014) pubblicò anche una raccolta di suoi saggi su Bazin (Le sommeil paradoxal), mentre Andrew dava alle stampe Bazin's New Media, volume che raggruppa traduzioni inglesi di alcuni tra le centinaia di articoli che Bazin dedicò alla televisione, che all'epoca stava muovendo i primi passi. Prima di tutto questo, nel 2009, la casa editrice canadese Caboose aveva fatto uscire una nuova traduzione inglese della celeberrima antologia Che cosa è il cinema?, lontana dalle cospicue inesattezze della prima traduzione, uscita nel 1967 ad opera di Hugh Gray. Da lì in poi, si susseguiranno raccolte di materiale mai ri-pubblicato dopo la prima comparsa (come quella a cura di Bert Cardullo su Bazin e il Neorealismo), numeri speciali (come quello della rivista scozzese Paragraph nel 2013), progetti di ricerca internazionali volti a valorizzare questa miniera di scritti attraverso iniziative di vario genere (Traverser Bazin, coordinato sempre da Joubert-Laurencin), e quant'altro.

Di Bazin non si conosce ancora nulla, in sostanza. Dei quasi 2600 articoli da lui scritti in vita, e apparsi su pubblicazioni che si suole definire “effimere”, quali periodici e quotidiani, solo il 6% circa è stato ripubblicato in antologie, raccolte e simili. Naturalmente, è perlopiù sulla base di questo 6% che oggi lo si giudica, ovvero su di una base clamorosamente insufficiente e approssimativa. L'integralità del corpus di scritti del critico ci restituisce un'immagine di quest'ultimo estremamente interessante, sideralmente lontana dall'inverosimile caricatura che ci è stata tramandata negli ultimi decenni. L'iniziativa che tra non molto metterà a disposizione tutti i suoi testi arriva dunque a colmare provvidenzialmente un'annosa, gravissima lacuna editoriale.

Per prima cosa bisogna dunque farla finita con il “bazinismo”, ovvero con il riduttivo travisamento di Bazin secondo il quale quest'ultimo vedrebbe nel cinema una sorta di miracolosa possibilità di trasportare la realtà empirica direttamente su uno schermo. Né questo, né nessuno dei molti fraintendimenti scaturiti da una frettolosa e superficiale lettura di Che cosa è il cinema? (come quello per cui Bazin feticizzerebbe piani-sequenza e profondità di campo contro il montaggio) ha la minima ragion d'essere. Fare di Bazin un ingenuo paladino di un realismo ridicolo e inservibile è solo lo straw man contro cui, all'epoca, la nascente disciplina accademica dei Film Studies ha ritenuto, un po' ovunque, di scagliarsi per poter giustificare la propria impostazione semiologica e/o culturalista e/o cognitivista e quant'altro; lo si è insomma usato come facile scorciatoia per poter dire (senza dirlo esplicitamente): “questo è il teneramente inconsistente tenore dei discorsi sul cinema di prima del Nostro avvento, di conseguenza Noi non possiamo che avere ragione a prescindere”. Adesso che, sempre più platealmente, lo studio accademico del cinema naviga a vista un po' ovunque, e sembra non avere energie che per giustificare (spesso addirittura scusare) la propria esistenza in un mondo che per qualche imprecisata ragione viene ritenuto (quasi solo da loro, peraltro) post-cinematografico, è oltremodo importante tornare a Bazin per cercare una linfa ancora intatta – e, a posteriori, realmente preziosa.

I tre testi che qui proponiamo non intendono nemmeno lontanamente tratteggiare con qualche esaustività quel Bazin scrittore di cinema a cui il bazinismo non ha mai cercato di avvicinarsi. Essi vogliono soltanto suggerire la portata dell'interesse che la sua sterminata e ancora largamente sconosciuta produzione critica riveste, invitando il lettore a un'esplorazione autonoma che la pubblicazione integrale dei suoi scritti renderà finalmente possibile.

Basti dare una scorsa (ma una volta iniziato, è impossibile non arrivare alla fine), a “Psicanalisi della spiaggia”, breve nota di costume che appena sotto le apparenze facete radicalizza il lascito freudiano in una maniera tutt'altro che dissimile a quella rinvenibile in “Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell'Io”, saggio che Lacan pubblicò un paio di anni dopo, e la cui influenza sui Film Studies è stata incalcolabile, ancorché controversa. Non da oggi, peraltro, si è ravvisato in Bazin una sorta di proto-strutturalista, anche se nessuno ha ancora provato a spiegare perché. Non che tale afasia non abbia le sue ragioni – tutt'altro. Per molti versi, Bazin più che anticipare la parabola strutturalista sembra averla interamente bruciata ante litteram nel fuoco della scrittura, che rimane senza dubbio la principale dimensione rispetto alla quale l'autore va avvicinato, indagato, compreso, valutato. E l'evidente qualità letteraria di “Psicanalisi della spiaggia” è lì a confermarlo.

