C’è un passato che sembra sfuggire alla temporalità. Le stagioni, gli anni, i giorni scorrono in maniera quieta, segnati soltanto dall’alternanza dei raccolti e dalle morti delle persone. I migliori film di Terence Davies, regista inglese ingiustamente meno acclamato rispetto ai coetanei Peter Greenaway e Derek Jarman, ci restituiscono proprio questo tempo in cui si rincorrono i fantasmi. Con i suoi due compagni di viaggio condivide l’evidente volontà di confrontarsi con la materia filmica per mezzo di strategie d’artista, definendo innanzitutto una tavolozza di colori, una campitura che libera lo sguardo e accoglie estasi segnate da improvvisi cambiamenti di luce. Rispetto agli altri, Davies è un autore moderno, capace di servirsi della propria arte per interrogare il mondo; anzi, è un cineasta che crede nel valore taumaturgico dell’immagine cinematografica, che nel racchiudere il movimento crea un ponte tra la vita e la morte, tra l’ora e l’accaduto, tra passato e presente. In questo spazio dialettico si situano i suoi film più compiuti Voci lontane… sempre presenti e Il lungo giorno finisce, modelli ineguagliati di restituzione di un altro modo di vedere le cose e di un altro tempo, quello di una società patriarcale chiusa nelle mura domestiche.

Ed è ancora tra queste mura che Davies ambienta il suo ultimo film, Sunset Song, anche se la nuda pietra si sostituisce alle eleganti carte da parati così caratteristiche dei suoi interni. Nelle stanze spoglie di un cottage sperduto nelle campagne scozzesi cresce la piccola Chris, ragazzina dallo sguardo limpido e dall’intelligenza acuta che, da principio, la mette al riparo dalla vita nei campi. Il ritratto di un gruppo di famiglia in un interno segna la prima parte del film, più compatta e avvolgente: la violenza muta del padre, la condivisione delle sofferenze tra fratelli quasi coetanei, l’estraneità dell’infanzia, l’alterità di una madre segnata dai soprusi sono gli elementi che devono aver spinto il regista inglese a trasporre l’omonimo romanzo di Lewis Grassic Gibbon. L’atemporalità di questa società contadina, protetta dalla lontananza rispetto al crescente (e fagocitante) sviluppo delle città, sembra nutrirsi delle tragedie ataviche che diventano una trappola per madri e figlie, anche quando i talenti potevano aprire orizzonti diversi. Così, il gesto di ribellione di una donna disperata, che per depressione sceglie di togliere la vita anche ai figli più piccoli, si trasforma in una condanna filiare, dando il via a una ruota del tempo che solo l’arrivo della grande Storia, con la guerra, proverà a scardinare.

Il mondo di Chris, donna che ha le doti e l’occasione per fuggire ma poi torna al suo giogo natale (come a dire che la rottura con la tradizione è la scelta più difficile da compiere), è costituito dallo spazio contenuto nel suo sguardo: una stanza, una casa, il campo, una strada all’orizzonte che pochi amici e un marito soltanto possono attraversare. Un ponte da cui arriva il nuovo, presto rifuggito perché trasformato in fantasma di se stesso, snaturato dalla guerra (o dalla modernità), incapace di rispecchiarsi nell’altro. Questo spazio della conoscenza, che corrisponde all’arco della vista di una donna che scruta dalla finestra, è la posizione che meglio sintetizza il cinema di Terence Davies: anche quando si avventura per le strade di una città, lo fa inseguendo il filo di un ricordo contenuto in un album di foto di famiglia.

Traiettorie private che in Sunset Song dovrebbero tenere testa alla Grande Guerra, e invece accusano soltanto pesantezza dall’incontro con la crudeltà della Storia (mai esibita in maniera così didascalica dal regista). Forse perché, oggi più che mai, è difficile confrontarsi in maniera dialettica con un mondo che si rifiuta di diventare teatro. Qualcosa sfugge al calligrafismo del grande autore inglese, in Sunset Song; la stilizzazione ha una sua efficacia nelle scene d’interni ma perde nitidezza nel confronto con gli scenografici paesaggi scozzesi. Nella bellezza delle superfici rocciose e delle distese di prati si perde quel magico slittamento, ondivago e sospeso, tra presenza dei corpi e assenza dei personaggi, reso unico dalla delicatezza di una luce crepuscolare che scolpisce le sue immagini. Qui la tela si scalda, ma il fantasma svanisce, lasciandoci di fronte alla superba bellezza di una giovane attrice inglese e al forzato mutamento di un soldato tornato dal fronte.