“Perché la forma è costrittiva, l'idea sgorga più intensa” scriveva Baudelaire che, tra le strettoie formali del sonetto o del verso alessandrino, faceva sbocciare i suoi Fiori del Male. Ma cosa accade alla creazione quando il confronto con le limitazioni non è più frutto di una scelta artistica volontaria bensì imposto dall’arbitrio di un regime dispotico? Cosa si produce quando, invece che al servizio dell’opera, i vincoli di forma e sostanza esistono a suo discapito? Questo è infatti ciò che accade oggi a un certo cinema iraniano che potrebbe quasi essere definito à contraintes se la natura censoria degli ostacoli che deve superare e delle norme a cui deve sottostare per arrivare sugli schermi non rendesse azzardata l’allusione alla letteratura sperimentale.

Orso d’Oro a Berlino 2015, Taxi Teheran di Jafar Panahi è a più livelli un corpo a corpo con i dettami del regime teocratico. Si tratta infatti del terzo film che il regista realizza dopo essere stato condannato nel 2010 a una pena di sei anni di reclusione più venti di interdizione dall’espatrio, dal rilasciare interviste e, teoricamente, dal girare film. A partire dalla sua stessa esistenza questo lavoro interroga quindi le possibilità, i modi e le forme per fare cinema a dispetto della censura e della repressione. A differenza di This Is Not a Film (2011)risultato della collaborazione con Mojtaba Mirtahmasb, e di Closed Curtain (2012), co-diretto insieme a Kambozia Partovi, Taxi Teheran è firmato dal solo Panahi che, dalle ambientazioni in interno dei due lavori precedenti, passa agli interni di un taxi trasformato in cellula filmica mobile capace di mimetizzarsi nel traffico della capitale iraniana.

Con il regista al volante e vari dispositivi leggeri di ripresa al suo interno (tra cui una camera fissata al cruscotto, un videofonino, una digitale compatta), il taxi transita imbarcando vari personaggi che, come frammenti di un mosaico, compongono un ritratto della società iraniana e dei conflitti etici che la segnano: un losco trafficone dalla doppia morale, un contrabbandiere di dvd pirata che spaccia film occidentali allo stesso Panahi (“il mio in fondo è un lavoro culturale”, dice), due anziane superstiziose, un aspirante regista senza idee, l’avvocata Nasrine Sodouteh impegnata sul fronte dei diritti civili e la piccola nipote del regista, Hana.

Il film affida alle sequenze con la bambina, che desidera partecipare a un concorso scolastico per cortometraggi, la riflessione sul rapporto tra libertà creativa e potere teocratico, un potere che condiziona la diffusione di qualsiasi film al rispetto di una serie di regole assurde. Per esempio, ogni personaggio buono deve portare un nome islamico e non persiano, sfoggiare una barba e non avere cravatta al collo, ovvero essere in tutto e per tutto il contrario dell’uomo mite e gentile con cui Hana e Jafar a un certo punto si intrattengono. Tra tutte le regole, poi, la più importante impone di non “incupire” la realtà il che, come ha modo di constatare la bambina, rende impossibile filmare la vita quotidiana, troppo densa di quella miseria e disperazione che il regime si rifiuta di vedere e far vedere. Nel semplice eppure profondo dialogo tra zio e nipote emerge quindi tutto il dissidio tra verità di regime e quel realismo sociale che sin dagli esordi anima il cinema di Jafar Panahi.

Come in Dieci (2012) di Abbas Kiarostami, l’idea è perciò di utilizzare il taxi come mezzo tramite cui la realtà entra nello spazio del cinema. Ma, sia chiaro, tutto ciò a cui assistiamo è “reale” nella misura in cui l’avvicendarsi di passeggeri a bordo è un “effetto di realtà”, vale a dire un artificio capace di disvelare qualcosa del vissuto che altrimenti ci sarebbe incomprensibile perché confuso nella selva magmatica dell’esistente.

Infine, oltre a essere un viaggio nei meandri della società iraniana e una riflessione non priva di (auto)ironia sulle bizzarrie della censura di stato e della condizione del regista stesso, Taxi Teheran è anche un viaggio attraverso la filmografia di Panahi di cui numerosi sono i titoli citati e omaggiati: da Il palloncino bianco (1995) a Lo specchio (1997) da Oro rosso (2003) a Offside (2006). L’effetto è quello di una macchina che mentre si apre verso la realtà esterna opera anche un lavoro riflessivo, come se di fronte al muro delle costrizioni il regista sentisse il bisogno di fare il punto sulla sua personale situazione creativa. Come dicono i francesi, il faut reculer pour mieux sauter.