In tanti si sono scagliati contro Joy e ci si domanda da dove venga tanta veemenza contro un film di un regista non certo tra i più interessanti in circolazione. Forse dal fatto che David O. Russell lo si è difeso a ogni costo per anni: Three Kings è una solida canzonatura di genere, I Heart Huckabees è una commedia strampalata e folle, Il lato positivo una riflessione sognante che coniuga schizofrenia e crismi da rom-com. Fino all’epopea American Hustle: trionfo di gigioneria, atmosfere guascone, gli anni Settanta, etc. Parafrasiamo: David O. Russell è uno che piace ai critici americani, quelli che non riescono a resistere alla tentazione di celebrare un connubio indigesto tra impegno, leggerezza e idiozia. Gli stessi critici che, stregati dallo “stile” (sic!) di questo regista, hanno stroncato Joy. Perché? A quanto pare, la magia è venuta a mancare. Quasi un paradosso, poiché Joy è una delle opere migliori del regista americano. Attenzione: zoom assassini, urla e contesti noiosamente proto-grotteschi non mancano nemmeno qui. Sono il contorno perfetto per raccontare la vicenda di Joy Mangano, imprenditrice dello stato di New York salita alle cronache per avere inventato il mocio. Il film di Russell è uno sbalorditivo esercizio di stile che non aggancia e non coinvolge, ma che tuttavia fa più simpatia di altri suoi precedenti. Forse perché manca quell’aura di furbizia che avvolge American Hustle e Il lato positivo; forse perché, per la prima volta, il suo cinema si mostra – con annessi pregi e difetti – in tutta la sua malcelata indolenza, fiero di comprovare finalmente la sua pigrizia autoriale. Un’opera stanca, in maniera stancamente compiaciuta: la neve cade lenta, mentre l’ardore di Joy matura in modo graduale.

David O. Russell si impossessa ancora una volta del feticcio Jennifer Lawrence e la immerge in un duplice quadro d’esperienza. Il primo è un contesto tangibile, che mette a dura prova il suo slancio imprenditoriale e si lega a un campo molto caro al regista, quello delle famiglie sgangherate tipicamente americane, che vivono in case dalle fondamenta di dubbia solidità un’esistenza caratterizzata da vomito verbale, confusione, sciatteria. Il secondo è un para-universo onirico francamente godibile, generato dalle soap – ancora una volta, tipicamente stelle e strisce – di cui si nutre il personaggio di Virginia Madsen, madre che partorisce riflessioni liofilizzate nelle quali Joy interviene più volte, costretta a confrontarsi con un declino culturale che rischia di assorbire anche il suo piglio generativo. Quest’ultimo quadro, in particolare, rende evidente tutto quello che Joy avrebbe potuto essere, ma non è: uno spietato canto del cigno della cultura americana degli ultimi trent’anni, tra imprese in ascesa, nuove forme d’economia che garriscono, personaggi volutamente necrotizzati (quelli interpretati da De Niro e dalla Rossellini). Peccato che tutto finisca per celebrare l’insopportabile formalismo da “maestro minore” di Russell. Jennifer Lawrence fa quel che può: esprimere al meglio un furore controllato e una rabbia acidula da attrice di livello, affiancata da i veterani De Niro, Rossellini, Ladd e Madsen. Nel finale, però, la sensazione di medietà compilativa, unita all’arroganza di un autore che in fondo non lo è, produce un inutile affastellarsi di livelli e piani eterogenei: e di Joy, dopo due ore di schizofrenica epopea, ce ne si vuole soltanto liberare il prima possibile.