In ascolto, come forse molti documentaristi non sanno più essere, Wang Bing continua il suo percorso ostinato lungo i confini di una Cina invisibile: in rotta verso il suo nuovo film (Youth of Shanghai, di cui si parla da diverso tempo), il regista si imbatte nelle colonie di una delle tante minoranze etniche in guerra sui confini dello Yunnan e la desolata regione di Kokang in Myanmar, ex Birmania. Persone senza fissa dimora, che vagano in una terra di nessuno, scappando da uno scontro civile che ha messo a ferro e fuoco le loro case e costretto gli uomini in età ad arruolarsi. In un campo profughi, tra baraccati e gente in transito, la camera di Wang si accende, all’inizio quasi per gioco, nell’inseguire i passi dei bambini che hanno ritrovato la loro quotidianità di scherzi e di giochi tra le tende e i bagagli, sulle sponde di un fiumiciattolo in cui si muovono in piccoli branchi.

Sono queste le prime immagini di Ta’ang, documentario presentato al Forum della 66° edizione della Berlinale: il disorientamento, dato da una mobilità della camera che non si ancòra a nessuna costruzione spaziale, pervade l’ingresso nel viaggio suggerendo forse la mancanza di una reale premeditazione e svelando la sua natura di istant-movie, ma anche offrendoci l’unico momento “estremo”, di violenza, in apertura, tra i teli di una tenda che rappresenta la sopravvivenza di un nucleo familiare, provato da un viaggio di fuga che appare subito come una deportazione senza fine. In questo esodo, di cui sono protagoniste le donne e i bambini (ma non mancano gli uomini che offrono il racconto “politico” di un’impossibile resistenza), centinaia di persone ricreano le basi della sopravvivenza in una terra brulla e inospitale, in cui l’unico modo per campare sembra legato al commercio di canne da zucchero, cedute in città in cambio di qualche busta di riso. L’immersione nel popolo in fuga avviene poco a poco, pedinando i gruppetti che si creano tra coetanei, prima i bimbi che si inseguono lungo il fiume, poi gli adolescenti intenti a imparare i gesti della sopravvivenza (il lavoro, il valore delle cose, i rapporti d’aiuto e di potere), le donne che – con estrema resistenza e senza mai perdere la propria dignità – cercano di ritrovare una quotidianità, garantendo il cibo e le cure necessarie alla propria prole e infine gli anziani che osservano, meditano e attendono al lume di una candela che improvvisamente si spegne. Nella estrema fatica in cui ogni gesto è compiuto (dal ripulire una canna al riuscire a sistemare una tenda), quasi si trattasse di domare il caos del mondo, risorge improvvisamente limpida la parola: è notte, in una suggestiva teoria di fuochi fuori dalle tende, si ritrovano piccoli nuclei familiari (ma non nel senso stretto) a condividere un racconto che brucia dentro di loro. I ragazzini ascoltano in piedi, gli adulti trovano il loro momento di riposo in cui tenere in vita una storia personale che è anche una scelta politica, appartenere o meno a un esercito rivoluzionario, scegliere una fazione, decidere se abbandonare la città perdendo la propria sicurezza economica. Scelte o imposizioni, l’uomo e la Storia, un racconto che sembra non avere fine, alla luce di un focolare che abbaglia e stordisce, trasformando queste famiglie negli ultimi uomini sulla Terra (o forse i primi?), perché nella forza delle loro parole si ritrova la necessità della testimonianza e la lucidità di un racconto che costruisce profondamente l’uomo.

Di fronte al lavoro impressionante e limpido che ci sta offrendo Wang Bing vengono in mente le parole dell’etnografa Germaine Tillion che durante gli anni della carcerazione (per motivi politici durante la Seconda Guerra Mondiale) e della successiva deportazione nei campi seppe tenere in vita la sua volontà di comprendere il mondo, introducendo l’essenziale distanza tra sé e l’esperienza vissuta. I suoi scritti da Ravensbruck sono: “annotazioni molto scarne […] per restare in uno stato di riflessione, di vigilanza, nell’al di là da sé”. E proprio questa difficile dialettica è quella attorno al quale ruota l’opera di Wang, dettata da un’urgenza testimoniale nei confronti di una Cina la cui popolazione sembra segnata da un orizzonte di deportazione. Che siano i campi di prigionia nel deserto del Gobi (La fossa) o le celle dei centri psichiatrici nel cuore delle capitali nell’ascesa del capitalismo (Follia e amore) poco importa, l’attenzione si focalizza sui corpi degli esclusi, macilenti e solitari, ai margini di un potere che divide, punisce e allontana. Il regista può soltanto accompagnare in questo periglioso cammino, facendo sentire la propria presenza al fianco di un popolo (questa volta possiamo proprio chiamarla una comunità) che non smette di sperare. Mettendosi a servizio di voci che non sono la sua, ma con le quali condivide uno stato d’urgenza, pronto a collocare questi uomini e queste donne fuori dal tempo (grazie alla forza del suo cinema) ma anche drammaticamente legate alle contraddizioni della società a cui appartengono. Come è chiaro nell’ultima mirabile sequenza: al mattino una donna è in viaggio su una strada desolata, con zaino in spalla, bambini al fianco e una vecchia zia. Cammina, instancabile, tra i giochi e i capricci dei figli, tenendo d’occhio l’anziana, scrutando un orizzonte incerto. Alla fine approda a una baracca, evidentemente soddisfatta sistema i più piccoli e poi tira fuori un nuovo modello di cellulare e chiama qualcuno per rassicurarlo: “Stiamo bene, ho trovato la baracca. Stanotte staremo qui tutti insieme”. All’orizzonte si sentono lontani i rumori delle bombe, che irrompono a indicare un fuori campo incombente. Una guerra di cui non si indagano le motivazioni, ma si osservano le conseguenze sulle vite delle persone perchè “le nobili cause non sono eterne. Eterna (o quasi) è la povera carne sofferente dell’umanità”, come scriveva Tillion.