“Si può essere poliziotto?” è un'ulteriore conferma della sua strana vocazione proto-strutturalista. Lo si vede dalla quantità e varietà dei livelli concettuali messi in opera (estetico, storico, sociale…) e dall'ingegnoso zigzag che viene costantemente intessuto tra essi. Uno zigzag che fa pensare, più che ai suoi colleghi della politique des auteurs dei Cahiers du cinéma di quegli anni (con i quali, per inciso, Bazin non ha nulla a che vedere), al cinema di un altro, diversissimo pupillo di quegli anni: Chris Marker. Uno zigzag direttamente funzionale a quello che forse è il progetto fondante del tessuto di scrittura cui Bazin (non a caso anche leggendario animatore di cineclub) lavorò quasi ininterrottamente, a una media di un articolo ogni due giorni: la creazione di uno spazio atopico (rubo questa definizione a Joubert-Laurencin) in cui il Mito (qui, il mito del poliziotto nel cinema) non è né abbracciato acriticamente né demistificato, ma illuminato nel proprio intimo funzionamento proprio nel corso del suo funzionamento. In tutto questo, la scrittura allo stesso tempo spiega e dispiega: spiega come funzionano gli ingranaggi mitopoietici del film, ma allo stesso tempo dispiega, nel senso che prolunga, per pura virtù retorica, l'accensione estetica attivata dalle immagini in movimento.

Ma c'è anche un'altra ragione per cui si è scelto di inserire “Si può essere poliziotto?” nel nostro breve excursus. All'interno della sterminata produzione baziniana, esso è sostanzialmente un articolo qualunque. Per capire il lavoro di Bazin, non ha senso appoggiarsi su una manciata di testi teorici in cui si voglia a torto ravvisare qualche dogmatica prescrizione estetica. Senza una più ampia frequentazione della pratica critica baziniana, quei pochi testi passibili (a certe condizioni) di essere definiti “teorici” vengono soltanto fragorosamente fraintesi. Bisogna invece avvicinarsi alla massa di scritti nella media, quelli da lui vergati giorno per giorno nel normale esercizio della sua funzione professionale, quelli che non hanno altre ambizioni al di fuori del confronto quotidiano tra la propria scrittura critica e le varie scritture cinematografiche che vi si parano innanzi. Troppe volte si è voluto fare di Bazin un centometrista che avrebbe già dato tutto nel 1945, dopo “Ontologia dell'immagine fotografica”, trascurando così l'essenziale dimensione anaerobica della sua prassi critica. Così facendo, si finisce per mancare completamente l'assunto alla base di quel saggio: il cinema è al contempo un compimento e un superamento delle classiche categorie aristoteliche di mimesis e natura, che in quanto tale ingenera una strana cosa (l'immagine cinematografica) che non è né l'una né l'altra, bensì una specie mai apparsa prima, e che tuttavia ci è nota da sempre, di coincidenza dinamica tra forma e sostanza.

L'intervento di Hervé Joubert-Laurencin, a proposito di Bazin spettatore di Senso di Visconti, illustra bene la necessità, nel rapportarsi a Bazin, di raccogliere la sfida dell'identità tra la forme e le fond che per Bazin la scrittura doveva raccogliere a contatto con il cinema, che di quella classica identità è la forma più inaudita di, a un tempo, compimento e sovversione. Se dunque la scrittura di Bazin, come rilevato già negli anni Settanta da Dudley Andrew, e come peraltro “Si puó essere poliziotto?” mostra con grande chiarezza, si contraddistingue per un gioco di reciproco incasellamento concentrico tra il dettaglio all'interno di un film, il film stesso, il suo genere e via via gli altri livelli ulteriori (fino ad arrivare ai massimi sistemi), parlare di Bazin significa innanzitutto recuperare e proseguire questa articolazione plastica dei livelli tra loro sfalsati, in cui ogni film è preso. Significa assecondare la tensione e l'interscambio continui tra cornice e quadro, su cui tanta parte della scrittura di Bazin è fondata. Grazie a questa continua tensione e a questo continuo interscambio, Bazin non è mai rigidamente prescrittivo, ma furiosamente dialettico: ogni dogma si invera solo attraverso il tradimento. E dialettico è, per Bazin, innanzitutto il rapporto tra mito e realtà: a lui interessa il carattere mitico della realtà (quella che molti prima e dopo di lui chiamavano e chiameranno “ideologia”), ma soprattutto la realtà del mito, il fatto che il mito ha una consistenza autonoma, una pulsante vita propria, con cui bisogna confrontarsi armandosi di scrittura e di perizia retorica.

Negli anni, l'“Ontologia dell'immagine fotografica” di André Bazin è stata spesso vista come una sorta di acerba prefigurazione di quella Camera chiara che Roland Barthes mandò alle stampe poco prima di morire, nel 1980. Forse, però, sarebbe più utile richiamare a questo proposito quei Miti d'oggi che egli pubblicò nella seconda metà degli anni Cinquanta, quando era, fra le altre cose, collega di Bazin a France Observateur. Ancora più appropriato sarebbe collocare l'autore di Che cosa è il cinema? non in una fase barthesiana particolare, ma dentro la giuntura invisibile che collega il Barthes semiologo degli inizi a quello che, decenni dopo, indagherà la temporalità mortuaria della fotografia in modi che potrebbero legittimamente ricordare la definizione baziniana del cinema quale “mummia del cambiamento”. I miti di oggi, nel ventunesimo secolo, si saranno anche fatti meno appariscenti e più difficili da decrittare, non da ultimo (e paradossalmente) proprio in virtù della loro asfissiante sovraesposizione – ma Bazin può ancora insegnarci qualcosa su come destreggiarsi nel bel mezzo del loro consolidato strapotere: innestandosi sulla scrittura.