Vale ancora la pena seguire il Festival di Cannes?

Se lo chiedono, forse retoricamente, anche su le pagine di Libération: 40.000 mila accreditati, una selezione in grado di presentare nell’arco di una dozzina di giorni gran parte di quanto proporrà in termini di opere rilevanti la stagione a venire. Essere a Cannes significa prendere parte a una kermesse unica, caotica, talvolta delirante nei ritmi imposti, climaticamente instabile e gerarchicamente stratificata, tanto faticosa quanto esaltante: a oggi, è l’unico festival davvero imperdibile per chiunque intenda farsi un’idea condensata delle tendenze del mercato, da una parte, e della produzione più “autoriale”, dall’altra. E non a caso sono tutti qui: direttori e selezionatori di festival, testate di settore, giornalisti e quotidianisti, fino a recensori, blogger, cinephiles e semplici aficionados di mezzo mondo. Tutti pronti a sfidare intemperie e stanchezza pur di perseguire il proprio intento: vedere il più possibile.

Il concorso: sulla carta, l’impressione è quella di una buona annata, dal raccolto ricco, ma che andrà messa al vaglio. A prima vista ci sentiamo di scommettere sui nuovi film di Dumont (Ma loute) e Guiraudie (Rester vertical), sugli attesi ritorni di Andrea Arnold e Maren Ade (rispettivamente con American Honey e Toni Erdmann); sappiamo che Assayas (Personal Shopper) difficilmente ci deluderà, così come Jarmusch (Patterson) e Brillante Mendoza (Ma’ Rosa); mentre attendiamo conferme da Xavier Dolan (Juste la fin du monde), Kleber Mendonça Filho (Aquarius) e Jeff Nichols (Loving), che dopo una bella partenza non ci ha mai convinto del tutto. Più a rischio Refn con The Neon DemonMademoiselle di Park Chan-wook e Elle di Verhoeven, cui i Cahiers di questo mese dedicano un’ampia apertura. Fuori concorso, tra le “Séances Spéciales” tre pezzi da novanta: Albert Serra con La Mort de Louis XIV, Paul Vecchiali con Le cancre e Exil di Rithy Panh. Bonello è il grande assente: il suo Nocturama (forse un film scomodo nell’affrontare i nuovi terrorismi) si è appena saputo, sarà a San Sebastian a settembre.

Tra i 17 film che compongono la sezione Un Certain Regard, densa di opere prime, da tenere d’occhio La danseuse di Stéphanie Di Giusto e The Transfiguration di Michael O’Shea, oltre che After the Storm di Kore-Eda Hirokazu. Alla Quinzaine des réalisateurs sembra mancare l’opera in grado di monopolizzare l’attenzione dei cinefili (nel 2014 P’tit Quinquin, Arabian Nights l’anno passato) e la selezione di opere italiane è a dir poco sconcertante, tanto da far dire all’impavido direttore della Viennale Hans Hurch che “il cinema più nuovo e radicale non passa da Cannes, e in questi ultimi anni persino la Quinzaine è diventata la caricatura del concorso principale” (Libération). Noi puntiamo con certezza su I tempi felici verranno presto di Alessandro Comodin, incluso nella Semaine de la critique insieme a Victoria di Justine Triet (affermatasi con La Bataille de Solférino), Grave di Julia Ducournau e Diamond Island di Davy Chou, e da oggi cercheremo di fornirvi un aggiornamento puntuale e quotidiano delle nostre visioni. [Alessandro Stellino]

Il film d’apertura: gli ultimi fuochi di Woody Allen

Nessuno si aspetta più niente da Woody Allen. È già stato scritto a profusione su quanto il regista ormai si muova esclusivamente all’interno di quello che è diventato il suo genere: la commedia (più o meno romantica, più o meno amara) d’ambientazione altoborghese. La sfida sembra, allora, trovare qualcosa da salvare: se non qualcosa di nuovo, almeno qualcosa d’interessante. Una sfida che sembra quasi impossibile nel caso di quest’ultimo Café Society.

Anni ’30. Bobby (Jesse Eisenberg) è un ingenuo ragazzo ebreo che da New York si trasferisce a Hollywood per lavorare con lo zio produttore e che finisce con l’innamorarsi di quella che crede essere la semplice e idealista segretaria di lui, ignorando l’affaire che lega i due. Nasce così il triangolo che occupa la prima metà del film. Ma Vonnie (Kristen Stewart) sceglie lo zio, e Bobby torna nella sua più congeniale città natale, dove fonda un nightclub (il “Café Society” del titolo), e si sposa con un’omonima del suo primo, indimenticato amore. Allen tratteggia un romanzo di formazione in due atti, con una conclusione mancata. È questo forse l’elemento di novità in una trama già vista: se i suoi film puntano spesso tutto sulla svolta, stavolta la redenzione dalla banalità, dalla noia, dal destino, non si dà. Non basta l’incontro col passato, né che dietro al cambiamento dei due si possa ancora scorgere la reciproca promessa di non rassegnarsi a una vita convenzionale. Niente, nemmeno l’amore, può più salvare i personaggi dal vivere coerentemente il cliché che sono diventati, riflessi di due mondi distanti ma in fondo molto simili: quello del glamour hollywoodiano e quello dell’alta società metropolitana. Due ambienti tratteggiati in modo pressapochistico dal film, e dispiace, perché sarebbero due miniere inesauribili di spunti di riflessione (sul primo l’esempio più vicino è sicuramente Ave Cesare! dei Coen, mentre su una certa New York pochi hanno saputo dire bene come lo stesso Allen dei tempi d’oro). Ma le illusioni sono finite, come il legame tra Bobby e Vonnie.

Un finale sconsolato che ricorda Gli ultimi fuochi di fitzgeraldiana memoria, privo, però, della riflessione storica sulla disillusione di una generazione. Café Society finisce perciò per essere a sua volta un cliché, una storia banale sull’amore perduto che sarebbe stato possibile ambientare in qualunque epoca, in qualunque luogo, in qualunque milieu. Purché (beninteso) benestante. A riprova di come la bolla upperclass in cui Allen ambienta le sue storie si faccia sempre più asfittica. [Elisa Cuter]